martedì 20 marzo 2012

L'inflazione culturale

~ «TROPPI MUSEI, TROPPI TEATRI»,
SOSTIENE UN LIBRO TEDESCO. ~
QUALCUN ALTRO ANDAVA RIPETENDO
SIMILI PARERI MA IN UN ALTRO CONTESTO ~


Allarmatissimi i notiziari italiani nel parlare di un libro tedesco, Der Kulturinfarkt, scritto da quattro signori che si occupano di pubbliche istituzioni culturali. Da noi, ce lo ricordiamo bene, a ogni taglio dei fondi statali per musei e concerti, c’era chi additava l’esempio della Germania felice: laggiù – si diceva in tono celebrativo – sanno bene che «la cultura è un business», che fa crescere il Pil. L’affermazione era inquietante, che gli squisiti piaceri estetici fossero mediati dalle gabbie economiche e finalizzati a maggior gloria del capitalismo risultava una immagine da brivido, ma adesso i quattro tedeschi, dall’alto della loro esperienza smentiscono questa diffusa convinzione e confermano i sospetti dell’«Almanacco»: la spesa ‘culturale’ è ormai insostenibile e folle. Ancora più aberrante, dunque, l’accoppiata tra l’arte e la ‘scienza triste’.

Il libro ancora non uscito pare – secondo i riassunti delle agenzie – riporti cifre impressionanti: dal 1981 il numero dei musei è triplicato e, dopo la riunificazione tedesca, raddoppiato il numero dei teatri, con le sovvenzioni pubbliche che sono schizzate a 9,6 miliardi di euri all’anno. Jean Clair lo va dicendo da decenni, la proliferazione dei musei, non soltanto in Germania, la museificazione del mondo («all’alba del secondo millennio il monaco Glaber guardava con meraviglia ‘il bianco mantello delle chiese’ distendersi sull’Europa. Alla fine dello stesso millennio ci si potrebbe stupire nel vedere il grigio mantello dei musei coprire l’Occidente»), è un problema su cui riflettere, non un record per far emettere gridolini giulivi agli apologeti delle magnifiche sorti e progressive del museo. Addirittura all’inizio del Novecento, lo abbiamo ripetuto tante volte, Hermann Broch metteva in guardia su siffatti pericoli: «Assolvendo i suoi doveri nei confronti della tradizione Vienna scambiò per cultura la passione per i musei e divenne essa stessa […] un museo. […] La musealità era dunque riservata solo a Vienna; come segno di declino, come segno del declino dell’Austria. La decadenza verso la miseria porta alla degradazione nella vita puramente vegetativa, ma la decadenza verso la ricchezza porta al museo. La ‘musealità’ è appunto un vegetare nella ricchezza, un vegetare nella serenità. E l’Austria allora era un paese ricco…». Adesso però sono dei manager di musei e teatri che «chiedono di mettere fine allo spreco di fondi pubblici», e subito i media si inchinano devoti. Con la pedanteria dei tedeschi che controllano sempre lo scontrino all’uscita dei supermercati, gli autori fanno quattro conti e si pongono una domanda: «Sarebbe forse un’apocalisse se sparisse la metà dei teatri e dei musei e alcuni archivi e sale da concerto venissero raggruppate?». Sul libro ancora in allestimento si apre un dibattito, le pagine della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» ospitano degli interventi a favore di una soluzione drastica, l’eco arriva fin qui e terrorizza le corporazioni che su quei soldi pubblici campano e prosperano. Ma circa un anno fa, nel dicembre 2010, le stesse cose le aveva dette con garbo torinese e con linguaggio meno sociologico Guido Ceronetti in un articolo per «La Stampa»; furono rubricate tra le stravaganze di un vecchio. Chi si ricorda del suo amen di fronte al denaro che scarseggia per le imprese culturali? Provava a immaginare un’Italia priva della Scala, evitando le nostalgie delle soubrette in pensione: «Se con un bilancio divoratore della Scala la saggezza dello Stato (mai ci fosse) potesse restaurare degnamente Pompei, non esiterei un momento a dar tutto agli scavi e a proteggerli dall’incuria e dalla sporcizia. […] L’Opera, come il cinema, vixit. Il suo illanguidimento progressivo è inevitabile». Per concludere con una frase scandalosissima all’orecchio dei bigotti: «se la Scala chiude, che male c’è?». Questo «Almanacco» plaudì, quasi solo.

Un’altra discussione suscita il libro dei tedeschi, portando altre cifre che colpiscono come dardi l’opinione pubblica: «A interessarsi all’offerta culturale è solo un’élite colta e ricca, al massimo una percentuale della popolazione compresa tra il 5 ed il 10%», ma «i politici preferiscono inaugurare un nuovo museo o un altro festival, invece di chiedersi il senso di queste nuove istituzioni». Le centinaia di pagine dell’opera di Fumaroli sul senso del contemporaneo, ora uscita pure in italiano, lasciano indifferenti intellettuali e politici; forse l'élite è meno colta di quel che si pensa, forse solo ricca. Il birignao rococò sulla elevazione spirituale delle masse fa breccia.

All’origine dell’inflazione culturale troviamo l’assunto che l’arte è alla portata di tutti. Se si tratta di emozioni, chi non è capace di provarne? Ed ecco la ‘critica’ del «Corriere della Sera» informarci oggi sulla sua esperienza al Pac di Milano. Sotto la direzione di un’anziana punitrice di se stessa, del proprio corpo, anche lei come altri giornalisti e spettatori si è sottoposta a piccoli esercizi di molestia fisica per vivere il pathos di un artista corporale, convinta di essere stata ingranaggio di un’arte «che si è proposta di elevare lo spirito umano verso le cose ultime». Che esagerata: da una parte si trasforma in arte ogni batticuore, dall’altra la si eleva a qualcosa che soltanto la religione ambiva rappresentare, essendo l’arte tradizionale, quella di Tiziano o di Canova, tecnica elaboratissima, non ancora introduzione al Paradiso.

Ad ascendenze più rustiche sembra invero richiamarsi l’usanza del pubblico costretto a esibirsi. Già una trentina di anni fa il teatrino di Raimondi e Caporossi bendava e chiudeva in un sacco lo spettatore ancora fuori dell’edificio per trasportarlo impacchettato in un luogo misterioso. Un passo successivo potrebbe essere la bastonatura crudelissima, chiamiamola body art, il salto mortale che risolve annullandolo il complicato concetto di rappresentazione. Il passo precedente era quel che capitava agli ingenui disposti a salire sul palco dell’avanspettacolo, a far da cavia all’elettricità della platea trucida. Si ricorda al liceo un professore di greco che, spiegando il teatro antico, le lascivie delle rappresentazioni pagane vituperate da sant’Agostino, si raccomandava: «ragazzi, non vi prestate mai a essere il parafulmine dei lazzi del pubblico», chissà forse memore di un’esperienza personale in cui magari l’Angelo Azzurro si era posato su di lui. Fellini aveva messo in scena nelle Notti di Cabiria la sventurata donna che faceva il passo fatale, lasciando il suo posto in platea per offrirsi alle luci del varietà, manipolata dal mago e dagli spettatori complici. Performer borgatara, era l’eroina di un racconto cinematografico, non «si ribaltavano le parti», come direbbe la signora sul «Corriere», il pubblico non giocava all’artista secondo vecchie inversioni romantiche, secondo «il teatro nel teatro», una trovata di Ludwig Tieck nel 1797.

venerdì 16 marzo 2012

L'urto della magnificenza romana

~ UNA GRANDE INVENZIONE CATTOLICA:
IL BAROCCO. NELLE PAROLE DI LORENZO GIUSSO,
SCRITTORE DIMENTICATO ~

Lorenzo Giusso (Napoli, 1900 – Roma, 1957) fu pensatore, letterato, ispanista. I brani del fiammeggiante saggio che riportiamo sono tratti dalla sua relazione su 'cultura cattolica e barocco' che tenne, nel 1954, a uno dei congressi internazionale di studi umanistici, i leggendari appuntamenti organizzati dal conte Enrico Castelli Gattinara (in Retorica e Barocco, atti del convegno, Roma 1955). Neppure sul web si fa cenno a questo scritto di Giusso, nessuna bibliografia lo menziona: sepolto. Appena un aperitivo le righe che qui mettiamo on line, per invogliare a leggere le sue opere rintracciabili con un po’ di buona volontà in qualche pubblica biblioteca: Spagna e Antispagna (da Calderón a Ortega Y Gasset, di cui fu amico), Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Il viandante e le statue, con uno strepitoso saggio sul personaggio dannunziano, le poesie del Don Giovanni ammalato…).

«Il barocco emana da sé un radicale ampliamento dei canoni estetici, un’indiscriminata accettazione dell’apparenza. Quel suo straripare dai canoni rettilinei, quella sua infatuazione per parabole ed iperboli, quella sua ornamentazione agglutinata di sarmenti, di viticci, di nasse, di raggi transveberanti, di genii o di teschi, quelle sue cupole a spirale dove traspare qua e là la sagoma del tempio orientale, attestano la volontà di comprendere Iddio nell’infinità dei suoi modi, una volontà non diversa da quella che protende i suoi pinnacoli concettuali nel De Infinito, Universo et Mondi di Bruno o nell’Ethica di Spinoza. Il barocco architettonico e plastico procede alla riabilitazione di tutte le forme, al censimento di tutte le credute irregolarità o aberrazioni. È la mobilitazione di tutte le apparenze mondiali, compresi i cadaveri e i mostri. La natura e l’animalità, fino allora sottoposte a rigorosa quarantena, irrompono in massa. La pampa e il deserto, le cordigliere rocciose e le costiere oceaniche, la fauna selvaggia, i primitivi giganti dagli smisurati bicipiti forzano il tempio, già aristocraticamente selettivo come un teatro palladiano, della figurabilità. Quella fiera campionaria di mostri, di fiere, di centauri, di sileni, di colossi mitologici, dalle schiene traboccanti di pigmenti, quegli inarcamenti di groppe e di addomi stanno ad indicare nella pittura di Rubens, come nella prosa di Bruno, l’approssimazione del ferino al Divino, e viceversa.

L’epoca del Cavaliere

[Bernini] si professa disperato di raggiungere i Greci, si atteggia ad imitatore mentre è veramente il genio dell’immaginazione che mobilita tutto il magazzino delle sue risorse. Non gli bastano i corpi. Mette a contributo l’elemento ondoso, gli sciacquii della luce, fa entrare nella sua giurisdizione i vortici delle fiamme e le ondulazioni dell’etere, gli inturgidimenti della morte e gli sfioccamenti della spuma. Le sue fontane monumentali sono capricci naturali dove stanno in bilico quadrighe solari, cavalli natanti e colate e cascate di marmo divallano, e tripudi muscolari accerchiano i geroglifici degli obelischi […]. Il mondo di Michelangelo è un mondo austero: i suoi personaggi esprimono grandezze imperiose e legislative, comminano sanzioni e intonano versetti biblici. In Bernini l’immaginazione adora se stessa in una sorta di impersonalità scintillante, in un galleggiamento oceanico di tutte le apparenze e di tutte le forme.

La Controriforma è una grandiosa riconquista del mondo attraverso la taumaturgia dell’arte. Nei primi decenni di quest’epoca soprattutto, arti plastiche, eloquenza, musica, regìa spettacolare, vengono precettati ad majorem Dei gloriam. Germania, Olanda, Scandinavia non producono che commentari irosi, sillogi giuridiche, controversie o trattati delle rivoluzioni. […]

Duro è l’urto della magnificenza italiana contro quella che Bruno qualificò la ‘ribaldaria’ e cioè la mutria aggressiva protestante. È una suprema mobilitazione degli dèi e mostri, un sistema di fortificazioni delle montagne classiche, dell’Elicona e del Parnaso, ribenedette di incenso e di benzoino, contro il rigore della scienza. […]. Descartes, pur confessandosi cattolico, si allinea coi Bilderstürmer, coi rovesciatori di immagini. È forse questa la frattura del Rinascimento. La meccanica celeste surroga nel dominio degli spiriti il panpsichismo pagano. Egli vive in un mondo senza immagini, in un mondo di parallassi, di sezioni coniche di spirali, di rondelle e di particelle bislunghe […]. Prima di Wagner, Bernini ha concepito una sorta di cooperazione magica di tutte le arti: le negromanzie di Bayreuth sono state anticipate in grande scala da certi suoi monumenti (come nel grande concerto fluviale di Piazza Navona) i quali sono rocce e bacini, caverne e cascate rifabbricate dall’arte. […] Roma diventa così una serie di convegni mitologici, di grovigli spettacolari, di girandole e di fuochi d’artificio solidificati.

I diritti dell’immaginazione

Questo mondo monumentale e impressionistico, questa avventura colorata in marmo e travertino, questa mobilitazione di divinità, di obelischi, di gravitazioni statuarie e di frontespizi ellittici – è quanto l’Italia e la Controriforma hanno opposto alla critica biblica e alle controversie del diritto ecclesiastico. Alla vita come ragione si contrappone una immensa e ilare spettacolarità. Roma diventa una centrale di meraviglie immaginative e di magie sincretiste. […] Ciò che rende affascinante per gli stranieri il cattolicesimo dell’epoca del ‘Cavaliere’ e di Urbano VIII, ciò che determina il flusso delle conversioni dei protestanti olandesi e tedeschi è questa solidarietà del Verbo Cattolico con l’architettura, con le arti e con le umane lettere.

Il Romanticismo, in numerosi suoi esponenti – Novalis, Schlegel, Schelling – cattolicizza. […] Buon numero degli scrittori pre-romantici guardano all’Italia come a una terra d’elezione. […] Potremmo dire che Cristina [di Svezia] presenta, in pectore, Le Génie du Christianisme (cioè la sua apologia autorizzata dai diritti dell’immaginazione), come in lei sono presentite tutte le apologie disingannanti dell’illuminismo. L’orrore da Cristina professo per i ‘predicanti’ riformati diventerà ai primi dell’Ottocento, l’insofferenza dei poeti e ideologi romantici per le disseccate analisi del pensiero, rinvilito a sensazione trasformata che i monotoni procedimenti dell’‘ideologia’ ricondussero alla religione o, quantomeno, a un dialettismo religioso di tipo di quello di Hegel».

martedì 6 marzo 2012

La prosa di un santo

~ QUANDO ELÉMIRE ZOLLA PRESENTAVA PADRE PIO AI COLTI
E CRISTINA CAMPO NE CONVERSAVA CON DJUNA BARNES ~

Il 18 gennaio «Almanacco Romano» pubblicava una lettera di Giuseppe De Luca a Giovanni Papini sul suo incontro con padre Pio da Pietrelcina. Vi si leggeva una bella distinzione tra l’intelligenza comune e quella dei santi. Convochiamo stavolta un altro letterato, uno ‘studioso di religioni’ che non nascose un contorno sulfureo ma capace di sottrarsi alla demagogia dominante, Elémire Zolla. È cosa nota che il santo più acclamato del nostro tempo susciti l’avversione degli intellettuali, anche di quelli inclini ai dialoghi con i cattolici, anzi soprattutto di quelli che affollano i ‘cortili dei Gentili’. La loro mezzacultura tronfia si scandalizza per la semplicità antica del frate e condanna la paccottiglia che lo rappresenta nella mass culture, per poi adorare il Kitsch laico nell’industria culturale e nei musei del contemporaneo. Invece la più elegante tra i letterati italiani, colei che reintrodusse la cinquecentesca sprezzatura, Cristina Campo, ripeté molte volte e con amore il nome del santo nelle sue lettere. Così l’epistolario che è stato accostato a quelli di Tasso e Leopardi, per collocarlo quindi tra i massimi della nostra storia, racconta di guarigioni dovute al «frate taumaturgo», parla di raccomandazioni di malati allo stigmatizzato o di spiegazioni come questa: «… le preghiere che Padre Pio talvolta non riusciva a offrire per le persone più care: ‘segno che Dio chiedeva loro maggiore pazienza’…»; quando le sue interlocutrici erano in particolari difficoltà mandava loro le popolari immaginette, i «santini» che più irritano le persone colte. Addirittura in una lettera a Djuna Barnes, eroina della Festa mobile parigina, formidabile autrice di Nightwood, poetessa americana nella torre d’avorio della sua vecchiaia, confidò del cappuccino di San Giovanni Rotondo: «Uno staretz taumaturgico e stigmatizzato con il dono della profezia». E probabilmente fu Cristina Campo a sottoporre a Zolla lo scritto del frate che uscì sulla rivista «Conoscenza religiosa», nel numero 1 del 1970.

Tratto da fogli sparsi che componevano una lettera di padre Pio a un devoto, ebbe un titolo redazionale, Breve trattato sulla notte oscura, e una nota di Zolla che lo presentava come l’«ultimo taumaturgo e mistico cristiano». Aggiungendo subito dopo parole che umiliavano i letterati del tempo, alle prese con gli effimeri gingilli contestativi (e altrettanto umilia i nostri contemporanei che si confortano con gingilli apologetici della ricchezza): «È mancata la forza di un Dostoevskij a cogliere qualcosa della straordinaria ‘discesa del divino’ nell’umano cui si assistette per decenni in un villaggio di Puglia». Zolla non entra nelle questioni teologiche e meno che mai distribuisce patenti di santità, si limita a un giudizio letterario su questo inedito ‘padre Pio scrittore’: «la descrizione della purgazione sensibile e intellettuale è un pezzo classico di teologia mistica». Lo avvicinava così, anche nel titolo, al più classico degli autori mistici, Giovanni della Croce.

Anni dopo, rilascerà una intervista, Il mistico venuto dal Seicento, uscita nel volume Lacrime e sangue, in cui testimonia: «A quel tempo dirigevo una rivista, ‘Conoscenza religiosa’, dove pubblicai un saggio di Padre Pio che mi parve meraviglioso. Era scritto alla maniera dei grandi mistici del Seicento, ovvero si basava sull’interpretazione tipicamente cattolica dell’Antico Testamento. Ci sono passi impenetrabili a una mente comune, che venivano usati come repertorio di espressioni per indicare gli stati mistici, quasi ineffabili. Tutti i profeti erano utilizzati in modo perfetto da questo monaco semplicissimo, pressoché analfabeta. Usava alcune espressioni per indicare le modificazioni della psiche che avvengono a un grado molto assottigliato di allenamento. Mi parve un vero capolavoro, una rievocazione del Seicento».

domenica 4 marzo 2012

Il pane di Berlino

~ CONTRO IL LAVORO DOMENICALE ~

«Ma vi immaginate in una capitale europea, che so a Londra o a Berlino, trovare chiusi i negozi la domenica e restare senza pane fresco…». Qualche settimana fa, gli ascoltatori di Radio Tre si svegliarono con un questa frase: un gazzettiere veneto, specializzato in scandalismo, dai microfoni pubblici esortava in diretta con il suo accento cantilenante a non tener più conto dei giorni festivi, del terzo comandamento del Decalogo (che nel disegno divino viene prima del settimo, lodato dai perbenisti sensibili ai loro schei), a cancellare il «dies dominicus» che interrompe il sempreuguale pagano, a dimenticare il tempo con un orientamento, un senso, per glorificare l’eterna presenza delle merci. E naturalmente, per rafforzare l’esortazione, il più venduto tra gli autori dei libri moralisti ricorreva ai vecchi modi della propaganda dei Lumi: guardate come fanno in Cina, dicevano i Philosophes, guardate i «paesi normali» dicono adesso coloro che, nonostante i tricolori esibiti in gran copia recentemente, provano orrore per gli italici costumi. Mentivano gli illuministi quando edulcoravano le satrapie cinesi, mente il gazzettiere con le sue capitali senza riposo. Tutti sanno infatti dei particolarissimi orari londinesi dei pub, per esempio, che talvolta risalgono a ordinanze dei secoli passati, la tradizione laggiù non si fa mettere i piedi in testa dagli euroburocrati. Quanto al pane di Berlino, al buon pane nero berlinese, qualsiasi guida informa che nella città sulla Sprea i fornai chiudono alle 4 di pomeriggio del sabato per riaprire alle prime ore del lunedì (anche se da qualche tempo, alcuni negozi vendono pane nel dì di festa grazie all’espediente del selfservice). Oggi, domenica 4 marzo, promossa dalla European sunday alliance, dalle organizzazioni religiose e dai sindacati si svolge in tutto il vecchio continente una «festosa protesta» contro il lavoro domenicale. Come nei canti delle prime leghe operaie: se sei giorni vi sembran pochi…

venerdì 2 marzo 2012

Piccoli fuochi

~ CHI AVVIÒ IL RISCALDAMENTO
DELL’INFERNO NOVECENTESCO? ~

Qualche lettore si è stupito per l’articolo del 27 gennaio: c’est la faute à Artaud per gli inferni novecenteschi sembra dire l’«Almanacco»; perplessi, ci obiettano: davvero tutta colpa di Artaud? Se preferite la chiamata di correo per gli altri suoi confratelli avanguardisti, ascoltate la parola di Franz Werfel, già estremista dell’arte e della politica, che agli inizi dei Trenta si correggeva: «Ho conosciuto diverse forme d’orgoglio, in me e negli altri. Ma poiché, per un certo periodo, io stesso in gioventù ne ho fatto parte, è sulla base della mia esperienza personale che posso confessare di non aver visto orgoglio più divorante, più arrogante, più insultante, della peggiore possessione diabolica, di quello degli artisti avanguardisti e degli intellettuali radicali, gonfi fino a scoppiare per vanità maniaca di mostrarsi profondi, oscuri e di difficile accesso, oltre che di fare male. Sotto le risa beffarde e falsamente indignate di qualche beota, noi eravamo i miserabili incaricati di avviare l’accensione dell’inferno nel quale l’umanità adesso si sta arrostendo» (da Zwischen Oben und Unten).

martedì 28 febbraio 2012

La paura del treno

~ L’ANTIMODERNISMO CONFUSO
DEI NEMICI DELLA VELOCITÀ ~

Coloro che in una valle alpina vanno all’attacco confuso della modernità dovrebbero conoscere il racconto, incompiuto, di Hermann Broch, Il romanzo della montagna, dove arcaici montanari e moderni speculatori politici preparavano in perversa complicità una pozione velenosa, mortale. Si inebriavano quindi con un cocktail fatale di estremismi laddove si richiedeva lo sguardo sobrio e acutissimo per leggere le astuzie moderne. Lo scrittore austriaco concepì questa trama alla vigilia degli stermini europei: una specie di satanico contagio distruggeva le ultime stille della saggezza tradizionale. Soltanto un’affinità con le vicende attuali: della potenza tecnologica e dei suoi sottili inganni dovrebbero essere consapevoli anche i più intellettualmente pigri; appena una parodia le guerricciole luddiste di oggi.

Forse distenderebbe gli animi anche il sapere che i treni apparvero minacciosi già agli albori della corsa progressista. Non a caso il «mostro d’acciaio» era l’immagine più vincente del capitalismo e il conte Cavour, con ottimismo liberale, affermava: «La macchina a vapore è una scoperta che si può solo paragonare, per la grandezza delle sue conseguenze, a quella della tipografia, o ancor più a quella del continente americano […]. L’influsso delle ferrovie si estenderà su tutto l’universo». Avvento della globalizzazione. La macchina a vapore era quella che correva come un cavallo magico e meccanico ma che nello stesso tempo opprimeva i nuovi schiavi nell’inferno delle fabbriche. Il mondo venne avvolto rapidamente dalla rete ferroviaria, e la forma del viaggio cambiò. Victor Hugo scriveva: « Ho fatto ieri il viaggio da Anversa a Bruxelles e ritorno […]. La velocità è inaudita. I fiori ai bordi del campo non sono più dei fiori, sono invece delle macchie o meglio dei raggi rossi o bianchi; non ci sono più punti, ma solo dei raggi; i campi di grano sono delle grandi capigliature bionde; le lucerne sono lunghe trecce verdi; i borghi, i campanili e gli alberi danzano e si mescolano follemente all’orizzonte; di tanto in tanto un’ombra, una forma, uno spettro appare e sparisce come un lampo accanto alla portiera; è una guardia ferroviaria. La sera, al ritorno, cadeva la notte. Ero nella prima vettura. La locomotiva fiammeggiava davanti a me con un rumore terribile, e grandi raggi rossi che coloravano gli alberi e le colline, girando con le ruote». Ma non si trattava soltanto di percezioni, di immagini impressioniste che presto diverranno dei quadri. Né soltanto dei «concetti elementari del tempo e dello spazio [che] hanno cominciato a vacillare» (Heine). I romantici partivano all’attacco della ferrovia, gridando contro la «volontà d’acciaio» (von Arnim) che faceva violenza alla natura. Wordsworth si rivolgerà alle montagne: «ora per vostra vergogna, una Potenza, la sete del Denaro / che governa sulla Gran Bretagna come una stella malefica / vuole che la vostra pace, la vostra bellezza siano vendute, / e che una strada venga aperta perché il suo carro trionfale / possa stringere le vostre braccia attraverso gli amati recessi!». I poeti rimpiangono «il piede vivo del cavallo sul selciato» (Vigny) e non si lasciano consolare dalle nuove comodità. Il treno è il nemico della natura. Gli illuministi hanno «appiattito il mondo» (Musset) con le loro macchine semoventi. «La belva di ferro ribolle come un vero temporale» scrive il poeta tedesco Justinus Kerner. Il nemico è la velocità.

Ruskin arriverà a organizzare e capeggiare in Gran Bretagna un movimento che si opponeva ai treni. In una immagine plastica collocava una di fronte all’altra la stazione ferroviaria con i suoi riti industriali e la cattedrale gotica con il suo culto: una polo della falsa collettività, l'altra della vera. In molti sottolineavano il rumore e il fischio lacerante del treno che entrava nelle orecchie degli umani in cambio del risparmio di tempo. I detrattori della ferrovia hanno lasciato un lunghissimo repertorio abbastanza monotono, va detto, cui si contrappone un elenco altrettanto lungo dei celebratori della religione della velocità che stringe insieme popoli e città. Alcune delle citazioni riportate sono tratte da un ricco volume antologico di Remo Ceserani pubblicato da Marietti (poi riedito da Bollati Boringhieri), Treni di carta, che a sua volta riprende lo studio di Marc Baroli, Le train dans la littérature française e numerose opere simili sorte nei vari paesi dell’Occidente. Un giorno, nel 1851, le lamentazioni letterarie entrarono nel Parlamento britannico e un deputato disse in aula: «L’intero paese sarà attraversato e spezzettato da strade di ferro. Dovunque ci sarà un villaggio o un sentiero per le mandrie un mercato o una manifattura, ci sarà una ferrovia, gli oggetti fisici e i diritti privati saranno fuscelli di paglia sotto le ruote del carro del Re del Fuoco. Le montagne saranno tagliate e bucate; le valli livellate; i cieli scalati; la terra si riempirà di tunnel; si farà irruzione in parchi, giardini e terreni ornamentali; la locomotiva dal fischio stridente porterà il caos della città nei recessi silvani della vita pastorale; treni madidi di vapore penetreranno le solitudini finora intatte delle rovine antiche; le locomotive fischianti correranno sulle cime delle case». L’immagine finale potrebbe esser tratta dalla glorificazione futurista come dalla apocalittica laica che ogni giorno moltiplica le sue minacce e i suoi fedeli.

In un’apologia della bicicletta, anzi in nome della «sensazione dolorosa del viaggio» e contro la velocità che trasporta gli umani fluidamente, facendo dimenticare la realtà della distanza spaziale, Alfredo Oriani chiedeva al lettore: «Che importa se il vagone percorre la campagna più rapido del vento, sfondi le montagne, si fermi a tutte le città e ne riparta; se in pochi giorni possa toccare gli opposti confini di un continente e potrebbe forse in meno di un mese compiere il giro dell’Equatore? Dentro i suoi giganteschi cassoni l’uomo non è più di una merce […]. Egli non saprà mai nulla dei paesi attraversati e non avrà probabilmente corsa tutta la terra che per vedere la stessa capitale a ogni migliaio di chilometri, incontrando nel vestibolo del medesimo albergo gli stessi visi di camerieri e viaggiatori» (Bicicletta, Zanichelli). Era il 1902, quando l’antipositivista Oriani scriveva queste righe, ormai le critiche di destra e di sinistra al progresso si incrociavano. Pochi anni dopo, il fascismo si impadronirà dell’opera di questo scoppiettante letterato romagnolo che aveva già lasciato il mondo. Dall’altro estremo, anche Gramsci gli rendeva omaggio. Il treno, l’immagine mobile del moderno, ancora una volta stava molto a cuore ai politici.

Abbiamo dimenticato questa battaglia contro la ferrovia dal momento che essa è divenuta paesaggio quotidiano, un'abitudine antica ormai. Nessuno sembra mettere in discussione il treno, anzi la sinistra in particolare ha fatto una bandiera della strada ferrata – organizzata, collettiva, pubblica e per lo più statale – contra l’individualismo selvaggio dell’automobile. Ma nella crisi finale della destra e della sinistra, smarriti tutti, davvero disorientati tra il passato e il futuro mitizzati, risultano delle vittime della modernità dispiegata che si è sostituita a Dio.

lunedì 20 febbraio 2012

Inverno romano

~ LA NEVE, IL GAUDIO E I VERSI ~

Archiviando la nevicata romana 2012, questo «Almanacco» che ne ha viste molte altre ricorda come nei decenni passati si accogliesse il bianco manto con maggiore giubilo, i bambini vocianti per le strade, le persone d’ogni età estasiate e liete (nel 1958, ad esempio, Cristina Campo scriveva euforica per questa subitanea e allegra discesa dei fiocchi su Trinità dei Monti già al confine con la primavera e sognava di accordarla al rito della conversazione con gli amici fiorentini, cui è dedicato l’ultimo suo epistolario appena pubblicato), senza l’angoscia indotta dai media e soprattutto dallo sgraziatissimo sindaco con le sue mosse scriteriate (paghiamo di più i politici se vogliamo che accorra in quei luoghi qualcuno che vale), senza le ordinanze che tenevano tutti a casa in un vano coprifuoco e senza quell’aria da piccola apocalisse che i laici tirano fuori a ogni occasione insolita. Insomma stavolta non sembrava la festa mobile decisa dal cielo che repentinamente cambia i colori e le dimensioni dei nostri spazi urbani, la beata sospensione della vita quotidiana, la calma, gli echi, il camminare impacciato come da infanti, affondando o scivolando… Non risuonavano le grida di allegrezza né le risate piene per la smentita, con simili freddi siberiani nel Mediterraneo, delle tesi sinistre sulla desertificazione del pianeta. Ma di tali meste reazioni forse una causa risiede anche nell’invecchiamento della popolazione.

Allora davanti a un fenomeno meteorologico tanto raro a Roma, l’«Almanacco» ricorre a un dono altrettanto d’eccezione e pubblica dei versi poetici di cui è programmaticamente avaro. Per l’inquietante senso di assenza che ha accompagnato l’imbiancamento della città, per il vuoto apertosi fin dalla prima sera – dopo le code di auto in periferia e gli abbandoni selvaggi delle carcasse, nel centro storico non c’era più un umano, non ragazzi che giocassero a tirarsi le palle ghiacciate, non adulti curiosi, non vecchi commossi: se ne stavano tutti rinserrati, stupiti e impauriti i sempre più scarsi abitanti della city da uffici, all’ora di cena di un venerdì, di solito giorno di struscio e di caos –, per quello sgomento di fronte a un evento naturale che scompagina la nostra vita avvolta dalla tecnologia ecco una poesia di Sergio Solmi su un algido emblema, barocco come si conviene a questa città: La rosa gelata.

«La rosa / che l’inverno dischiuse, / svolse, innervò, arricciò, / vetrificò / d’incarnatini zuccheri, / venò d’impercettibile sangue. Fissata / nel suo gelo oltrevita, la penso / perfetto emblema d’un giorno, a disfarsi / non destinata foglia / dopo foglia nel molle / sfacelo delle stagioni, ma come / aereo, spettrale cristallo, di colpo / a frangersi» (dicembre 1968, in Quadernetto giallo, Adelphi).

lunedì 13 febbraio 2012

Teatrino del sacro

~ PICCOLE BLASFEMIE DELL'ARTE ~

Nel bellissimo silenzio che avvolge Roma sotto la neve, nella maggiore distanza dal mondo imposta in guisa monacale e guerriera dal manto bianco, appaiono null’altro che parodistici molti discorsi dei contemporanei, soprattutto in campo artistico, sul sacro. Anche i teatranti adesso, piuttosto che fare vibrare il Verbo e mostrarne la straordinaria risonanza, si atteggiano a teorici e cincischiano sul rito, confondendo il mysterium tremendum con il sensazionale, la ierofania con lo show, con lo spettacolare appunto. O riducendolo al mostruoso, alla paura indotta nei lunapark. Sacro senza canone, senza sacramenti, senza sacerdoti (sacer-dot colui che introduce al sacro in quanto officia il sacrificio). Ora il sacerdote è tale perché autorizzato dalla divinità a compiere sacrifici, dunque vicino al Cielo, colui che conosce Dio. Quando si parla di sacro senza Dio ci si aggrappa invece all’esteriorità del rito, al gioco dei bambini di un tempo che «facevano l’altarino», ma senza il loro candore. Che ne è del «timore sacro»? Gli angeli rilkiani almeno se ne presentavano ancora messaggeri benché velati da luttuose quanto ambigue vesti liberty. Non basta annunciare alla maniera della gnosi il dolore del mondo, compiacersene nei versi splendenti e duri come cristallo di rocca, finire annegati in quel nulla che pure ammaliò i mistici. La liturgia soltanto sa rendere visibile e salvifico il «mistero tremendo». Il Vangelo anzitutto ci dice – come ricordava il cardinale Ravasi in una dotta conferenza dell’altro ieri sulla fisicità di Gesù – di un Dio che «si fa cadavere, cadavere manipolabile» nelle mani imbalsamatrici di Giuseppe d’Arimatea. Il Dio che percorre fino in fondo la parabola umana per poi risorgere è il cuore della liturgia cattolica. Non un banchetto conviviale, un incontro di anime elette, è la messa. Meno che mai un teatro. Vi si celebra uno spaventevole evento: la morte del Dio umanizzato e il riscatto che ci assicura, di cui quella morte è pegno. L’orrore che ne provarono i moderni, a cominciare da Lutero, indica come questo sia veramente il più tremendo dei misteri e perciò subito esorcizzato dai suoi seguaci (una eco letteraria si avverte nell’incubo disegnato da Jean Paul con il Discorso del Cristo morto che doveva segnare anche Nietzsche). Perfino dell’eucarestia, del dono del corpo, della frantumazione del corpo che si sarebbe realizzata nelle torture del processo e nella pena della crocefissione, si tende nel cristianesimo d’oggi a nascondere l’aspetto sacrificale per ridurlo a un banchetto fraterno durante il quale ci si accosta a un nutrimento simbolico. Non resta che il secco rito romano antico a sottolineare il carattere cruento di quella immolazione sul Golgotha, l’offerta al Padre del corpo massacrato del Figlio, la consumazione del sacrificio, la salvezza guadagnata in quel pasto. Che sono allora tutte le elucubrazioni dell’arte che si vuole sommamente blasfema di fronte non a una rappresentazione liturgica quanto a un vero e proprio sacrificio, anzi a quello che tutti li riassume? Che valgono le messe in scena delle peggiori sordidezze, l’eterno theatrum mundi, a confronto del più tragico fatto storico, l’uccisione di Dio? O le sorprese più magiche di fronte al miracolo della vittoria sulla morte?

Il protestantesimo separava il pastore dal sacerdote, concedendo a tutti i cristiani il privilegio del levita, così nel mondo moderno i profani ormai orgogliosi di un tale «sacerdozio universale» tentano di riconsacrare l’arte, celebrando riti approssimativi, cerimonie sincretiste, frammenti di sacrifici delle varie religioni, paganesimo di risulta. Nel frattempo gli antropologi hanno trasformato l’aggettivo «sacro», facendolo diventare un sostantivo. Di questo oscuro fenomeno, non più rischiarato dalla religione cui si accompagnava, si impadronirà il surrealismo e il suo «Collège» acefalo, offrendo piccole consolazioni agli atei e promettendo assai agli artisti velleitari. Il messianismo adesso allignava nelle avanguardie, i gesti banali si volevano assoluti. Trescando con la magia e le convulsioni di massa si credeva di far rinascere il mito, di dar vita a nuovi sacri misteri. Predecessori erano stati l’esoterista Rudolf Steiner quando celebrava i misteri di Eleusi o il poeta Stefan George nei suo cenacoli. Non necessariamente riti satanici, queste imitazioni della liturgia divina suonano anche involontariamente caricaturali.

mercoledì 1 febbraio 2012

L'antieroismo

~ PERCHÉ GLI SFOTTÒ SULL’ITALIA
NON FINISCONO MAI ~

In casa, l’altro giorno, ci rammentavano l’affaire Méduse, la nave francese arenatasi all’inizio dell’Ottocento sulle coste della Mauritania. Géricault raccontò nei dettagli i tormenti dei passeggeri, la celeberrima Zattera trascinava per mare morti e vivi. Scandaloso fu il comportamento del comando della fregata, se ne discusse a lungo con varie ripercussioni politiche, e l’opera d’arte rilanciò la faccenda, ma nessuno rise, non si trattava di una barzelletta etnica. Lucrezio, nel De rerum natura sottolineava che «Bello, quando sul mare si scontrano i venti/ e la cupa vastità delle acque si turba,/ guardare da terra il naufragio lontano:/ non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina,/ ma la distanza da una simile sorte» (II, 1-4), su quei versi Hans Blumenberg meditò a lungo, erano la metafora della vita contemplativa. In televisione non c’è solo l’immane distanza, anche lo spettacolo, per cui se ne gode come al cinema: la scatola davanti al divano è terribile, «fa rallegrare dell’altrui rovina», si tratti del naufragio o degli arrestati in catene, dà coraggio tra i cuscini del soggiorno, superbia morale tra le mura domestiche. Talvolta il triste spettacolo è globale, così gli stolti che pensavano bastassero le dimissioni del Cavaliere dalla guida del governo italiano perché gli stranieri smettessero di sbeffeggiare il belpaese, gli ingenui che erano davvero convinti che il colore politico della coalizione vincitrice alle elezioni potesse allarmare la democrazia europea, i parvenus che sorridevano di ogni gesto poco scontato del Presidente, di ogni violazione delle regole piccolo-borghesi, le maestrine che provavano vergogna per ogni sua paronimia, gli ignoranti che non ricordavano come in pieno Rinascimento, quando nessun posto al mondo era più sublime del nostro, un frate sassone, e con molta eco, ci riempì di insulti, paragonandoci ai peggiori delinquenti, corrotti, blasfemi, sacrileghi, ladri, truffatori, spergiuri… ebbene, tutti costoro son serviti: soltanto «la Repubblica», giornale dei cuori semplici, poteva convincere le pie anime che lo sfottò internazionale sarebbe finito una volta cacciato il tycoon lombardo. Dimenticando che nel Settecento già deridevano la nostra decadenza pur non avendo mai riconosciuto l’apogeo di questa civiltà, che nell’Ottocento disdegnavano l’italica arretratezza trovando qui dei seguaci che sembravano non sapere come fin dai tempi delle loro scorribande i barbari fossero mossi da brama e disprezzo insieme, il che spesso accade; e tutti gli scrittori a disegnarci quali scellerati, a cominciare da Shakespeare, i filosofi a teorizzare la nostra inferiorità eterna, gli uomini della strada a farci il verso, per cui nel primo Novecento il povero Filippo Tommaso Marinetti, appena sbarcato a Parigi con grande vanto d’esser italiano, passava il suo tempo a sfidare a duello i denigratori, i francesi che sputacchiavano spernacchiando nel commentare ogni cosa proveniente dall’altra parte delle Alpi, sulle orme di Stendhal, pur invidiandoci molto come il loro romanziere; più recentemente, i tedeschi ci condannavano per mancanza di valore bellico, maledicevano le alleanze con simili infingardi e intanto, sui campi di battaglia, guadagnano assai poco dalla loro arte militare. Insomma, nient’altro che l’antico odio mal truccato per il paese che non si adatta ai parametri correnti moderni benché abbia inventato la modernità. Oggi è un capitano di una multinazionale delle crociere che fa affondare una nave in un bicchier d’acqua a fornire il pretesto per l’insulto tedesco alla «codardia degli italiani», il che suscita una risposta muscolosa di un giornale milanese, alla maniera dei nazionalisti primi Novecento. I quali a loro volta pretendevano, come un baffuto politico della sinistra, che l’Italia fosse o potesse almeno diventare «un paese normale». Sciocca richiesta, la penisola italiana è irriducibile alle altre patrie. Nostra prima gloria è proprio la mancanza di meschineria sciovinista.

Questo l’antieroismo di cui si parlò spesso e che un giovanissimo Leopardi (forse riecheggiando il padre Monaldo, sicuramente Francesco Petrarca), in uno scritto poco noto, difese con bella retorica: «La nostra nazione riunita tutta sotto un sol capo sarebbe formidabile ai suoi nemici; un popolo, come il nostro generoso e nobile, colle immense risorse somministrate dal suo territorio e dalle sue facoltà intellettuali, potrebbe concepire dei vasti disegni ed ottenere dei grandi successi. Egli fu un tempo signore dell'universo, potrebbe ora gettar dell’ombra su tutte le nazioni. Ma l’Italia sarebbe perciò felice? Per asserirlo, converrebbe supporre che la felicità della nazione consista nella forza delle armi, nell’esser terribile allo straniero, nel poter con vantaggio cominciare una guerra e continuarla senza cedere, nel possedere tutto ciò che fa d’uopo per esser temuta e che è necessario per non temere, nell’abbondanza dei mezzi per sostenere la gloria dei propri eserciti e la fortuna delle proprie armi. Ma se la vera felicità dei popoli è riposta nella pace necessaria alle arti utili, alle lettere, alle scienze, nella prosperità del commercio e dell’agricoltura, fonti della ricchezza delle nazioni, nell’amministrazione paterna di Sovrani amati e legittimi; possiam dirlo con verità, non v’ha popolo più felice dell’italiano». Ai nazionalismi montanti, preferiva infatti la felicità pigra della provincia, la dolce vita che sempre sopravvive alle imitazioni penose dei costumi altrui: «Divisa in piccoli regni, l’Italia offre lo spettacolo vario e lusinghiero di numerose capitali animate da corti floride e brillanti, che rendono il nostro suolo sì bello agli occhi dello straniero. Questa specie di grandezza può consolarci di quella che noi perderemmo. Sì, noi fummo grandi una volta: noi rigettammo quei Galli, che il tempo ha resi più forti, fuori delle nostre terre, noi li cacciammo alle loro tane, noi li soggiogammo, noi li facemmo nostri schiavi. Dalle colonne di Ercole sino al Caucaso noi stendemmo la gloria del nostro nome e il terrore delle nostre armi. Tutto si sottomise al nostro impero, tutto cedè al nostro valore, e noi fummo i signori del mondo. Fummo per questo felici? Le discordie civili, le guerre, le vittorie stesse non ci lasciavano un’ora di quella pace che tutto il mondo sospira. Il tempio di Giano sempre aperto vomitava disordini e sventure. Padroni dell’universo, noi non lo eravamo di noi stessi. Ci convenne conquistare la sede delle scienze per apprendere a regolare le nostre passioni. Terribili a tutto il mondo, noi eravamo, ciò che ora è la Francia […] La nostra grandezza, la nostra felicità deve dunque consistere in fare degli infelici? Italiani! rinunziamo al brillante ed appigliamoci al solido. Quando ci si propone un potere pernicioso o una pace di cui tutto ci garantisce la durata, rigettiamo l’uno ed eleggiamo l’altra: quello ci darebbe dei nomi e questa ci dà delle cose; quello una gloria fantastica e questa dei reali vantaggi. Una nazione non deve esitare nella scelta della sua vera felicità». (Agl’Italiani. Orazione in occasione della liberazione del Piceno, 1815). Però, a quei tempi – come Leopardi osserverà in uno scritto successivo e già di parere diverso, dove si atteggia ad arcigno critico dei suoi compatrioti – ancora dell’opinione pubblica «gl’italiani, in generale, e parlando massimamente a proporzion degli altri popoli, non ne fanno alcun conto. Corrono e si ripetono tutto giorno cento proverbi in Italia che affermano che non s’ha da por mente a quello che il mondo dice o dirà di te, che s’ha da procedere a modo suo, non curandosi del giudizio degli altri, e cose tali…» (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani). Adesso, come in tutte le epoche della più rovinosa decadenza, si idolatra ogni rabbuffo o sorrisetto o moda o titolo di giornale che venga dall’estero...

venerdì 27 gennaio 2012

Un minuto della memoria

~ NEI MUSEI DEGLI ORRORI DELL’AVANGUARDIA
GIÀ APPARIVANO LE BAGATELLE PER UN MASSACRO ~

Una «giornata della memoria», e per di più affidata alla amplificazione massmediatica, alla forma trash della pubblicità, è chiassoso evento, una kermesse che pesca nel genere horror. Ben altri riti prescriveva l’ebreo Theodor Lessing dinanzi ai primi crimini seriali in Germania, quando in Haarmann. Storia di un lupo mannaro (tradotto da Adelphi), invitava a una celebrazione penitenziale collettiva. Ma appena «un minuto della memoria» – un lampo di pochi frammenti alquanto efferati del primo Novecento – può bastare ad aprire a considerazioni meno scontate sui «cattivi» in campo. Per esempio la «Lettera alle scuole di Budda» di Antonin Artaud che metteva tra i nemici da abbattere gli scrittori avversi, i giornalisti, gli ebrei, i politici chiacchieroni. Era il 1925, lo scritto concitato apparve sul numero 3 di «La Révolution surréaliste», modello culturale dell’indignazione avvenire. Nel medesimo numero, ci si rivolgeva al papa come a «un cane» cui si dichiarava guerra totale, come guerra totale era scatenata contro Dio. Elogi del Terrore, dei «nobili impulsi» omicidi nei confronti non solo degli avversari politici ma anche di quanti avevano un gusto diverso, canto poetico per «il boia che noi sapremo essere». «Liquidazione», liquidazione la parola dominante, energia distruttrice, insulti triviali, il termine «crudeltà» che sovraintenderebbe al teatro «sta per vita», diceva Artaud alla ricerca di un luogo primordiale della violenza, «il teatro della crudeltà espelle Dio dalla scena», chiosava Derrida. Al suo posto, al posto del Logos, al posto dell’«escremento dello spirito» – come Artaud lo chiamava –, magari l’escremento del corpo, secondo uno spettacolo oggi alla moda. Una uccisione è allora all’origine della crudeltà. Prendiamo sul serio le urla di questi sovversivi novecenteschi, degli annunciatori ebbri della carneficina. Nello spettacolo totale, c’era bisogno, decretava ancora Artaud, di «un po’ di sangue vero». Eco sinistra, al sangue si richiamava anche la Deutsche Passion, parodia della passione cristiana, tragedia nazional-socialista, tentativo di mescolare il moderno con il capro dionisiaco, in nome di Nietzsche. La cultura tornava a predicare il sacrificio prima di Cristo e perfino prima di Abramo. Hermann Broch, denunciava, sottraendosi a fatica alla seduzione dello Zeitgeist, il sacrificio umano (nel Bergroman). Talché Jean Clair che ha ricostruito simili esperimenti nel suo Du surréalisme considéré dans ses rapports au totalitarisme et aux tables tournantes può concludere, riferendosi ad Artaud come emblema del radicalismo assoluto, che «la mancanza di limiti della libertà non è altro che una crescente alienazione del soggetto nel suo rapporto […] con la distruzione». Chissà se gli apologeti della follia si rendevano conto della immane violenza che si sarebbe scatenata una volta annullata la diga della ragionevolezza? E ugualmente il sacro, senza un’organizzazione religiosa, affidato anzi alla capacità soggettiva e capricciosa, è minaccia, è Mania divinità della morte, demenza. Né risultò innocua l’arte che si confondeva con la vita, l’estetismo con la politica: si voleva accattivante, con i colori festosi della sovversione, ammaliante suscitatrice della commozione di massa, evocatrice di cadavres exquis, ma nei musei degli orrori dell’avanguardia si anticipava la disumanità delle stragi in arrivo. E non perché erano lì a mettere in guardia, come ci si difese a cose fatte, bensì quali veri e propri appelli al massacro si presentavano i loro «manifesti». Qualche studente, colpito nelle emozioni dalla réclame scolastica del bene, potrebbe invece credere che il male fosse una caratteristica del ‘sangue’ tedesco.

mercoledì 18 gennaio 2012

L'intelligenza dei santi

~ «MIO CARO PAPINI, LE RACCONTO DI PADRE PIO…» ~
Quante vittime della cultura, il totem potentissimo ai nostri tempi, anche nella Chiesa cattolica. Clero e fedeli si genuflettono davanti agli idoli contemporanei che vantano un qualche libro noioso. E non avvertono quanto siano malinconici quei ricami dei neo-gnostici sul cristianesimo, di quella parte colta e fine dell’inteligencja italiana d’oggi, cioè, che civetta con la luce metafisica, senza un po’ di sana fede, di miracoli, di amore. La filosofia sembra non abbia più a cuore la verità. Un prete letterato, don Giuseppe De Luca – di cui nel 2012 appena iniziato ricorre il mezzo secolo dalla morte – sapeva invece distinguere tra l’intelletto e la grazia, senza subordinare questa alla mente come si fa ormai spesso. L’amico di Mario Praz e suo sodale nelle avventure erudite, l’interlocutore cattolico di Croce e Gentile, di avanguardisti e di accademici, lo studioso invaghito dei «pensatori retrivi» dell’Ottocento che poi andava la sera a cena con Palmiro Togliatti (i preti, avvezzi al confessionale, non si scandalizzano dei peccatori, neppure dei più malvagi), si recava in pellegrinaggio sul Gargano a rendere omaggio al frate stigmatizzato che laggiù viveva, in un antro arcaico del XX secolo. Il primo viaggio risale al 1934, quando i mass media non osavano ancora vendere anche i santi, e il clamore che già si levava nasceva da una vicenda incandescente sullo sfondo della civiltà contadina come spesso si legge nelle biografie delle anime elette, ai margini della modernità: don Giuseppe, letterato del Sud attratto dalla storia della pietà, era di casa in quel mondo. Dell’incontro con il cappuccino trattò in due lettere, una delle quali indirizzata allo scrittore italiano forse più noto in quel momento in Europa, Giovanni Papini. Datata 28 ottobre 1934, la missiva si apriva con delle considerazioni sul protestantesimo, sottolineando la colpa soprattutto d’orgoglio di fra Martin Lutero, quindi passava a ricostruire la visita in Puglia al frate obbediente: non usava frasi dolciastre e toni agiografici, non attribuiva particolari virtù umane al povero cappuccino, distingueva anzi tra l’intelligenza mondana e quella spirituale.

«Padre Pio, caro Papini, è un cappuccino malingre [macilento] e ignorante e molto meridionalmente grosso: e tuttavia (badi che oltre a confessarmici ho mangiato con lui e con lui mi son trattenuto molto) e tuttavia ha con e in sé Iddio, quel Dio tremendo che noi intravediamo in fantasia, e lui ha nell’anima, caldissima insostenibilmente, e nella carne che ne trema sempre piagata e ora più ora meno, come sotto raffiche sempre più forti, gemente atrocemente. Proprio ho veduto che cosa sia il ‘santo’, non dell’azione ma della passione: che pratica Iddio. Un uomo di così scarsa intelligenza mi ha dato due, tre parole che io non avrei trovato mai sul labbro d’altri ‘uomini’: e nemmeno (e questo più duro a portare) nei libri della Chiesa. Vere interpretazioni autentiche e definitive di stati d’animo mio: seguite da soluzioni, e quindi risoluzioni. Non è la ‘clinica’ spirituale ordinaria; né c’è, d’altra parte, miracoloso e clamoroso e vistoso straordinario: c’è la ‘intelligentia spiritualis’ che è il dono gratuito di Dio. E c’è una passione, anche umana, per Iddio, caro Papini, che è cosa d’una bellezza e d’una rapinosa dolcezza che io non le dico. Né amore di donna né amore di idee sono nulla di comparabile anche perché son cose che oltre un segno, più o meno vicino o lontano, non vanno: mentre la passione per Iddio, non so come sia, arde e più arde più trova da ardere. Questo ‘sentimento’ d’un Dio e d’un uomo che si sono incontrati così, io l’ho avuto con certezza. E se un certo terrore, una certa superstizione di non offendere con superbie ironiche un possibile santo, in me c’era sul principio; tuttavia avevo ben gli occhi aperti e il cuore, soprattutto, a posto, ché, avido di suo del divino, non mi fregasse. D’altronde, nel ‘caso’ di p. Pio c’è storie molto sporche di preti paesani: e il S. Uffizio non l’ha condannato; soltanto, lo ha posto entro un cerchio di ferro, che non è male – nel nostro tempo volgare – che ci sia e lo difenda da americanistiche pubblicità e concorsi da santuario dei miracoli» (questa e le successive citazioni son tratte dal ricco saggio di Giuseppe M. Viscardi, Padre Pio, padre Gemelli e don Giuseppe De Luca in «Archivio italiano per la storia della pietà», n. 20, 2007). Le sporche storie di «preti paesani» erano quelle che polemicamente andavano raccontando i primi fedeli di san Pio per rendere pubblici i motivi delle persecuzioni del loro frate; la «americanistica pubblicità» sembra profezia di quel che accadrà in seguito, quando l’universo réclamistico parlerà a suo modo del miracolo nell’epoca della tecnica.

Nell’altra lettera, rivolta al fondatore della editrice Morcelliana di Brescia, don Giuseppe confessava: «… datamisi l’occasione d’un amico generoso l’ho accompagnato da p. Pio, uomo di Dio. L’ho amato subito, non senza sorpassare le punte di esitazioni, sospetti, incertezze: e lui, così mi sembra, anche lui mi vuol bene. Caro Minelli, che cosa terribile un santo! Non è del tipo attivo, come don Bosco ieri, don Orione oggi; è tutta una povera pasta di sofferenze, una materia di dolori. Lei sa che ha le stimmate: ma le sue stimmate innascondibili sono nell’occhio, d’una abbagliante luce, nel volto pallido e bruciato da una febbre oltremondana, nella povera persona fiacchissima e percorsa sempre da un brivido terribile, dal pensiero di Dio. In nessuno mai ho visto così presente e ‘crudele’ Iddio, ‘qui proprio Filio suo non pepercit’. Io gli misi nelle mani l’anima mia, mi ci confessai – già, c’è chi mi dice incredulo: ma incredulo sono nella loro fede, non nella fede –, e sono rivenuto stamani ancor più fermo nella mia forza. Non senza, ieri, essermi incontrato da Laterza a Bari, con B. Croce, e discusso sopra alcune idee del mio Voltaire».

Più di vent’anni dopo, a un prete suo confidente don Giuseppe scriverà ancora su questo santo particolarmente inviso agli intellettuali snob di oggi, essendo un protettore dei corpi nell’èra della virtualità, un taumaturgo che scompagina l’idolatria della scienza: «Avere amico dal 1931 un amico di Dio talmente amico di Dio e mio, è forse la cosa di cui più mi vanto, certo è quella di cui più mi compiaccio e giovo».

martedì 17 gennaio 2012

Chiese scialbate

~ I NUOVI ARREDATORI DELLA CASA DI DIO ~

Si visitano le chiese romane che la filologia senza amore ha spogliato delle vesti barocche e che il Vaticano II ha umiliato per ripicca contro il Concilio di Trento. Ogni tanto delle foto in bianco e nero riavviano la memoria di chi ancora negli anni Cinquanta vide lo sfarzo dei lampadari settecenteschi più fastosi che in un teatro, le colonne e le lesene ricoperte di velluto rosso anche ad altezze imponenti nella solennità dei santi patroni del tempio, le liturgie rubensiane, gli altari sovrabbondanti di reliquie, aurei busti e candele, sopra i quali la fede diventava tangibile, accendendo i sensi e spingendosi quindi nella frontiera speciale dove funge da «supplementum / sensuum defectui», come canta Tommaso d’Aquino nel suo Tantum ergo. Adesso i funzionari della sovraintendenza dispongono delle cose sacre in base ai loro studi pedanti, circondati dalla soggezione di preti ignoranti. Regna un gusto catacombale, revival confuso dei primi secoli, evapora così il senso di eternità che aveva sempre dominato nelle chiese cattoliche. Talvolta in quelle affidate alle nuove comunità dell’Europa orientale di ceppo bizantino tornano per miracolo gli ex-voto che riempivano ogni spazio intorno alle sante effigi, tornano le ombre e le zone buie appena corrette dal tremolio di innumerevoli candele accese dai devoti davanti agli altari prediletti. «L’ornamento presuppone una gerarchia tra le cose», diceva acutamente Sedlmayr, nell’arte senza più ornamento impera il nichilismo per cui tutte le cose sono uguali tra loro. Senza ornamento sarebbe impossibile rappresentare il sacro.

Se per queste chiese del centro storico si accompagna un europeo del Nord è necessario ricorrere ai racconti onde spiegare come simili spazi sacri che si presentano al visitatore in massima sobrietà, facendo dimenticare trascorsi barocchi e rococò o semplicemente di vistoso culto anche novecentesco, fossero ben diversi dagli ambienti protestanti cui oggi ci si sforza di somigliare. Una tempesta di ira puritana è passata di qui. Figli scapestrati hanno venduto agli straccivendoli tesori assai preziosi avuti in eredità. Però almeno nelle chiese antiche restano quadri e statue, benché scontornati e isolati secondo i dettami postmoderni, una miriade di immagini di fronte alle quali inginocchiarsi. E non è poco.

venerdì 6 gennaio 2012

La dodicesima notte senza più rito

~ MENTRE «L’EPIFANIA TUTTE LE FESTE SI PORTA VIA»
TRASCRIVIAMO UNA FRASE DI RENÉ GIRARD
SULLA FESTA TRASFORMATA IN «VACANZA A VITA» ~

«La nostra ipotesi generale sulla crisi sacrificale e sull’unanimità violenta illumina […] vari aspetti della festa rimasti fino ad oggi piuttosto oscuri. E la festa, di rimando, conferma il potere esplicativo di tale ipotesi. È opportuno osservare, però, che la cecità moderna a proposito della festa, e del rito in genere, non fa che prolungare e favorire un’evoluzione che è poi quella del momento religioso stesso. Via via che si cancellano gli aspetti rituali, la festa si limita sempre più a quella grassa licenza di svago che tanti osservatori moderni hanno deciso di vedere in essa. La perdita graduale del rito e il misconoscimento sempre aggravato non sono che una sola e medesima cosa. La disgregazione dei miti e dei rituali, ossia del pensiero religioso nel suo insieme, non è provocata da un sorgere della nuda verità, ma da una nuova crisi sacrificale.

Dietro alle apparenze gioiose e fraterne della festa deritualizzata, priva di qualsiasi riferimento alla vittima espiatoria e all’unità da essa rifatta, non vi è più in verità altro modello che la crisi sacrificale e la violenza reciproca. Ecco perché i veri artisti, ai giorni nostri, avvertono la tragedia dietro l’insipidità della festa trasformata in vacanze a vita, dietro le promesse piattamente utopistiche di un ‘mondo di svaghi’. Più le vacanze sono insulse, fiacche, volgari, più si indovinano in esse lo spaventoso e il mostruoso che affiorano. Il tema delle vacanze che cominciano a prendere una brutta piega, spontaneamente riscoperto, ma già altrove trattato in forme diverse, domina l’opera cinematografica di un Fellini». (Da La violenza e il sacro, Adelphi, p. 178)

sabato 24 dicembre 2011

Davanti al teatro del mondo

*NATALE 2011*

La cultura protestante che privatizza la religione ha trovato nel Natale la sua festa per eccellenza: il rito è domestico, celebrano genitori e figli, fidanzati e amici, il sacerdozio universale ottiene la sua realizzazione palpabile. In terra americana ha trovato la sua patria, le innumerevoli canzoni che l'accompagnano da un secolo hanno conquistato il mondo. E la sera del 24 dicembre i pragmatici che seppero costruire un impero con una massa di esuli si commuovono, «… And every mother's child is going to spy, / To see if reindeer really know how to fly» (The Christmas Song). Non fu sempre così, naturalmente, le Cantate natalizie di Bach non si eseguivano nei salotti e tantomeno nelle sale da concerto, bensì nelle chiese luterane, erano parte integrante della liturgia. Strada facendo però il laicismo protestante prese il sopravvento, il sacro si stemperò in una festa borghese d’inverno e, per ridar fiato all’evento, non bastando il padrone di casa a far da mediatore tra il Cielo e la Terra, si tirarono fuori figure misteriose, il vecchio benefico a metà tra il generoso San Nicola e la personificazione della estrema stagione dell’anno che, in consonanza con quella della vita, ha i connotati della decrepitezza. Negli ultimi tempi, una multinazionale delle bevande gassose si impadronirà di quel personaggio, gli metterà i suoi colori, il rosso e il bianco, ne farà una forma di pubblicità indiretta. Il vecchio così sostituisce il puer e sovraintende al nuovo rito dello scambio di doni materiali (nella ‘profanazione’ della festa sacra questi infatti da segni, da testimonianze, si trasformano in feticci). Il messianismo è ridotto a un ammasso di merci, a un bazar di simboli ormai incomprensibili, confusi, come sempre nel cosiddetto post-moderno.

Il presepio cattolico rammemora invece come l’incarnazione divina non fu un fatto intimo, con la famigliola nel chiuso domestico: l’Invisibile divenne visibile davanti al teatro del mondo. Pastori e altri miserabili furono i primi ad accorrere, ma vi si aggiunsero i re, i saggi, i suonatori di zampogna – almeno secondo il presepio italiano –, gli artisti dunque, e gli angeli fecero corona alla scena. Non era un racconto lineare, si snodava lungo una via narrativa contorta con curve a gomito come nelle raffigurazioni dei primi maghi della prospettiva che dietro alla scena della natività piazzavano diversi tornanti per rompere la piattezza della parete di fondo.

Il presepio enfatizza il fatto storico che si incrociò con il censimento romano, con l’editto imperiale, con i voleri del pontefice massimo. Al contempo la natura partecipa a questa festa, dalle stelle del cielo alle piante sempreverdi, e vi partecipano gli animali, a compimento delle profezie, asino, bue, pecore, capri, cani che vediamo per esempio raccolti da Giotto in gran copia.

Il presepio cinquecentesco, quello concepito da Albrecht Dürer, faceva incrinare le architetture classiche, una specie di terremoto della storia. Gli archi romani spezzati sottolineavano la nascita del moderno che coincide con l’avvento di Dio in forma umana. La storia non era finita – sembrava dire l’artista tedesco – ma c’era ormai un prima e un dopo, al senza-tempo del mondo antico si sostituiva il tempo che corre verso lo scioglimento di tutti i legami, di tutte le servitù. Il superamento del classico fu annunciato dagli artisti tedeschi che più gli erano estranei, che ne subivano il giogo, che rappresentavano i semplici, i barbari, gli ansiosi della modernità salvifica. Eccessivi, eterni espressionisti, i germanici credevano che l’annuncio evangelico fosse il rintocco dell’ora presente. Ma i pittori italiani ripresero quel tema pur conservando con pietà filiale le rovine del loro passato, quell’impero che la Provvidenza aveva messo al servizio del puer divino. Moderno era una complicata conseguenza di quella notte in terra di Israele e del suo riverbero nel mondo romano.

Nei giorni del buio invernale, non era più sufficiente la luce delle lampade negli interni delle case, il fuoco domestico, il simbolico verde delle piante sopravvissute, il cibo in abbondanza: la modernità cristiana pretendeva aver superato la morte. Di qui il suo fascino, la sua grandezza morale, il suo sommo privilegio; verrà utilizzata in modo strumentale dai propagandisti del progressismo, dai fedeli dei Lumi.

Profano significa fuori del tempio, pro-fanum, lontano dalla chiesa. Si riconsacra il Natale soltanto nella partecipazione alla Messa, là dove il teatrum mundi del presepio si incarna nella comunità vivente. Là dove si ricongiunge la davidica Betlemme e il Golgota, e il mistero del puer si svela. Allora soltanto il moderno diviene un’aggiunta preziosissima all’eburneo mondo classico.

Buon Natale, amici che leggete questo Almanacco, buona festa della vita e, come sempre nelle occasioni solenni dell’anno, buon ricordo dei morti.

mercoledì 21 dicembre 2011

Piccoli orrori natalizi

~ LA CICOGNA IRROMPE IN PARROCCHIA,
IL BEAT NELL’EREMO DI LISZT ~

Gesù disegnato come un marmocchio con un solo dentone, lentiggini e ciuffetto, che pende dal becco di una cicogna: così una parrocchia di Monte Mario a Roma narra sul suo bollettino l’incarnazione divina. Una spiritosaggine o piuttosto il dramma della incapacità di esprimersi, la confusione sui fondamentali, l’assoggettamento al gergo dominante, quello parodistico e comico. L’ossessivo ‘aggiornamento’ dei cattolici ha tanto in uggia l’eternità da diventare feticismo dell’immaginario reclamistico; il prete sull’altare non parla e canta nella lingua contemporanea, ripete nelle forme cheap della parrocchietta il tracotante idioma dei pubblicitari. A maggior gloria del Kitsch. I misteri cristiani spariscono, al loro posto si avverte l’enigma della merce.

Violata la regola universale della Catholica, si improvvisa continuamente con le migliori intenzioni di questo mondo (del mondo, appunto), ci si diverte a colpi di creatività da maestre di asilo in un ambito che non ha niente della ludoteca. C’è chi distribuisce la comunione facendo zuppetta con l’ostia nel «sangue di Cristo» contenuto in un calice che il celebrante affida a un ragazzo o a una matura signora della prima fila, chi pretende di ricevere l’ostia in mano e, appena girato, se la porta in bocca col gesto prosaico del Mangiatore di fagioli di Annibale Carracci, c’è l’officiante che nel bel mezzo del sacro rito si dilunga nell’informazione spicciola, invogliando alla gita parrocchiale in Spagna o ad acquistare il biglietto dello spettacolo di beneficenza dove sono assicurate matte risate, chi dopo una breve lettura va a sedersi su uno scranno e resta in un lungo silenzio che mette in ansia i fedeli su un possibile mal di pancia del prete o su una sua improvvisa conversione al Quietismo, chi evita le candele e chi la croce, chi va a stringere la mano in segno di pace per tutta la chiesa, alla maniera dei politicanti in cerca di voti, rendendo vana quella lavanda dei polpastrelli da ogni impurità prima di toccare le sacre specie, chi spiega di volta in volta ogni suo gesto quasi si fosse in piena didattica catechistica invece che nella ripetizione di un sacrificio… Un prete in vena di cortesie per gli ospiti lodava la pazienza dei fedeli per aver assistito alla messa domenicale, quasi si trattasse di una sua conferenza poco brillante, chissà che ne avrebbe pensato sulla croce il Patiens per antonomasia.

Un giorno, in Paradiso, magari ci si accorgerà della manchevolezza armonica delle più elevate composizioni di Beethoven, e tutte le opere musicali, pittoriche e letterarie che tanto sembravano accostarci al Cielo – l’arte è quella attività che più somiglia alla religione, sosteneva Pio XII – mostreranno da una tale distanza la loro debolezza, però della volgarità di tutte le canzoncine post-conciliari si è consapevoli fin da adesso. Né vale obiettare che anche i pii canti di una volta apparivano teologicamente zoppicanti, i testi ingenui, semplici le melodie: erano infatti espressione popolare, niente di male, mentre ora si tratta di sottospecie del pop, di scarti festivalieri, ovvero di prodotti mercificati (non c’è bisogno di aver letto Adorno per capirlo), in ogni caso i dolci inni in onore della Madonna e dei santi si intonavano nelle processioni e nelle funzioni minori, non accompagnavano la somma liturgia della messa.

Restiamo a Monte Mario, l’altura che fa ombra alla valle del Vaticano, il Monte Gaudio dei pellegrini – risuona anche in Dante –, luogo felice dunque perché da lassù si vedeva finalmente la meta, la basilica di San Pietro. Su questo ‘monte’, di appena 139 metri, sorge la chiesa di Santa Maria del Rosario, un rifugio delizioso tra il modernismo delle case anni Cinquanta. Qui, Franz Liszt si nascose al mondo e contemplò Roma. Dopo «il virtuoso degli anni del pellegrinaggio», dopo «lo tzigano delle rapsodie ungheresi», dopo «il maestro di cappella di corte», si presentò alla vita musicale come «l’abate Liszt». Ospite del convento che affiancava la settecentesca chiesa, uno dei massimi geni musicali serviva umilmente la liturgia suonando un armonium – mancando i soldi per acquistare un organo – e componeva musica sacra nel silenzio del luogo. Liszt «vide in Roma – si legge in un vecchio programma di sala – un forum mondiale dove realizzare le sue ambizioni riformatrici nei generi e nelle istituzioni della musica liturgica cattolica. Suo desiderio era poter diventare un “nuovo Palestrina, salvatore della musica”». Quale migliore occasione allora, in queste celebrazioni del bicentenario lisztiano che ci hanno accompagnato nell’anno ormai alla fine, per una riflessione solenne, magari proprio in questo eremo, sul ruolo della musica nei riti cattolici di oggi? Invece, la scorsa domenica, forse per un improvvido dono di Natale, la messa nella chiesa ‘di Liszt’ era accompagnata dalle chitarre e dalle solite, bruttissime, canzonette.

Non è la chitarra in sé che irrita i disgraziati fedeli (anche se non è un caso che il regale organo, con i suoi soffi evocanti lo Spirito santo, sia il principe degli strumenti musicali liturgici), la leggenda che accompagna la notissima Stille Nacht sta a dimostrarlo: alla vigilia di Natale del primo Ottocento l’organo di una chiesetta alpina si era rotto e il compositore austriaco Franz Xaver Gruber, in mancanza di meglio, eseguì il suo canto romantico alla chitarra, ma suonandola appunto in modo ‘classico’, pizzicando, arpeggiando, non battendo tempi corrivi con ‘pennate’ – cioè a colpi di plettro – accompagnamento più adatto ai coretti della gita scolastica. Quando non si ricorre alla violenza beat, moda peraltro che risale a mezzo secolo fa, si ripiega su melodie del tutto simili alle colonne sonore delle soap: perché mai i fedeli devono trovare nel tempio di Dio i medesimi suoni che ci tormentano nel regno dell’effimero televisivo? Perché il prete deve trasformarsi in animatore? Tutti da rianimare, tutti senz’anima?

giovedì 15 dicembre 2011

La modernità gareggia con Dio

~ UN VIAGGIO DI DOSTOEVSKIJ IN OCCIDENTE ~

Lo scrittore russo contemporaneo di Marx, abituato alle distese asiatiche, ai villaggi contadini, ai salotti dei signori, stralunò gli occhi davanti al mare di folla che travolgeva le città dell’Occidente. Da quel primo viaggio in Europa trasse un librino troppo presto dimenticato, Note invernali su impressioni estive (ristampato qualche anno fa da Feltrinelli). Stupefacente: a Dostoevskij basta un breve soggiorno, una settimana londinese – senza parlare una parola di inglese – per annunciare al mondo quello che l’attende nel prossimo secolo. Scrutando la capitale inglese con uno sguardo allucinato cattura le immagini che rimugina nel lungo inverno russo: ha intravisto quella «forza tremenda» che sembra gareggiare con Dio, sì, è convinto che «lì qualcosa è stato già raggiunto, che lì è la vittoria, che lì è il trionfo».

Voltaire inviava le sue Lettere inglesi per celebrare le mirabilia della Borsa di Londra, missionario della nuova religione universale «che considera infedeli solo quelli che fanno bancarotta»; Heine pubblicava corrispondenze da Parigi in grado di incendiare la Germania sentimentale, Marx a Londra vide cose tremende e ne scrisse in modo ancora più fosco. Altrettanto Dostoevskij. Il russo però non studiò la faccenda sui libri, non passò anni ai tavoli della più fornita biblioteca imperiale per ricostruire in tutti i particolari scabrosi il Nuovo Inferno senza Satana, giunse a Londra con l’aria un po’ brutale di un ex forzato che non si lascia abbindolare dalle apparenze. Era scampato a una fucilazione (per sinistro gioco), viaggiava come un mezzo morto, non aveva più pudori umani. Era ben provvisto di «capacità di negazione per non cedere», per non piegarsi al fatto. Potenza della psicopatologia delle visioni del mondo. Dostoevskij non era stato a scuola di Hegel, non vedeva nell’infernale metropoli il superamento dei rapporti feudali, non godeva per la distanza da quelle comunità idiote e maleodoranti dei suoi villaggi russi, non lodava abbastanza la forza che libera dai vincoli del passato. Però, in questa Apocalisse londinese, Dostoevskij riusciva a essere ‘dialettico’, a dare il giusto peso ai due corni del dilemma moderno; in fondo, ogni bravo romanziere è dialettico. La forza che attira milioni di esseri è così grande che forse ha vinto per sempre, e la storia è finita. Sarà allora la traduzione profana dell’ut omnes unum sint annunciato da Cristo? È il primo sospetto di Dostoevskij. «Bisogna accettare tutto ciò come la più completa verità e tacere per sempre?».

Lo spettacolo è superbo, gli addobbi unici, la luce abolisce la notte, gli ori e gli specchi ammaliano, le donne sono bellissime. Non è l’invettiva di un asceta che danna ogni cosa senza saperla apprezzare. Le tentazioni sono un motivo dialettico: l’Occidente è forte, impressionante per numero, invincibile, comodo, ragionevole e bello, maledettamente bello. E quei milioni di «selvaggi» che percorrono le città, intorpiditi e in branco, non sanno fare di meglio, per muta protesta, che partecipare a quelle sètte protestanti, a quella gnosi degradata che promette alle masse una new age. Gli esclusi dal banchetto continueranno fino ai giorni nostri a riunirsi in gruppuscoli balordi e a tracciare sui muri svastiche, falci e martelli, imprecazioni.

«Questa città [Londra] sconfinata come un mare e colma giorno e notte di movimento; i fischi e gli urli delle macchine; queste ferrovie edificate al di sopra delle case (e tra breve anche sotto di esse); questo audace spirito d’iniziativa, quest’apparente disordine che in sostanza è invece l’espressione dell’ordine borghese nella sua forma più elevata; questo Tamigi avvelenato, quest’aria pregna di carbon fossile, questi stupendi giardinetti, e i parchi, e questi angoli orribili della città, come Whitechapel, con la sua popolazione stracciona, selvaggia e affamata. E la City, coi suoi milioni e col commercio mondiale, il Palazzo di Cristallo, l’esposizione universale… Sì, l’esposizione è qualcosa di sbalorditivo».

L’ultima moda, l’architettura che anticipa i musei-templi, i santuari della merce, il cuore dell’Esposizione internazionale, il Crystal Palace, non ottiene lo sguardo devoto e succube di Dostoevskij, il romanziere non è un giornalista scodinzolante. «Guardate queste centinaia di migliaia, questi milioni di persone che docili sono affluite fin qui da tutte le parti del globo terrestre: persone giunte con un unico pensiero, che si affollano tranquillamente, con ostinazione e in silenzio in questo palazzo colossale, e percepite che lì si è realizzato qualcosa di definitivo, si è realizzato e si è concluso. È una sorta di quadro biblico, un’evocazione di Babilonia, una specie di profezia dell’Apocalisse quella che si va realizzando davanti ai vostri occhi. Voi percepite che occorre molta resistenza spirituale e un’eterna capacità di negazione per non cedere, per non soggiacere all’effetto, per non inchinarsi davanti al fatto e per non deificare Baal, e cioè per non accettare quello che esiste come il proprio ideale…».

In Germania, continuerà a prendere di mira una delle principali disgrazie moderne: la cultura come dovere, l’arte come liturgia domenicale e soprattutto estiva. La sua critica radicale dell’Occidente e dei filo-occidentali, lo porterà perfino al rifiuto del culto turistico della Madonna Sistina, l’opera di Raffaello conservata a Dresda, che stregherà Tolstoj e una lunga schiera di russi in pellegrinaggio verso l’Ovest.

«Van tutti in giro con le loro guide in mano e in ogni città si precipitano avidamente a vedere le cose notevoli, proprio come se lo facessero per un senso del dovere, proprio come se ancora stessero prestando servizio: non si lasciano scappare un solo palazzo a tre finestre, se appena lo menziona la guida, non una sola casa di borgomastro, sorprendentemente simile alla più normale casa moscovita o pietroburghese: restano a bocca aperta davanti alla gran carne di Rubens e credono che si tratti proprio delle tre grazie, perché così è loro imposto dalla guida; si precipitano sulla Madonna Sistina e le stanno davanti in torpida attesa: ecco, pare che pensino, adesso qualche cosa accadrà, qualcheduno striscerà fuori da sotto il pavimento e disperderà d’un sol colpo tutta la loro vacua angoscia e stanchezza».

Torniamo a Londra, la capitale della modernità, la Babilonia in terra, agli antipodi della Russia fuori del tempo amata dagli slavofili. «A Londra si può vedere una massa umana di tali dimensioni e in tali condizioni, come non vi capiterà di vedere da svegli in alcuna altra parte del mondo. Mi avevano detto, per esempio, che ogni sabato, di notte, mezzo milione di operaie di operaie coi loro bambini si riversano come un mare per l’intera città, raggruppandosi per lo più in certi quartieri, e che per tutta la notte fino alle cinque del mattino festeggiano il riposo dal lavoro, cioè si ingozzano e si ubriacano come bestie per tutta la settimana. Quest’intera moltitudine porta là le sue economie settimanali, tutto quello che ha faticosamente messo insieme a forza di duro lavoro e di maledizioni. Nelle botteghe di carne e di generi alimentari arde il gas in ampi fasci di luci, che illuminano a giorno le vie. Parrebbe un vero e proprio ballo, organizzato per questi negri bianchi. Il popolo si affolla nelle taverne all’aperto e nelle strade. E qui si mangia e si beve. Le birrerie sono addobbate come palazzi. Questa moltitudine è ubriaca, ma senz’allegria, è cupa, opprimente, e in un certo suo modo, ostinatamente silenziosa. Solo di tanto in tanto le bestemmie e le risse sanguinose infrangono questo silenzio sospetto, che agisce tristemente su di voi. Tutti si sforzano di ubriacarsi quanto prima possibile, fino a perdere coscienza… le mogli non si staccano dai mariti e si sbronzano assieme a loro: i bambini corrono e strisciano tra i loro genitori».

Un incubo a occhi aperti, un popolo che ricorre all’alcol e alle droghe per sopportare il lavoro moderno, per affrontare i perversi ‘piaceri’ della metropoli, per reggere il ritmo del lavoro industriale. «Laggiù non si vedeva già più un popolo, ma solo un intontimento una perdita della coscienza, sistematica, sottomessa, incoraggiata. E guardando questi paria della società voi sentite che ancora per molto tempo non si avvererà per loro la profezia, che ancora per molto tempo non daranno loro i rami di palma e le vesti bianche, e che per molto tempo ancora essi urleranno davanti al trono dell’Onnipossente: ‘Fino a quando, Signore?’. E anch’essi lo sanno, e per il momento si vendicano della società mediante certe loro sette sotterranee, mormoni, fanatici di vario genere, pellegrini… […] Questi milioni di persone abbandonate ed escluse dal banchetto dell’umanità, accalcandosi e pigiandosi l’uno all’altro nella tenebra sotterranea in cui sono stati gettati dai loro fratelli maggiori, a tentoni picchiano a qualsiasi portone e cercano un’uscita per non soffocare in quelle buie segrete. Lì è l’ultimo disperato tentativo di confondersi nel proprio mucchio, nella propria massa, e di staccarsi da tutto, foss’anche dalla sembianza umana, pur di poter vivere per proprio conto, pur di non restare insieme a noi…».

Non mancano in questo Inferno i gironi della prostituzione. «Chi è stato a Londra sarà probabilmente andato almeno una volta, di notte a Hay Market. È questo un quartiere nel quale, ogni notte, in alcune vie, le donne pubbliche si affollano a migliaia. Le vie sono rischiarate da fasci luminosi di gas, come da noi non se ne può avere un’idea. Caffè sontuosi, adorni di specchi e d’oro, sorgono a ogni passo. Lì ci sono i punti di riunione, lì i rifugi. Si prova addirittura un senso di raccapriccio a entrare in questa folla. Ed è così stranamente assortita. Ve ne sono di vecchie, e vi sono donne di una bellezza tale che dinanzi ad esse ci si ferma stupefatti. […] Questa moltitudine si affolla addirittura con fatica nelle vie, tanto è fitta e densa. La folla non riesce a stare tutta sui marciapiedi e straripa per l’intera strada. Questa moltitudine è avida di preda, e si getta con svergognato cinismo sul primo che passa. E vi si vedono sia fulgidi abiti costosi, sia abiti fatti quasi di stracci, e nette differenze d’età, tutto mischiato assieme. In questa terribile folla si fa strada il vagabondo ubriaco, e vi si trova anche il riccone con tanto di titolo. Si sentono bestemmie, alterchi, profferte e il silenzioso, implorante bisbiglio di una bella ancora intimidita..».


A Parigi, Dostoevskij nota bene le differenze storiche con Londra ma ritrova questo titanico progetto borghese che sembra oramai trionfante in tutto l’Occidente. «Perché [il borghese] ha ficcato chissà dove tutti i poveri e assicura che i poveri non esistono proprio? Perché si accontenta della letteratura banale? Perché ha una voglia terribile di convincersi che le sue riviste sono incorruttibili. […] Perché nel teatro i mariti vengono raffigurati in un aspetto tanto nobile e danaroso, mentre gli amanti sono così laceri, senza né impiego né protezione, sempre commessi o che so io, artisti, cenciume insomma al massimo grado? […] Ma come, suvvia: perché se così non fosse, allora magari si potrebbe pensare che l’ideale non è stato raggiunto, che Parigi non è ancora il perfetto paradiso terrestre, che magari si può desiderare ancora qualcos’altro, e che dunque il borghese medesimo non è perfettamente contento di quell’ordine che egli difende e che impone a tutti».

Allora è certo: Dostoevskij a Parigi non ha messo piede nei teatri d’operetta, non ha avuto neppure notizia delle creazioni di Offenbach, tanto di successo in quei giorni, dove i mariti sono sempre dei poveri sciocchi e gli amanti dei semidei belli e ricchi, altro che artisti, casomai oziosi redditieri. Non sempre tutto si tiene. Viene invece da chiedersi: come mai, nell’Ottocento, tutto questo interesse per i poveri? Ce ne sono forse di più che negli altri secoli, sono più esposti, strappati all’ombra degli ambienti tradizionali e mescolati nella metropoli ai ricchi sontuosi? Probabilmente sì, ma non è una risposta esauriente: anche nelle città medievali folle di straccioni si accompagnavano ai borghesi, ecclesiastici e nobili, ma non ci si torturava così tanto sul problema della povertà. Slavofili e cristiani, socialisti e reazionari forse si dovrebbero rendere conto che la «questione della povertà» è stata imposta in Occidente dai borghesi vittoriosi. E forse l’indignazione di Dostoevskij è dovuta proprio alla sfrontataggine dell’etica protestante che affronta il problema scandalizzando i cristiani ortodossi e i cattolici. Il protestantesimo è «la religione dei ricchi»; quando poi vuole uscire dai confini di classe si converte al socialismo e dimentica del tutto l’aspetto metafisico (non è un caso che nel momento in cui, molto recentemente, il cattolicesimo si ‘protestantizza’ non riesca più ad affrontare la questione sociale se non trasformandosi in diaspora socialista).

«Accumulare una fortuna e possedere la maggiore quantità possibile di cose: questa è divenuta la principale norma di moralità, il catechismo del parigino. Questo accadeva anche prima, ma adesso, adesso ha acquistato, per così dire, un aspetto sacrosanto. Prima si dava valore anche ad altro che non fosse il denaro, di modo che una persona, pur essendo priva di soldi, ma ricca d’altre qualità, poteva contare su una qualche forma di rispetto; mentre adesso in nessunissimo caso sarà così. Adesso bisogna, bisogna accumulare i soldini e provvedere della maggiore quantità possibile di cose, e solo allora si potrà contare almeno su un po’ di rispetto. E non solo sul rispetto degli altri, ma persino sul rispetto di se stessi non è possibile contare, se non è così. Il parigino non darebbe un centesimo per la propria vita se sentisse d’avere le tasche vuote, e questo del tutto consciamente, con scrupolo, con grande convinzione. Vi si permetteranno cose stupefacenti se solo avrete del denaro».

Oggi il fenomeno appare centuplicato. Forse non è tanto la questione dei poveri a essere centrale in Occidente quanto quella del denaro. Se Dio non c’è, il denaro è il suo migliore surrogato. Senza soldi si perde la stima di sé, la cura di sé, la propria anima. Peggio di una malattia fisica, si giace fantasticando intorno alle «cose stupefacenti» che il denaro permette.

«Entrate in un negozio per comprare qualsiasi cosa e l’ultimo dei commesso vi schiaccerà, vi schiaccerà semplicemente con la sua ineffabile nobiltà. […] Siete venuti, per esempio, per spendere una decina di franchi, e intanto vi hanno accolto come foste lord Devonshire. Sull’istante proverete per un qualche oscuro motivo una terribile vergogna , vorrete assicurarli al più presto che voi non siete affatto lord Devonshire, ma solo dei mediocri, modesti viaggiatori, e che siete entrati soltanto per comprare l’equivalente di dieci franchi. Ma un giovanotto con sul viso la più lieta delle espressioni […] inizierà a sciorinare merce per decine di migliaia di franchi. In un solo istante ricoprirà per voi l’intero bancone, ed ecco che voi pensate, lì per lì: quanta roba, poveretto, gli toccherà riordinare […]. E non appena si pensa a tutto ciò, allora, in un attimo, involontariamente, proprio lì dinanzi a quel bancone, si comincia a provare il massimo disprezzo nei propri confronti. Ci si pente di tutto, e si maledice la sorte che adesso vi fa avere in tasca soltanto cento franchi: così li gettate, chiedendo perdono con lo sguardo. Ma con magnanimità i commessi vi avvoltoleranno la merce per il valore dei vostri miserabili cento franchi, vi perdoneranno tutto il trambusto, l’incomodamento che avete provocato nel negozio, e voi vi affretterete a scomparire al più presto. Poi, tornando a casa, vi stupirete sommamente di aver speso cento franchi quando volevate spenderne soltanto dieci».

È circa un secolo e mezzo che siamo trascinati in questa logica (e forse, più, molto di più) ma, a differenza delle tante critiche correnti, Dosteoevskij mette in scena il consumo come umiliazione, la nudità di chi, con pochi soldi, varca la soglia di un negozio. Casomai, adesso che il consumismo ha pervaso ogni angolo del nostro ambiente, chi ha pochi soldi in tasca è sempre nudo, qualsiasi punto della città attraversi, anche se si nasconde in casa, perché ovunque si offre la merce e ogni volta ci si vergogna di non poterla acquistare. Man mano che si va avanti negli anni, uno prende coscienza delle proprie effettive risorse economiche e ritaglia in qualche modo su quelle potenzialità il ritratto di se stesso: c’è chi può permettersi una libertà di abitare qualsiasi posto del mondo, e chi pur essendo costretto in un luogo fisso può concedersi grandi viaggi, qualche follia, piccoli capricci quotidiani, ecc.; ma chi sa di essere al grado zero non riesce a pensarsi diverso da una nullità. Il resto sono astrazioni. D’altra parte, si sa bene che il piacere di ogni acquisto deriva dalla repressione forzata di altri desideri o dal fatto di potersi permettere cose che ad altri sono escluse.

«Per chi deruba in modo ripugnante, vigliacco, c’è la galera: il borghese infatti è pronto a perdonare molto, ma non i furti, anche se voi o i vostri bambini stanno morendo di fame. Ma se ruberete per virtù, oh, allora vi si perdonerà veramente tutto. Perché voi vorrete allora faire fortune e accumulare molte cose, ovvero adempiere a un dovere della natura e dell’umanità. Ecco perché nel codice sono distinti con assoluta chiarezza i punti sul furto per bassi scopi, cioè per un qualche pezzo di pane, e quelli sul furto per alta virtù».

Il povero B.B. non ha detto niente di nuovo con i suoi provocanti accostamenti tra i rapinatori e i fondatori di banche. Ma noi che leggiamo con piacere di questi colpi ben assestati, che condividiamo il sarcasmo sparso sulle nequizie borghesi, noi chiudiamo il libro e istalliamo serrature eccellenti che scoraggiano ogni ladro affamato. Sono in genere i più agiati che si permettono la letteratura sulla fame e gli improperi sui furti borghesi. Leggere che si è ladri ma raffinati e che non si incorre nel carcere produce un segreto godimento, ci si sente superiori. I disperati non leggono mai delle loro imprese sciocche. O se ne lasciano accattivare di tanto in tanto, per crudeltà verso se stessi. Poi tornano a distrarsi con i teorici della borghesia che non parlano mai di questioni lacrimose.

«Liberté, egalité, fraternité. Molto bene. Ma che cos’è la liberté? La libertà. Quale libertà? La libertà, per tutti uguale, di fare quello che si vuole nei limiti della legge. Quando è possibile fare tutto quello che si vuole? Quando si possiede un milione. La libertà dà un milione a testa? No. Che cos’è un uomo senza un milione? Un uomo senza un milione è colui che non fa tutto quello che vuole, bensì è colui del quale si fa tutto quello che si vuole. […] La fratellanza: bene, quest’articolo è il più curioso […] nella fratellanza vera non è la singola personalità, non è l’Io che deve arrabattarsi per affermare il proprio diritto all’avere ugual peso e ugual valore […]. Che deve mai fare il socialista, se nell’uomo occidentale non esiste il principio fraterno, ma, al contrario si ha in lui soltanto il principio individuale, personale, che incessantemente si isola da tutto il resto, esigendo, con la spada in pugno i suoi diritti? Il socialista vedendo che non c’è fratellanza, comincerà a predicarla. La mancanza di fraternità lo spingerà inoltre a cercare di crearla […] ma manca una natura umana capace di fratellanza […]. In preda alla disperazione il socialista inizierà allora a costruire a definire la fratellanza futura, ne calcolerà peso e misure, vi alletterà con l’idea di un tornaconto, commenterà, insegnerà, racconterà quanto profitto deriverà ad ognuno da questa fratellanza, quanto ci si guadagnerà, definirà il ruolo e le aspirazioni d’ogni singola personalità in essa, farà in anticipo il computo di tutti i beni della terra intera […]. Ma che razza di fratellanza può essere quella che in anticipo si spartisce le cose?».

A Weimar i grandi scontri SPD/KPD avvenivano soprattutto attorno a simili questioni: come spartirsi il mondo dei beni con la storia della fratellanza. Tattiche socialdemocratiche, avanguardie spartachiste, Politik als Beruf, fratellanza catacombale dei proletari forgiati nella fatica del lavoro. E poi c’era il calore della comunità dei camerati, il virile abbraccio degli ex-combattenti, forgiati nel sangue e nel dolore. In mancanza di vera fratellanza che – secondo Dostoevskij – si trova solo tra i seguaci del Vangelo, ci si allettava vicendevolmente con «l’idea di un tornaconto». L’egoismo virtuoso dei marxisti che, fino a pochi anni fa, si esaltavano per la «rude razza pagana», fingendo di dimenticare la sottomissione di tali pagani alle peggiori satrapie orientali.

Se fosse ripassato qualche anno più tardi a Parigi, Dostoevskij avrebbe potuto incontrare un giovane Léon Bloy, altrettanto brutale, altrettanto spaventato dal moderno. Che bel sodalizio sarebbe venuto fuori tra il visionario ortodosso e l’apologeta del cattolicesimo.

mercoledì 23 novembre 2011

I fuori casta

~ MODESTA PROPOSTA DI AUMENTO
DELL’INDENNITÀ PARLAMENTARE ~

Straparlano a sproposito di caste per ogni élite messa a fuoco pur venerando, negli ambienti intellettuali, la religione induista che suddivide e fissa l’umanità in sì aberranti gironi. Perfino i piccoli guru massmediatici si commuovono in televisione per le dottrine veda. Sempre pronti a far le pulci a ogni aspetto del cristianesimo, si guardano bene dal ricordare che l’India dei loro sogni metafisici si sostanzia di un simile sistema, schiacciando i fuori casta nel rango degli animali, e che ci volle l’amore di un’occidentale, una suora cattolica, per insegnare ad accarezzare gli «intoccabili». Sedotti dalla cultura religiosa orientale ormai da due secoli, neppure di fronte al recente suicidio col fuoco di una monaca buddista hanno trovato niente da ridire su una rivelazione che spinge a trascurare a tal punto il corpo. Gli allegri fans del Dalai Lama non si permetterebbero mai di criticare le pratiche religiose di quei puri così come fanno quotidianamente con i corrotti cattolici: immaginate che si direbbe se nel nostro mondo si scegliesse un bambino di sei sette anni, scrutandone orecchie e scapole, per ricercarvi i segni della «reincarnazione» e quindi, sottopostolo a inquietanti indovinelli, se ne decidesse il destino, facendone un «piccolo Buddha».

Ma adesso in Italia, casta sta a significare nelle menti di chi si nutre di antipolitica l’insieme delle centinaia di eletti in Parlamento e nelle assemblee locali (non però i signori delle municipalizzate appena riconsacrate dai referendum unanimi sull’acqua «pubblica»). Ad ascoltare qualche giorno fa i deputati che spiegavano il loro voto al «governo dei salvatori» sembrava, in verità, una combriccola di poveracci, nell’eloquio come nell’abbigliamento, alcuni addirittura pittoreschi, rappresentanti di gruppetti dai nomi improvvisati per organizzare la diaspora degli scissionisti senza bussola. Una casta di miserandi, si sarebbe detto, una casta di sfigati – secondo la terminologia giornalistica. E quando si conobbero, proprio in quell’occasione, le cifre vertiginose dei guadagni di certi banchieri – alcuni milioni di euri l’anno – , fu chiaro che questi disgraziati parlamentari erano ben lontani dal mondo del privilegio. Che gli invidiosi aizzati dai gazzettieri diventino compassionevoli davanti ai ridicoli personaggi, che ci si vergogni di ricorrere alla parola magica: casta (tra l’altro, in un paese bonariamente cattolico, ogni rango ha un’entrata e un’uscita). Come si fa ad ambire l’attuale status dei politici? Il potere? Un tempo decidevano della vita e della morte dei cittadini, pace e guerra per esempio, oggi sono nel migliore dei casi piccoli ragionieri che debbono ratificare decisioni prese altrove; amministratori di condominio in palazzi rissosi nei quali si industriano a far passare le volontà di gente straniera e altolocata. Quanto ai soldi, prendono appunto stipendi da magistrati, non da banchieri. Appena un’elemosina elargita a figuranti che non sanno parlare dignitosamente – ne conveniamo –, se è per questo che non riescono neppure a rispondere ai faceti intervistatori della televisione, capaci di inchiodare alcuni di loro, muti o pateticamente evasivi, su termini come «spread», «pil», ecc. Qualche mese fa, le medesime iene col microfono rincorsero altri deputati nella piazza di Montecitorio per domandine di storia patria cui, a destra come a sinistra, ministri e peones, non diedero risposta. Nel contesto informativo attuale, trattasi insomma di parlamentari analfabeti, di parlamentari che non parlano, che non sanno, che non studiano, che non leggono (sempre con le dovute, limitatissime, eccezioni). Il fatto è che a inzeppare il Parlamento accorrono centinaia di mediocri, gente che forse non riuscirebbe a strappare altrove uno stipendio decente. È questo lo scandalo? Si riduca allora a cento il numero dei deputati, cento giusti e saggi da sacrificare alla politica son già difficili da trovare. Per invogliarli perciò li si strapaghi, altrimenti finiscono tutti nelle industrie e nelle banche o qualcuno di loro andrà a governare da dilettante o tecnico che dir si voglia ma saltando l’umiliazione della campagna elettorale e del voto. Cento persone pagate dieci volte almeno quanto guadagnano oggi, senza demagogia, senza risparmiare sulla guida del Belpaese, senza travestire con la porpora senatoriale i falliti delle professioni. Una Camera a quel punto basterà da sola, non c’è bisogno di inventarsi fantasiosamente i compiti della seconda, che allungherebbe i tempi e le chiacchiere.

domenica 13 novembre 2011

È arrivato Godot?

~ LA VITA COMUNQUE SE NE È ANDATA ~

Poveri connazionali ingannati dalle loro piccole furbizie. Sono quasi vent’anni che hanno avuto la testa piena del tycoon prestato alla politica, tornando ossessivamente a lui nei discorsi, giorno e notte, quando Jünger affermava di non aver concesso il suo tempo ai tristi ed esorbitanti figuri davvero tirannici che si trovò di fronte, dedicandosi a ben più nobili imprese, in ogni caso a pensieri più liberi. Loro invece si dedicavano a lui senza tregua laddove perfino i suoi devoti si concessero distrazioni e qualche dimenticanza. Non sapevano liberarsi da questa italianissima figura che volgeva al grottesco (del resto era sopravvissuta alle mode del suo tempo, dalla tv dispiegata si è arrivati al più privato tablet, dalle canzonettiste sanremesi ai romanzieri della camorra, agli scultori del dito medio eretto nella piazza della Borsa a Milano, forme più ambiguë di cultura pop, certamente più sguaiate e arroganti). Le loro letture, conversazioni, interessi, battute, spettacoli, talvolta perfino amori, si son nutriti dell’odio per un miliardario lombardo che provava a governare l’Italia. Si ruppero antiche amicizie, cene e feste domestiche finirono in rissa. Erano la migliore prova di un bisogno di idoli, anche se rovesciati. Si risuscitò allora, e fuori tempo massimo, la fede nella politica benché la società del tutto privatizzata cominciasse ad accettare l’eventualità che anche il governo potesse diventare un affare privato delle banche e dei mercati; infatti quando il gioco si fa duro, quando la crisi si aggrava, quel che resta della finzione politica viene accantonato e si chiama il tecnico, l’impolitico per eccellenza: a che serve allora la nobile arte della politica? Buona per i soli giorni di festa? Rispuntavano anche dei culti dimenticati, perfino il patriottismo, politeismo dei tempi di crisi profonda. All’ombra del nichilismo sorgono infatti idoli nani. Nell’epoca della privatizzazione della fede religiosa, si rendono pubblici gli umori, le morali fai da te, all’opposto esatto di quanto andava dicendo il poeta Charles Lamb: «Le pubbliche faccende – a meno che non mi tocchino direttamente e così si tramutino in private – non posso sforzare l’animo mio a provarci alcun interesse». Ma lo scrittore inglese era sotto la potestà della letteratura, i nostri indignati sono agit-prop della cultura, un’entità astratta che, proprio mentre si fa più corriva e mediocre, viene posta sugli altari. La si è usata recentemente come macchinetta da guerra, in assonanza con quanto rappresentò nell’èra dei totalitarismi europei, almeno secondo l’enfatica ricostruzione storica per cui fu come una fonte di resistenza al potere, irriducibile al Male; ma anche in quel tempo i nomi di Gentile, Sironi, Pirandello, Schmitt, Pound, Jung, Heidegger, von Karajan e tanti altri, pur con distinguo e sfumature, finirono dall’altra parte. Brutti scherzi fa la cultura come talismano.

Godot non arrivava mai e intanto il tempo passava. Vent’anni sono un notevole pezzo di vita, nello specchio ci si riconosce a stento. Allora si finge magari una malinconia per motivi pubblici, in realtà cambia il paesaggio cui eravamo abituati, è la giovinezza che fugge via. Adesso che il signore delle televisioni sembra uscire di scena, le loro chiacchiere si svuotano di senso e i chiacchieroni appaiono intontiti come pugili suonati. Seguirà il rimpianto per un pezzo di vita sprecato.