lunedì 30 giugno 2008

Nell'epoca della iconoclastia trionfante

SERMONCINO INAUGURALE A MO' DI PRESENTAZIONE
DELLA GAZZETTA ROMANA CHE STATE LEGGENDO
Era da poco morto Karol Magno, quando capitò di leggere su un magazine dal titolo che scatenerebbe la fantasia sferzante di Aristofane, «La Repubblica delle donne», un articolo che celebrava l’architettura della Roma contemporanea con gli accenti dei cinegiornali d’antan, dove si magnificavano con voce vibrante e immagini turgide i fasti dell’urbanistica fascista. Se l’enfasi sulle inaugurazioni del governatore dell’Urbe poteva però essere giustificata dalle visionarie costruzioni di Armando Brasini, per dire un nome evocativo, ci voleva della improntitudine per contrapporre – così si esprimeva la rivista ideata per accaparrare pubblicità ‘femminile’ – la Roma dei papi a quella del sindaco delle notti bianche e dei sentimenti adolescenziali. Con gusto giornalistico si schieravano perciò due Rome: una pretesca, esibita dai media mondiali e sovraesposta per settimane durante i funerali del pontefice romano e l’elezione del successore, ovverossia la creazione di archistars quali Michelangelo Buonarroti, Raffaello Sanzio, Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini e Piero da Cortona, oltre a uno stuolo di supereccellenti ‘minori’ – verso cui l’articolista esibiva la noia seccata di ragazzini futuristi per il rosolio di nonna Speranza – e una che poteva vantare solo la novità ma che doveva apparentarci alla Berlino della Potsdamer Platz terzo millennio. Poca roba invero innalzava quest’ultima, eppure sembrava bastare per cantare l’epinicio del sindaco bonaccione: l’ecomostro piazzato di fronte alla tomba di Augusto (e alla chiesa di Valadier), la colata di cemento del prossimo museo del XXI secolo, i mattoncini da case popolari dell’Auditorium in cui si ode a stento per la pessima acustica.

I tre esempi di un mito costruito alla buona incollando le frasi dei comunicati-stampa rendevano ancora più eclatante la miseria della Roma moderna. Un secolo e mezzo di provincialissima imitazione invidiosa. La città unica si mette a copiare quanto c’è di più trito negli altri posti d’Europa, dimostrando di avere perduto il senso di superiorità che la accompagnò nei secoli. Goethe per primo si meravigliò che ci dedicassimo a inseguire povere mode straniere, inventate per gente senza gusto e soprattutto senz’arte. Mai, neppure nell’èra del Gotico che pure ci era così estraneo, ci si permise di importare alcunché, ricreando invece molto. Una volta tanto, ha perfettamente ragione Loos, il parvenu è sempre convinto che «l’inganno non si noti», e qui si nota, eccome. Alla fine, si appare sulla scena internazionale goffi e sempre in ritardo, non ci viene infatti facile seguire l’andamento generale. ‘Siamo arretrati’ sostengono allora i ragazzotti che hanno fatto la gita scolastica al Beaubourg o al Moma, ‘siamo arretrati’ ripetono quelli della stampa che vanno in qualche estero pagati per visitare e magnificare mostre, ‘siamo arretrati e stiamo recuperando’ annunciano trionfanti le giornaliste giulive che porgono il microfono ai potenti di turno, i quali assicurano continuamente di avere raggiunto Parigi o Berlino in quanto a ‘modernità’. Ma chi l’ha detto che erano queste le nostre mète? Vogliono imporre gli architetti che impazzano in città recentissime, le soluzioni effimere di una olimpiade, per cui Barcellona restaurata pochi anni prima già mostra le rughe appena nascoste, e cade giù il restyling, come scende alle baldracche imbalsamate il loro ritocco della estate precedente, vogliono trasformare anche questa sacra metropoli in una megera coi soldi, affannati a plagiare, seguaci di una estetica che consiste nelle iniezioni di silicone. È la medesima faccenda che spinse il piccolo Cavour, imprenditore agricolo del Nordovest, a distruggere la bella penisola, patria dell’umanità, per farne una caricatura della Francia. E giù tutti a ridere di noi: italiani non era più sinonimo di furbi, abili, politici, raffinatissimi, artisti, maestri del saper vivere, talvolta anche crudeli, ma sempre da suscitare l’invidia di mezzo mondo per il nostro stile, no, adesso si sogghignava di quei poveretti con uno statarello impotente, senza più forza morale, politica o militare, senza più alcuna arte, alcuna virtù. D’ora in poi, da due secoli circa, a elemosinare le briciole della cultura altrui, prima francese, poi anche tedesca e inglese, infine americana. Tutti a ridere di questi ultimi della classe, salvo l’onesto Dostoevskij che ne pianse e si indignò per la devastazione del giardino paradisiaco. Quanti Cavour ancora più piccoli gli succedettero, meschinerie dello strapaese timido, quello sempre à la page, per il quale anche il sanguigno maestro elementare di Romagna, di fronte alla potenza di Francia, Gran Bretagna e Germania, tentò l’uso strumentale dell’antiquariato imperiale, il ricorso a glorie di cartongesso, per copiare penosamente l’eclettismo Novecento, pure politico, sfoggiato dalle grandi capitali, quel trionfante laicismo repubblicano, condito qua e là da violenza popolare, come nel teatro dei burattini.

Si perse così anche il ricordo, appena rinverdito da recenti studi innovatori e da una mostra che ne scaturì nel 2003 sulla Roma capitale mondiale delle arti fino alle soglie dell’Ottocento. La Roma di Canova, Rossini, Cherubini, Bellini e Spontini, dove all'Argentina si esibiva Paganini, demoniaco per bravura, la Roma delle arti, di Gaspare Landi, di Pelagi, di Camuccini, di Tenerani, di Finelli, e perché no di David e Ingres che qui vennero a imparare molto, insieme a decine di migliaia di pittori, scultori, architetti, tedeschi, francesi, britannici, statunitenitensi, scandinavi, russi, la caput mundi di ogni arte, concupita da Stendhal, sognata da Eichendorff, a un certo punto fu liberata da prosaici signori e da grossolani imprenditori nordisti che osarono distruggere – per quanto poterono – la più bella e sacra città della terra. Altro che le efferatezze cinesi contro la teocrazia tibetana. In luogo del soave mengsiano sfiorato nei quadri di Giuseppe Bossi dai pochi che hanno visitato la mostra sull’Ottocento italiano appena conclusa, in luogo degli sguardi alla Correggio ricreati dell'Appiani, in luogo dell'Hayez che inaugura lo stile del nostro melodramma, ci sono ora le operette della Quadriennale appena aperta nei locali 'piemontesi' di Via Nazionale, vanamente restaurati ogni ventennio, senza mai riuscire a cancellare le stigmate piccolo borghesi, a cominciare dalla facciata che sembra un teatrino di Lubiana. Provate a portarci un amico di una qualsiasi capitale europea, vedrete il suo sguardo di compatimento, il suo atteggiamento da colono. Del resto qualcuno ritiene davvero che una città come Roma attiri un turista straniero per le imprese di Via Reggio o del Mattatoio che non hanno mai avuto una eco neppure a Viterbo (senza spingersi più in là)? Ha ragione il sindaco-filosofo di Venezia: ma credete che qualcuno si interessi all’Italia se non per il papa? Eccola la nostra unica attrazione, la star capace di mobilitare per il suo funerale il più grande movimento di popoli dai tempi delle invasioni dei Mongoli (dicevano in America i telegiornali). Si può pensare forse che un romantico come Chateaubriand venisse quaggiù per incontrare i nostri scrittori romantici, i Ludovico di Breme e i Silvio Pellico, per visitare gli ateliers dei Minardi, macché voleva vedere il papa, incontrare i marmorari romani, magari frequentare i tombaroli della campagna laziale, contemplare la desolazione delle terre malariche. Roma è una città ideale per morire, diceva il malinconico francese, un porto accogliente per i morituri, uno sfondo unico per chiudere gli occhi. Lui conduceva una sua amica malata al Colosseo e mentre un raggio di sole le trafiggeva il petto poteva parlarle della rovina mondiale che riecheggiava quella personale, armonizzando la vita con la morte.

«Dovunque il mondo oggi è sotto l’incantesimo della bruttezza» scriveva nel suo diario Costantin Noica, santo martire del comunismo rumeno. Nell’epoca dell’iconoclastia trionfante, Roma non può che essere umiliata. Le immagini pagane «risuscitano nell’occidente europeo a ogni rinascimento. Esse provano anche, all’inizio dell’arte cristiana, sotto forma di Hermes e di Ercole, a rappresentare il Verbo incarnato» dice Alain Besançon nella sua stupenda storia dell’Image interdite, dove si legge anche: «…consideriamo l’aiuto dato dagli dèi al destino dell’immagine in Occidente. Per apprezzarlo conviene partire dalla teologia classica del XIII secolo. Essa aveva sempre affermato che, nell’ordine sensibile, il rifugio ultimo della bellezza era il corpo umano. La reintegrazione dei modelli antichi, che i manuali codificavano e diffondevano per tutta Europa, la maestria che raggiunge l’arte nel rappresentare, nell’assimilare le tecniche dell’Antichità restaurando un canone di bellezza del corpo che conferma pienamente ciò che avevano affermato Bonaventura, Tommaso, Duns Scoto, e che l’espressionismo posteriore al tardo gotico – secondo i teorici umanisti – aveva sfigurato» sono segni del fecondo incontro tra paganesimo e cristianesimo romano. Ma scandalo provocò nel mondo germanico la somiglianza del Cristo michelangiolesco con Ercole. «Che voleva dire la Chiesa quando rispondeva alla sfida protestante, al Sacco di Roma, con l’inflazione fiammeggiante della retorica delle immagini?», si chiede ancora Besançon. Ai protestanti, «alle Chiese ortodosse che, all’epoca non erano in grado di protestare, ma le cui critiche veementi si levano nel nostro secolo, come avrebbe potuto rispondere la Chiesa romana? All’accusa di dimenticare la Incarnazione essa avrebbe potuto rispondere semplicemente mostrando Roma, Siviglia, Venezia, Napoli, Praga e mille altri luoghi in cui la presenza del divino incarnato traspare, si impone, risplende, quasi una ‘semplice vista’ – e accontentarsi di dire, davanti a tutte queste immagini: Guardate!». Ma raccontando dei secoli di guerre iconoclaste Besançon vuole anche confortarci: non perdete la fiducia, non perdete la fede, migliaia di martiri, un numero infinito di morti, di stragi, di violenze su dipinti e sculture, non riuscirono a impedire l’eterna rinascita della immagine. Forse nel tempo finale dell’iconoclastia, ancorché in apparenza allo zenit, Roma può avere un ruolo storico, rappresentare uno spazio miracoloso. Proveremo a dare conto di questo nell’Almanacco romano che stiamo presentando. E che comincia, come non si fa mai, nel mese di luglio, nel tempo vuoto della vacanza. Ma all’indomani della festa dei dioscuri di Roma, di quei Pietro e Paolo «fondatori – secondo Ratzinger – di un nuovo genere di città, che deve formarsi sempre di nuovo in mezzo alla vecchia città umana». Anche nel nostro campo, se la fiere del contemporaneo mostrano il sempre-uguale delle merci sul piano globale, la città sensuale per eccellenza può scompaginare il mondo. È una sfida che dura da millenni.