sabato 1 novembre 2008

I morti a passeggio per Roma

SONO QUELLI USCITI DAL SEPOLCRO DEGLI SCIPIONI E FINITI NEL LIBRO DI ALESSANDRO VERRI, NOTTI ROMANE. I TRAPASSATI, STUPEFATTI DALLA CAPITALE CATTOLICA, STABILISCONO CON I VIVENTI UN DIALOGO TREPIDANTE

Traduttore di Shakespeare, si apparenta a August Wilhelm Schlegel e ai romantici che scoprirono il drammaturgo inglese negli anni tumultuosi dopo la Rivoluzione, ma li precede di un quarto di secolo, per cui completamente settecentesco è l’italiano Alessandro Verri, ragionevolissimo giurista milanese che del suo secolo gustò il cosmpolitismo, l’erudizione, la curiosità, il riformismo garbato e la galanteria. Animatore del «Caffè», aiutante del fratello Pietro nella battaglia contro la tortura, gran viaggiatore per l’Europa negli anni giovanili, probabile zio di Alessandro Manzoni. Un giorno, nel 1767, approdò a Roma e vi si fermò per sempre. I maligni che vorrebbero cancellare la seconda parte della sua vita attribuiscono la scelta della città eterna, lontana dall’Europa dei Lumi, a una forte e lunga passione per la marchesa Sparapani Gentili, sposata Boccapadule, quasi che la relazione peccaminosa lo avesse trasformato in un apologeta della Santa Sede.

È difficile seguire i percorsi biografici che hanno troppi snodi, si preferirebbe incatenare Alessandro Verri al paragrafo ‘illuminismo italiano’, più moderato e concreto del francese – come viene definito nei libri di scuola. Ma lo scrittore milanese doveva ancora scrivere un libro fondamentale, tradotto immediatamente in tutte le lingue europee, trentasei edizioni in pochi anni, livre de chevet del papa e di Stendhal, voluminoso romanzo che rinsangua il classicismo e anticipa le immagini romantiche (finisce di scriverlo nel 1790), che fa risorgere il passato ma gloriando il presente come nessun altro moderno riuscirebbe più a fare, suscitando brividi notturni e paesaggi sentimentali ma incorniciando simili immagini in una severa architettura discorsiva. Soltanto l’astio politico dei risorgimentali poté far uscire di scena un’opera del genere e confinarla in una congiura del silenzio. Per loro era ormai impossibile catturare qualche sfolgorio del XVIII secolo.

Verri d’altronde si era stancato presto delle piccole beghe dell’epoca e aveva preferito i larghi orizzonti del cattolicesimo, cosicché non dovette essere molto stupito quando le truppe rivoluzionarie francesi invasero Roma e lo arrestarono. Il nostro Génie du Christianisme era già nel cassetto e si intitolava Notti romane. Vide la stampa nel 1804.

La disputa tra gli Antichi e i Moderni prima ancora di essere un brillante esercizio dialettico o la sistemazione gerarchica della storia dell’arte o della storia tout court, è un dialogo serrato e interiore con gli antichi, con i morti. I viventi si misurano con le ombre del passato, ricorrendo alla invidia o alla pietà o alla ammirazione o al disprezzo, ma sempre rivolgendosi a loro in quanto defunti anche se l’opera gli sopravvive. Spesso con la superiorità dei viventi su chi è già stato sconfitto dal tempo, e magari con il meschino orgoglio di aver visto di più rispetto a loro, di conoscere altri passaggi delle trame storiche, altre figure, novità clamorose, raramente soffrendo per la medesima incompletezza, per la condanna eterna a non saper mai come andrà a finire. Che cosa sono i revivals se non predilezioni per figure ed epoche che tentiamo parzialmente, provvisoriamente, di far risorgere? Mentre viene meno la fede nel paradiso della tradizione, si moltiplicano i tentativi culturali di resurrezioni, le teurgie artistiche, le innumerevoli apparizioni di fantasmi che dalla metà del Settecento in poi turbano poeti e pittori. Il classicismo si muove attorno alle tombe, e il bianco delle statue prescritto da Winckelmann suggerì a Furio Jesi un serio accostamento con i Vampiri. Qualsiasi tentativo di abbracciare l’antico finisce per somigliare al gesto doloroso di Enea nell’Ade che vuole stringere una Didone inafferrabile.

Nel Settecento le campagne europee lentamente si spopolano, l’orizzonte ciclico, scandito dalle stagioni che si ripetono incessantemente, si restringe. Se fino ad allora soltanto filosofi, poeti e politici si misurarono con il tempo lineare, adesso aumentano gli umani per i quali lo scorrere dei giorni diventa un problema. Perché stupirsi se, dinanzi all’incremento di coloro che si sottraggono all’eterno ritorno del ciclo rurale, alcuni gridano all’avvento di una forma nuova di cristianesimo, di una temporalità finalmente cristiana, dell’ingresso appunto del moderno. Prima o dopo, Antichi o Moderni, non è più una disputa intellettuale, ma una passione, una faziosità, una vendetta storica.

Sul finire del secolo, nonostante il culto dell’antico e le prime sotterranee attrazioni per il ‘primitivo’, si restava poi sconcertati dalla questione dei ‘selvaggi’, e quel fondo denudato e semplificato dell’umanità sembrava scuotere tutti gli artifizi con i quali la civiltà rorocò si agghindava. Nacquero pertanto le scuole comparatiste con operazioni opposte ai revivals e alle restaurazioni.

Quanto sarebbe illuminante trasporre nel rapporto con gli Antichi, o comunque con le epoche e gli stili che ci hanno preceduto, il meccanismo della rivalità dei desideri mimetici esposto da René Girard. Triangoli si instaurano infatti nella storia tra soggetti rivali rispetto all’oggetto del loro desiderio. Ci si innamora di secoli, opere e artisti, in gara con altri. Così si forma la borsa dei valori storici e stilistici, il saliscendi del classico, le gelosie che spingono a preferire Quintiliano piuttosto che Tacito. Ci si imbatte nelle maschere, ipocrisia o cortesia sono abiti mentali di cui una volta non ci si spogliava mai. Michelangelo, per esempio, che i romantici acclameranno come il primo dei geni, non avrebbe mai gonfiato il suo io alla maniera moderna e si presentava reverente verso il passato. Andrebbero poi aggiunte le considerazioni di Elias Canetti sui viventi che guardano a chi giace morto: ben si addicono alla questione Antichi/Moderni, quasi mai affrontata con la dovuta pietas.

Con il tono grave e fremente di Gaspare Spontini, Alessandro Verri allestisce dei tableaux vivants della Roma pagana. Ma quadro vivente suona strano quando gli attori sono dei morti che si addensano intorno al Sepolcro degli Scipioni, recente scoperta archeologica sulla Appia Antica. Con «uno spruzzo di Ossian», mescolando anzi sapientemente fantasmi di nordica origine con statue parlanti, tombe e rovine luttuose, gli spettri appaiono, meditano e parlano. Per centinaia di pagine, possiamo dialogare con Bruto, Cesare, Plinio o Cicerone. Le interviste che fa loro il vecchio giornalista del «Caffè» accostano antico e moderno, rendono più corti i millenni, distruggono l’aura della superiorità inarrivabile, riconducono al muto dialogo sulle tombe tra figli e padri. La Roma archeologica che sta venendo fuori sulla scia di Pompei ed Ercolano, città di morti e di «fori cadenti», viene ripopolata nelle «notti» di Verri. Preannunciando, con maggiore grazia, il filone storico che si accende in Gli ultimi giorni di Pompei – quadro del russo Brulov prima che romanzo inglese – e i sounds and lights della spettacolarizzazione completa per masse feticiste, le Notti romane mandano bagliori in Europa e familiarizzano il pubblico agli antichi: i nostri morti. Verri parla con loro dei problemi del suo tempo, modernizza il mondo antico come esige il cristianesimo.

Ma, come nell’oltremondo dantesco, alcune anime si accostano all’uomo ancora vivo che sta narrando e chiedono dalla loro prigione temporale: «Rimane ancora pietra della nostra città? N’è spenta o vive la memoria? Galleggia sul diluvio de’ secoli alcune insegne di lei?». La risposta rinvia a un’ennesima variazione del mito della Roma cristiana: «Vive Roma immortale, onorata, splendida per altro modo…» (Notti romane, Laterza, 1967, p. 143). Se alla vigilia del Rinascimento i papi progettarono la costruzione sul Tevere della nuova Atene e insieme di una seconda Gerusalemme, o per alcuni sensibili alle sirene della letteratura pagana si trattò di un nuovo Olimpo per il vicario del Dio, adesso, alla luce della scienza archeologica e delle filologie di ascendenza illuminista, si tratta di ridefinire la superiorità della Roma cattolica. La peregrinatio pictorica di marca romantica, sembra corroborata dalle pagine di Verri. Non è detto che i singoli artisti le abbiano meditate, però quel messaggio circolava ormai in Europa, era il modello da contrapporre alle capitali che volevano rubare il primato romano, anzitutto la Parigi imperiale. «Roma, l’ultima capitale della resistenza alla modernità» per polemica politica, Verri la disegnava con tratto molto moderno.

Girano allora per la città i morti, e si compiacciono che sia ancora in piedi, ordinata e regale come quella che lasciarono. Una piccola folla di fantasmi curiosi che si interrogano sugli eredi, strani e inimmaginabili, come sempre agli occhi degli avi. Città ormai morta, era il giudizio arrogante dell’Europa post-rivoluzionaria nei confronti di Roma, ma i morti si agitavano ancora per l’urbe, in un dialogo trepidante con i viventi.

Una battuta che gioca su un piccolo equivoco introduce la seconda parte del libro, l’apologia della Roma dei papi, nata «sulle ruine della magnificenza antica». In uno dei giri per la Roma notturna, questi morti illustri leggono sulla facciata del palazzo berninian-borrominiano di piazza di Spagna la scritta «Collegium urbanum de Propaganda Fide» e pensano ce ne sia un altro rurale perché nel loro Ade non è giunta eco della fama di papa Urbano Barberini. Il narratore coglie la palla al balzo per lanciarsi in un elogio della Roma cattolica. Con tono solenne, spiega che se ai loro tempi Roma «la ampliaste dall’oceano agli indomiti Parti», l’Impero «di questa città ora si diffonde su tutta la terra. A lui chinano la fronte gli antipodi ignundi entro le selve nate col mondo, a lui si prostrano nazioni potenti e separate dal mare immenso. Qui giovani alunni d’ogni regione della terra, di lingua, di costumi, di sembianze diverse, ma di conforme disciplina sono nodriti a questa sublime proponimento di propagare nell’universo, a qualunque cimento, le celesti dottrine di pace, bandire dal mondo le atrocità selvagge e i vizi distruggitori» (p. 257). Commosso elogio dei missionari e della loro epica. Verri sembra finalmente dare corpo all’universalismo che nei furori illuministi di gioventù restava ancora astratto.

Cicerone si meraviglia dei nuovi romani che civilizzano più in profondità di loro, che vogliono addirittura estirpare la violenza dalla terra. Ma come è possibile, subito si discute, un impero senza violenza? Tutti gli Stati sono fondati sul sangue e nella scelleratezza vivono e si ampliano: torna la vecchia critica illuminista e non si fa abbindolare dalla virtù esibita dai giacobini né si lascerà conquistare dalla maestosità del bonapartismo o dai nazionalismi romantici. Agli occhi di Verri solo lo Stato teocratico è esente dalla colpa originaria, liberato dal peccato umano. «D’imperi fondati con violenze fortunose è piena la storia più che non comporta la felicità delle nazioni. Questo invece è il solo nato dalla utilità, cresciuto dal consenso, confermato dalla persuasione» (p. 258). Benché sia considerato uno strenuo difensore dell’altare e del trono, Verri è figlio dei tempi e immagina un cattolicesimo fondato sul consenso, ormai lontano dalle inquisizioni.

Ascoltando l’annuncio della Roma papale, i fantasmi dei tiranni «stringono lo scettro ancor più pallidi»: una sovversione mai vista nella storia antica ha ormai preso il potere. Bruto, il parricida per fini politici, non si capacita: «dove fu mai una podestà forte senz’armi?» (p. 259). Non si può bloccare una politica spregiudicata e anticristiana quando vuol passare alle vie di fatto ed esercitare la violenza. Perciò le teorie dei philosophes finiscono coerentemente nella coscrizione obbligatoria: dove si è mai visto – come dice Bruto – un potere forte disarmato? Il classicismo romano di cui si orna Robespierre come Napoleone sta a simboleggiare anzitutto la fedeltà alla antica violenza. I fasci littori sembrano chiudere la lunga parentesi della croce.

L’impero senza violenza cantato da Alessandro Verri appare un po’ semplificato, dimentico per esempio delle virtù guerriere di Giulio II, insomma angelicato come certa pittura romantica. Sembra che per distinguersi dalla violentissima epoca si debba ricorrere a una idilliaca età dell’oro pre-rivoluzionaria: «Non littori, non verghe, non scuri, non mannaie, ma lealtà, candore, modestia, consiglio fanno chinar la fronte de’ potenti senza viltà e trionfano del cuore» (p. 259).

Al termine di aspre discussioni e di interventi di fantasmi plebei che schiamazzano di fronte alla sofisticata stravaganza dell’impero non violento, prende la parola Cicerone per offrire al nuovo pontefice massimo la sua arte oratoria: «Esulto perciò veggendo questa patria fiorire eterna, quasi mezzo perpetuo scelto dalla provvidenza del cielo ad eseguire le più meravigliose vicende della terra» (p. 273).

Una terza parte, rimasta inedita fino a pochi anni fa, accentuava la cordialità del colloquio con le ombre del passato. Verri provava a raccontare con parole loro quel che era accaduto sulla terra negli ultimi millenni, esercizio con cui tutti coloro che vogliono sistemare la storia e la civiltà devono fare i conti. Perciò non spiega il Vangelo alle ombre, casomai prova a dire il cristianesimo secondo i canoni classici. Cicerone nota la contraddizione tra la pratica del duello e i princìpi non violenti del nuovo impero. Vecchia tecnica illuminista per satireggiare le incongruenze dell’Occidente: i selvaggi di Montaigne, la Cina dei teisti, i persiani di Montesquieu servono tutti a produrre lo straniamento del nostro mondo.

Mentre Cesare si interessa alle battaglie risolte con la polvere da sparo e Orazio trova ridicolmente barbari i nostri costumi, come pretende il relativismo, Plinio prende a parlare delle mode culturali centrando la questione che bolle nella pentola di quel fine secolo: «Ben tu vedi che nel mare delle umane discipline quasi ogni secolo spinge la sua onda, la quale seco trae le opinioni di ogni intelletto. E però, or l’una o l’altra veggiamo affermarsi per certa, e pentirsi la presente generazione di uomini, e beffarsi eziandio delle dottrine degli avi loro, e poscia i posteri loro pentirsi, ricredersi, beffarsi delle scienze de’ loro trapassati. La qual vicenda può dirsi essere stata finora perpetua, e però io non so se ella debba aver fine per le vostre scienze presenti…» (p. 291). Bella battuta, che risuona assai ironica nel momento in cui si accavallano tutti i ritorni indietro, le fughe a precipizio in avanti, le restaurazioni massicce. Già, il cristianesimo metterà fine ai corsi e ricorsi? Il Lukasbund era abbastanza idealista per credere che la loro arte avrebbe ridato all’umanità la pittura sacra delle origini in un nuovo corso teleologico della storia. Metternich si accontentava di rallentare la corsa folle all’innovazione, appena un freno, una pausa, per non essere inghiottiti dalla demagogia.

Le insegne dei romani antichi, l’aquila e il titolo di «re e imperatore de’ Romani» splendono ora nelle terre tedesche; dove un tempo c’erano barbari, ora uomini «formidabili e bellicosi» (p. 391). Sarebbe piaciuto ad alcuni romantici tedeschi una simile pagina, rimasta inedita, che univa i «due Soli».

Conclude Cicerone: «Tu mi fai lieto, o postero, imperocché intendo per la tua narrazione che questa mia patria cambiò con le vicissitudini del tempo e della fortuna i modi ma non l’oggetto dell’Imperio universale» (p. 387). E ripete il concetto: tutti gli Stati sono macchiati dal delitto, la nuova Roma è nata per offrire paterna protezione ai popoli abbandonati dal principe, ma poi crebbe così tanto che «la sola voce degli oracoli suoi disperse e congregò a suo talento gli eserciti, eresse i troni, li rovesciò, franse le corone e gli scettri[…]; fece chinare la fronte a’ re ai piedi suoi…» (p. 387). Già il primo discorso pro Roma cristiana di Cicerone fu censurato nella edizione francese. La veemenza della terza parte di Notti romane restò nascosta a tutti.

Sono trascorsi pochi decenni dal viaggio in Italia goethiano, quando la capitale dei papi è ancora (o comunque appare) saldamente classica. Intanto, si sono scatenate in mezza Europa le manie funerarie e l’arte del lutto. Gli antropologi si accorgono oggi della più impressionante ‘invenzione di una tradizione’: durante la Rivoluzione francese, si prende a pensare la morte come nessuna creatura aveva mai fatto finora e nascono nuovi riti per congedarsi dai defunti. L’arte dell’epoca sarà una eco fedele della grande liturgia laica per la sepoltura. Arte funeraria fu infatti per gran parte e per tonalità quella dell’epoca, carattere luttuoso che sovrintende allo stile neoclassico come al romantico. Persino i cimiteri furono sottratti, dall’ordinanza napoleonica, all’ombra del campanile, e ridotti a musei etnografici dell’Occidente, con le masse di mummie senza più un’anima. Monumentalità in onore della morte. Nessuna pompa funebre barocca fu così sconsolata. Struggenti appaiono i richiami alla sapienza antica, ai segreti egiziani, ai muti segni etruschi, alle parole stoiche, alla araldica massonica. Risuona grave la facile profezia di Novalis: «dove non esistono gli dèi governano gli spettri».

Verri lo aveva preceduto nel rappresentare la città che stava sfuggendo dalle mani dei papi – dopo circa duemila anni di quel dominio – in una necropoli ricca di morti celebri e fantasmi, che deve giustificare ogni suo gesto presente davanti agli avi, davanti a quel tribunale sotterraneo. Somma blasfemia, si potrebbe dire, quella di Verri e poi di Chateaubriand (e infine di tanti altri): contagiare la capitale classica con le manie nordiche dei fantasmi. Un giorno Savinio scriverà divertito di una «poetica necrofilia»: «gli Anglosassoni mancano spesso di realismo poetico, ignorano i valori poetici presenti, e li trasferiscono perciò in un mondo lontano, oscuro e incontrollabile come la Morte». Aggiungendo in nota: «Alla predilezione della morte si aggiunge la predilezione per gli spettri, i fantasmi, lo spiritismo». E spingendosi a dire: «André Suarès non ha mai preso sul serio il dolore e la morte. Nostra superiorità morale sugli Anglosassoni, nostro classicismo. Fanno eccezione Dante e Leopardi» (Ascolto il tuo cuore, città). E Verri? È una eccezione dimenticata o resta un classico che muove straordinari fantasmi classici?