lunedì 30 luglio 2012

Il bello come viatico

~ LE STELLE DI SAN PIO ~

Gli stiliti, mistici del cristianesimo orientale, passarono la vita sulle colonne senza contemplare la terra e neppure il cielo. Performances negative asservite all’ineffabile che rimaneva tale, silenzioso, sfuggente, neoplatonico. Altrettanto astratti furono i furori della mistica germanica, quella dei maestri di Lutero, i teologi del sine modis che respingevano l’arte per amore di un buio divino. Narrano invece i testimoni che, sentendosi morire, san Pio da Pietrelcina chiese ai suoi confratelli di essere condotto sul terrazzino del convento per guardare un’ultima volta il cielo stellato. Colui che aveva impressi i segni fisici di Cristo nel corpo, che mescolava il miracolo della santità con le assai prosaiche questioni del sangue, volle vedere lo spettacolo del creato qualche istante prima di varcare la misteriosissima soglia del Paradiso. Il bello come viatico per il cielo: ‘fioretto’ di un santo meridionale, di un seguace di Francesco d’Assisi. Nel cattolicesimo il firmamento notturno o il mare luminoso sono anticipazioni del Paradiso, immagini create da Dio, un dono celeste per gli umani. Il nostro maggior santo contemporaneo, in mancanza di artisti, ce lo ricorda, riconsacrando il senso della vista tanto bistrattato dai teologi post-conciliari.

giovedì 26 luglio 2012

Santa collera cristiana

~ GLI INSEGNAMENTI DEL CARDINALE DANIÉLOU,
IL GRANDE CALUNNIATO,
PER SUPERARE LA TIMIDEZZA DI FRONTE A LACAN ~

Il cardinale teologo, lo studioso della Patristica, l’amico di Klossowski e di surrealisti che conclamavano il peccato, morì d’infarto, dopo aver fatto le lunghe scale a chiocciola di una casupola parigina, nell’abitazione di una spogliarellista. I laici sghignazzarono sui loro giornali e alla tv, i gesuiti che lo avevano avuto nella Compagnia, soldato in partibus infidelium, lo calunniarono più degli altri. Era il 1974, l’organizzazione ignaziana annaspava nel progressismo post-conciliare, si innamorava dei marxismi più sdolcinati, non poteva sopportare un loro insigne confratello, già in odore di modernismo parigino, criticare con sapienza e grazia l’abbandono della essenza cattolica: i teorici della casuistica misero da parte la «data fattispecie» e lanciarono il loro fango sul cadavere dell’infartuato. Anche i conservatori, mescolando come spesso accade teologia e politica, tacquero di fronte alla denigrazione di un cardinale che aveva frequentato per tutta la vita ambienti a loro lontani. O, peggio ancora, approfittano ancor oggi di quella morte per rivalersi di una teologia che non condividono, ascrivendo tutto al complotto, alla massoneria, alla grande macchinazione degli gnostici nascosti che cospirerebbero nell’editoria come in Vaticano. Si poteva forse credere alle parole della ragazza sulla visita di Sua Eminenza nelle stanze malfamate per offrire una somma di denaro destinato alla difesa legale del marito di questa Maddalena? «Doveva proprio portarglieli a casa quei soldi?», si diceva chi non conosce la follia della carità cristiana.

Padre Jean Daniéou che aveva dialogato con ebrei e islamici, con gnostici e buddisti (ma assai meno con gli atei) sapeva operare nella tradizione cattolica, fedele non all’integralismo (che è termine protestante) quanto al buonsenso di questa cultura. Scriveva perciò nelle sue Memorie (in italiano con questo titolo il testo Et qui est mon prochain?, pubblicato dalla Sei, 1974, edizione da cui sono tratte queste citazioni):

«Se si eccettua Dio, non mi pare di dipendere da nessuno e per questo non sento il bisogno di contestare né la borghesia né la Chiesa» (p. 12). L’agitazione del clero di quegli anni veniva svuotata di senso. In compagnia di teologi che erano stati gli eroi dei contestatori cattolici, spiegava con fermezza: «Ciò che a me è apparso grave – e non solo a me ma anche a degli amici come Padre de Lubac, Urs von Balthasar e tanti altri – nella storia religiosa di questi ultimi trent’anni è lo slittamento dello sforzo di apertura del pensiero verso un atteggiamento da dimissionari». Oggi si potrebbe aggiungere a tali nomi quello di un giovane teologo di allora, Joseph Ratzinger. «Ci sono azioni di rigetto che sono salutari. […] Persino Cristo si lascia prendere dalla collera. Quando egli tratta i Farisei da ‘sepolcri imbiancati’, qualcuno potrebbe oggi osservare che è una mancanza di carità, che il Cristo non avrebbe dovuto permettersi di parlare di ‘sepolcri imbiancati’. E quando afferma, a proposito di coloro che scandalizzano i bambini, che bisognerebbe metter loro una macina da mulino al collo e gettarli in mare! Cristo sa essere violento. La collera, nel significato più corretto del termine, è la reazione di una sensibilità sana davanti a delle situazioni vili, laide, spregevoli. In questo senso occorre sapere andare in collera come Bernanos, come Péguy. Certo la collera è un essere difficile da domare […]» (pp. 20-21).

Che cosa fa fremere di più un sapiente? Non le debolezze della carne, la lussuria patetica, l’idolatria diffusa del denaro e gli illeciti per arricchirsi a ogni costo. Un sapiente non tresca con il puritanesimo. Contro i luoghi comuni dei laici Daniélou sosteneva: «La nostra società non è immorale – non lo è almeno più di altre – pecca piuttosto contro l’intelligenza; i più grandi peccatori del nostro tempo sono spesso gli intellettuali» (p. 21). Il teologo gesuita prendeva «le idee sul serio», convinto che «alla fin fine l’intelligenza decide su tutto», provava ribrezzo per quel mercimonio dei cervelli che l’intellettuale di massa mette in mostra sfacciatamente. Gli intellettuali perciò «sono molto più colpevoli che i capitalisti, perché quello che intaccano, che distruggono, particolarmente nei giovani […] è fondamentale: l’idea cioè che esista una dimensione della realtà che ci sorpassa e che l’intelligenza può cogliere» (pp. 21-22). Davvero audace sostenere contro i dogmi moderni che «la convinzione che ognuno ha la sua maniera di ragionare, che si sa molto bene che altri la possano pensare diversamente, che tutti i pareri si equivalgano più o meno, mi sembra del tutto deleteria, perché quello che mi interessa in un’opera letteraria o filosofica non è tanto ciò che ci fa conoscere il suo autore, perché dopo tutto la cosa non mi riguarda, ma in quale misura egli arricchisce la mia conoscenza. […] Che me ne faccio di quei sofisti brillanti che giuocano meravigliosamente con i concetti e con le parole […]! L’unica cosa che mi interessa è la splendida avventura del’intelletto, la esplorazione di questo mondo inesauribile che è nello stesso tempo il mondo della bellezza, dell’uomo e di Dio» (pp. 22-23).

La gioia cristiana per lo spettacolo del creato gli faceva scrivere: «Intelligenza è per me questo svelarsi lento e continuo delle cose. Stimo gli scrittore che mi aiutano in questo processo, gli altri non mi interessano. Mi dispiace che oggi si attribuisca un’importanza eccessiva all’originalità di una filosofia o di un’opera d’arte. Ciò che mi interessa è se mi fa conoscere qualche cosa della realtà» (p. 23).

Un teologo parigino potrà magari civettare con le più brillanti menti dell’Occidente, ma al momento opportuno e drammatico saprà denunciare l’abbandono del cattolicesimo da parte di una componente del clero e dei fedeli: «l’epoca post-conciliare che avrebbe dovuto essere quella del rinnovamento della vitalità della Chiesa, e che continua a presentare degli aspetti estremamente positivi, è anche quella di un certo indebolimento interiore; ce ne rendiamo tutti conto. Per molti cristiani, le verità di fede contenute nel simbolo apostolico che stanno a fondamento della fede traballano: Dio creatore e sovrano, signore di tutte le cose, Gesù Cristo suo unico figlio, la missione del Verbo, la nascita verginale, la resurrezione del corpo di Cristo, il ritorno di Cristo alla fine dei tempi, l’effusione dello Spirito sulla Chiesa, luogo dell’azione divina con l’infallibilità che essa implica per coloro che esercitano in pienezza il loro carisma, il valore dei sacramenti, l’attesa della risurrezione. Queste verità che costituiscono l’oggetto della nostra fede non possono essere modificate in base alle correnti ideologiche moderne, esprimono il contenuto della rivelazione cristiana, l’intervento di Dio nella storia, che permette all’uomo di portare a termine quanto supera le sue forze» (pp. 161-162).

L’umanista cristiano sa che «l’uomo non è in grado di fare grandi cose: si confronta con assoluti come la morte e il male. Il problema è sapere se deve rimanere vittima di questi assoluti, perché in tal caso allora gli ‘autentici’ sono solo i razionalisti e i disperati. […] Che cosa possono rispondere gli ottimisti, i comunisti e gli altri? Possono modificare alcune condizioni esistenziali della società, ma sono totalmente impotenti, e sono i primi a riconoscerlo, di fronte alle interrogazioni ultime» (p. 162).

Una citazione da appendere fuori di molte chiese o da opporre ai teologi da «Repubblica»: «Per quanto mi riguarda sono indifferente all’immagine di un Gesù che potrebbe essere il primo degli obiettori di coscienza o il primo contestatore o il primo di coloro che lottano contro l’ingiustizia, perché essa si collega e spiega problemi reali ma non dà nessuna risposta al problema mistico. La costituzione di una società giusta e fraterna mi sembra un obiettivo certamente desiderabile ma superficiale in rapporto ai problemi fondamentali che ogni persona umana è costretta a porsi» (pp. 162-163).

Non temeva il cardinale di usare parole grosse per certe figure post-conciliari: «assassini della fede» li chiamava, e pensava «a coloro che smobilitano alcune verità fondamentali sia perché non osano più proporle, sia perché le svuotano del loro contenuto» (p. 165). Scandaloso gesuita senza timidezze: «nel cristianesimo ci sono affermazioni che sono scandalose, che lo sono sempre state. È assurdo dire che oggi nessuno ci crede più: non ci si è mai creduto. Paolo ha scandalizzato gli stoici come gli epicurei. […] Sono colpito nel vedere i cristiani terrorizzati dalla psicoanalisi e dalla sociologia. Non portano più in maniera gioiosa, spigliata, tranquilla la pienezza che è stata loro affidato, si lasciano crescere dentro complessi di colpa di fronte alla grandezza dell’intelligenza carnale. Rimango umiliato quando vedo un giovane cristiano impressionato da un ideologo lacaniano, marxista o altro: non abbiamo nessun diritto di rinnegare il messaggio di Cristo davanti alle moderne correnti del pensiero» (pp. 166.167). È questo il problema di molta cultura conciliare, non una congiura modernista: i reverendi padri furono folgorati dalle piccole star dell’intelletto, dalle novità in libreria sul finire dei Cinquanta. Non c’era più bisogno di severi studi intorno ad Aristotele o alla Patristica, bastava leggere le formulette dei Marx e dei Freud in tascabili per intravedervi i segni dei tempi gioachimiti. Una semplificazione della storia: l’ora messianica stava arrivando, la annunciavano i marxisti. E anche oggi, quante umiliazioni nell’ascoltare le prediche domenicali, la devozione anche formale dei luoghi comuni, dell’opinione pubblica...

Profetico suona questo insegnamento nella nostra epoca che vorrebbe tradurre in legge anche i confini della vita e della morte e confonde la battaglia contro l’errore con la dannazione dell’errante: «quando tutto è gettato in pubblico, è quasi impossibile mantenere la distinzione per altro valida tra il rigore dei principi e la duttilità nell’applicarli» (p. 176).

Jean Daniélou era a favore della partecipazione dei laici alle letture dall’ambone, approvava che il celebrante dicesse messa rivolto ai fedeli, non era uno strenuo difensore del latino (pur ricordando con forza che il Concilio «non ha mai proibito il latino»), ma non esitò ad affermare con chiarezza: «Detesto tutte le iniziative che spogliano il sistema liturgico del suo carattere sacro: esse non sono affatto sulla scia del Concilio, ma di una certa desacralizzazione, di una certa secolarizzazione, gravida di conseguenza. Niente da meravigliarsi quindi che coloro che cercano nella liturgia un passaggio verso il mistero – ed è questa la liturgia – si precipitino dagli ortodossi» (p. 178). Come faceva a Roma Cristina Campo e i suoi sodali che, amareggiati dal desolante neo-protestantesimo della liturgia cattolica, accorrevano nella chiesa di sant’Antonio abate all’Esquilino dove si celebrano i riti cattolico-slavi con la sontuosità e il senso del mistero di sempre.

domenica 15 luglio 2012

La saggezza dell'ambasciatore

~ COME I CRITICI D’ARTE
CORROMPONO I POLITICI. ~
DAL DIARIO DI UN DIPLOMATICO
PRESSO LA SANTA SEDE ~

I diari degli ambasciatori hanno spesso un tono distaccato, inattuale, proprio mentre rendono conto di tutti i dettagli più impercettibili e più segreti del mondo. Quello di Gian Franco Pompei, ambasciatore italiano presso la Santa Sede negli anni Settanta, è una singolare lettura: spirito aristocratico, cultura di chi si è formato nelle grandi biblioteche familiari, ironia di chi offre per ufficio preziosi consigli a personaggi mediocri, con scarsa intelligenza e ancor più scarso gusto. Così un giorno il suo sguardo si posa sulle miserie piccolo-borghesi dei monsignori post-conciliari che buttano a mare le meraviglie degli arredamenti nei palazzi apostolici per ristrutturare in falsa semplicità e ad altissimo costo le antiche stanze che adesso paiono sale d’aspetto di società petrolifere. Oppure, presente a una solenne liturgia in lingua volgare a piazza San Pietro, una delle prime se non la prima, nota subito melodie da paesello, povertà e bruttezza delle musiche che hanno sostituito il gregoriano. In ambedue i casi, il grottesco che quel genio di Fellini estraeva a quei tempi dalla Roma dei prelati aggiornati.

I diari degli ambasciatori talvolta fanno pensare ai libri di viaggio dei settecenteschi e quando si tratta di nostri contemporanei riescono a rendere settecentesco, lontano e spesso buffonesco il mondo che ci circonda. Dalle carte di questo diplomatico di quarant’anni fa, riportiamo due citazioni: una del 30 gennaio 1974, ai tempi della crisi petrolifera che fermava le auto la domenica e mandava gli italiani a letto presto; l’altra, del 25 giugno 1975, sui politici corrotti linguisticamente dal vocabolario della critica d’arte:

«Un ‘artista’ bulgaro, Christo, con la complicità di Palma Bucarelli impacchetta i monumenti. A parte i disagi, il lavoro perso, i rischi di incendio, ci domandiamo quello che costa questa sciocchezza (a base di petrolio) nel momento dell’austerità a un comune che ha 3.000 miliardi di debito e non ha provveduto a nessuna delle strutture essenziali. Al muro! (e non alle mura aureliane)».

«Le responsabilità dei teorici dell’estetica e dei praticanti della critica d’arte, in ogni ramo, sono gravissime. Per tentare di dare dignità di scienza a una ricerca che consiste nel cogliere stati d’animo dell’autore e dei ‘fruitori’ (come si dice oggi) dell’opera d’arte e che dà risultati diseguali, basati più che altro su qualche rara intuizione individuale, i responsabili di questa professione hanno edificato un cumulo di sciocchezze e creato un vocabolario di follie. È impossibile confutare le loro affermazioni, poiché sono talmente prive di senso che non possono essere confrontate con nessun criterio di verità e di esistenza. [...]. Non è senza grave pericolo per la salute individuale e sociale che si pratica la follia collettiva. L’abitudine a sentir dire qualunque sciocchezza ha aperto la via comoda e facile ai politici, che hanno perfezionato quel linguaggio: i loro discorsi, poco utili per l'intelligenza dei problemi dei quali pretendono trattare, basati sull’accordo di sentimenti procacciato con ogni mezzo verbale, sono uno scatenamento di aberrazione» (Gian Franco Pompei, Un ambasciatore in Vaticano. Diario 1969-1977, Il Mulino, 1994, pp. 463-464).