lunedì 1 novembre 2010

Sul papa


~ NON SI TRATTA DEL CELEBRE SAGGIO DI DE MAISTRE, BENSÌ DELLE PAROLE PREZIOSE E DIMENTICATE DI UN DIPLOMATICO DELLA POLONIA COMUNISTA INTORNO AL PONTIFICATO DI PIO XII ~ MENTRE SCORRONO LE IMMAGINI TELEVISIVE SULLA SUA ROMA ~

Tadeusz Breza (1905-1970) fu direttore dell’Istituto culturale polacco a Roma tra il 1955 e il 1959. Essendo anzitutto un letterato, raccontò quell’esperienza in un libro uscito in Italia nel 1962 presso Feltrinelli, Il portone di bronzo. Ne abbiamo già parlato in un lontano pezzo dell’«Almanacco» datato 5 dicembre 2008 (Calendario dell’Avvento), ne torneremo sicuramente a parlare. Riportiamo le parole con cui lo presentammo allora: «il diario romano di Tadeusz Breza ottenne in Polonia il premio per la saggistica laica, idest anticlericale, mentre l’autore veniva considerato un redivivo Stendhal che ironizzava sulla Roma dei papi. A rileggere oggi, a distanza di mezzo secolo, il giornale segreto che un aristocratico spedito a Roma a dirigere l’Istituto culturale polacco tenne negli ultimi anni del pontificato di Pio XII, vi si avverte, dietro la cortina dell’ufficialità, una ammirazione straordinaria per la città eterna, il suo pontefice, la curia, oltre che per le corti della nobiltà nera, dei parroci, dei frati, del popolo romano. Breza, diplomatico e scrittore, aveva lavorato negli anni Trenta all’ambasciata polacca a Londra, negli anni Cinquanta decise di continuare a rappresentare il suo paese anche se nel frattempo al potere erano andati i comunisti. E da diplomatico colto si districò tra il nuovo regime e l’antica istituzione universale: da una parte raffigurò lo splendore della capitale cattolica prima degli ascetismi conciliari, dall’altra si convinse e volle convincere, sbagliando, che il comunismo era un destino d’Europa con il quale anche la Chiesa doveva fare i conti». Da Il portone di bronzo, libro ormai dimenticato perfino dai vaticanisti, prendiamo alcune citazioni che illuminano la Roma di Pio XII, a fare da controcanto alle immagini televisive che scorrono in questi giorni, per un racconto popolare su papa Pacelli.

I .d u e. e n i g m a t i c i. t e d e s c h i

Parlando dei due gesuiti tedeschi che facevano da segretari di Pio XII, padre Robert Leiber e padre Wilhelm Hentrich, viene fuori il complicato sistema vaticano di quei tempi, incomprensibile agli storici che non siano in possesso delle chiavi più introvabili: «Se qualcuno, alla ricerca di informazioni sulla posizione ufficiale dei due padri Leiber e Hentrich sfogliasse l’Annuario pontificio, il grande catalogo del personale vaticano, tra i sedicimila nomi elencativi quello di Leiber non lo troverebbe affatto, e quello di Hentrich potrebbe scovarlo tra i ventiquattro consultori del Sant’Uffizio. Naturalmente è già qualcosa: ma se si pensa che le congregazioni sono dodici, e che oltre ad esse ci sono i tribunali, gli uffici superiori e le segreterie, tutti con almeno venti consultori per uno, padre Heintrich diventa uno tra quattrocento individui tutti uguali tra loro. E invece, di uomini così ce ne sono soltanto due. A Roma se ne sa qualcosa sì e no. Non se ne parla volentieri. I religiosi italiani ce l’hanno con loro perché sono tedeschi, quelli tedeschi perché si sono italianizzati. [...] Essi sono anzitutto servitori del papa, poi gesuiti, ed infine, solo in un terzo stadio psicologico, tedeschi. […] Formalmente Leiber non è un segretario vero e proprio. Un tempo espletava ufficialmente questa carica presso l’attuale papa: la prima volta negli anni precedenti la prima guerra mondiale, presso l’allora nunzio in Baviera, vescovo Eugenio Pacelli, la seconda presso il cardinale Pacelli. Ma dal giorno in cui, nel 1939, Pacelli fu eletto papa, Leiber viene semplicemente a lavorare con lui. V. sostiene che il papa non ha mai nominato ufficialmente Leiber suo segretario, perché questa carica non esiste. […] Ma la posizione formale di padre Leiber nei confronti del papa non è la sola a essere interessante. La sua posizione effettiva e psicologica lo è molto di più. Stanno insieme da quarant’anni. […] Il papa ha Leiber accanto a sé per metà della sua vita. Accanto al papa Leiber ha trascorso la sua gioventù, la sua maturità, la sua vecchiaia. Il papa gli ha preso tutta la vita. […] La politica assorbe il papa. Le dedica un’enorme quantità di tempo. Le sue ambizioni politiche sono grandi: vuol dirigere da solo l’intera politica vaticana. Sotto questo aspetto non è il primo papa del genere, tuttavia bisogna tornare indietro di secoli per trovare un papa che faccia a meno del Segretario di Stato. […] O. ammira la grande cultura, l’intelligenza aperta, l’umanità, la larghezza di vedute di padre Leiber.[…] C’è ancora un’altra qualità di Leiber che O. ammira ed è il suo odio per il fascismo e per il nazismo. È sempre stato così: prima della guerra il suo antihitlerismo era venato di una sfumatura antiprussiana, in cui si avvertivano certi antagonismi della Germania. Ma gli passò presto. Durante la guerra il suo antinazismo maturò e si purificò dei vari elementi antifilosofici e antiumanistici». (pp. 63-68).

I .c o m m e n t i .d e l l’. « E s p r e s s o »

Già allora il gruppo editoriale l’Espresso faceva politica con notizie fantasiose. Ma mentre oggi può vantare come vaticanista il bravissimo Sandro Magister, durante il pontificato di Pio XII, proprio sulle cose vaticane cominciava a propalare false notizie. Se ne accorse subito Breza che annotava sul suo diario: «Roma, 2 dicembre ’56 - ‘L’Espresso’, uno dei pochi giornali italiani appartenenti al no man’s land, pubblica una rubrica di brevi notizie confidenziali del retroscena politico intitolato Speciale. Tra di esse si trova sempre una porzione di notiziole vaticane, le quali godono di una buona reputazione presso i consolati e le ambasciate, malgrado il fatto che quando ‘L’Espresso’ si lancia in editoriali dedicati alle questioni vaticane, spesso vengano fuori delle assurdità. Ma forse questo succede proprio perché quel pizzico di verità autentica che sono riusciti a scoprire, lo condiscono a profusione con salsa di dubbia autorità. Per quanto riguarda lo Speciale, sono incline a pensare che si tratti di pizzichi senza condimento». (p. 97)

I l .l i n g u a g g i o .d e l .p a p a

Assistendo alla beatificazione di Innocenzo XI, Breza nota che «tra le righe delle formule glorificanti e della fraseologia tradizionale delle beatificazioni fa continuamente capolino il motivo informatore dell’intero discorso. Agli occhi di Pio XII Innocenzo XI fu il papa che si batté consapevolmente e senza tregua per affermare il pieno diritto della Sede Apostolica di nominare i vescovi, e per creare uno sbarramento cristiano contro i turchi. Il discorso non contiene la benché minima allusione alla realtà contemporanea, non vi si trovano piccole metafore sparse qua e là: ma esso stesso, nel suo insieme, non è altro che tutta una grande metafora. Fin dalle prime parole si avverte che costruendolo Pio XII ha messo l’accento principale proprio su quei vescovi e su quel muro contrapposto alla grande ondata che minacciava di sommergere il cuore, il focolare stesso della cristianità. Di punti sulle “i” non ne mette mai: altri, a tempo debito, lo faranno per lui». (p. 91) Chi è in grado oggi di leggere la 'grande metafora' del pontificato di Pio XII?

L ’ e p o c a. d e l l a. t e c n o l o g i a

In quegli anni c’era chi diceva che l’America ha preso Cristo senza la croce e la Russia la croce senza Cristo. Con tono leggero Breza riferisce delle riflessioni del coltissimo papa. «Se non ci fosse il comunismo, la spina principale, il problema numero uno sarebbe l’America e l’americanizzazione spirituale del mondo. Il papa non ne parla, non la nomina mai chiaramente. Definisce la nostra epoca come l’epoca della “seconda rivoluzione tecnica”. Tale rivoluzione fa sì, questo più o meno il suo pensiero, che ormai ci appaiano vicini gli orizzonti di un’era in cui non solo la natura del mondo non avrà più segreti, ma non ne avrà più neanche quella dell’uomo, preso sia individualmente che nelle sue connessioni sociali. I gabinetti medici e le cliniche ristabiliranno l’equilibrio morale; i problemi sociali man mano si presenteranno verranno risolti in un baleno dai cervelli elettronici; non ci sarà più posto per le passioni, per gli impulsi, per l’irrazionale. […] Più piano! Più piano! Lasciate che l’uomo riprenda fiato! […] Coloro che accusano la Chiesa di tradizionalismo, prosegue Pio XII, non capiscono che oggi al mondo non c’è niente di più umano della tradizione. […] La tradizione, sempre a detta di Pio XII, non solo ha un valore terapeutico per la piaga della vita moderna, e cioè la rapida e incessante trasformazione del mondo sotto la spinta delle illimitate possibilità tecniche, ma dovrebbe anche venir applicata preventivamente dovunque il progresso non sia ancora arrivato…». (pp. 111-112)

L a .C h i e s a .m o d e r n a

«Una circostanza tipica per la Chiesa moderna, e cioè che nella nostra epoca essa ci si trova bene. Certo, non così bene come nel Medioevo, ma molto meglio di quanto si trovasse nel diciannovesimo secolo. Ed infatti nel diciannovesimo secolo era timida» (p. 281). Sembra un paradosso, nel regno pacelliano, così legato alla tradizione, la Chiesa sapeva dialogare meglio con il moderno. Successivamente fu di nuovo afflitta dalla timidezza. Molti aspetti del Concilio Vaticano II sono contrassegnati proprio dalla timidezza nei confronti dell’onnipotente Moderno.

I l .s o v r a n o. d i .R o m a

Nei giorni seguiti alla morte del pontefice (ottobre 1958), mentre Roma si avvolgeva nel lutto solenne per il suo sovrano: «Da secoli e secoli la vita di Roma si accentra intorno al papa. I Savoia e Mussolini turbarono per un po’ questa specie di assetto geometrico, ma sono passati. Il papa invece è rimasto, ed è tornato a essere il centro che era prima». (pp. 361-362)

P a d r e. P i o. g i à .a l l o r a. s i. d i s t i n g u e

«Roma, 6 febbraio ’58 - C. T., grande attore italiano e fervido ammiratore di Padre Pio, mi raccontava oggi alcuni commoventi episodi sul suo conto. Qualche anno fa un suo collega, il famoso comico Carlo Campanini inviò una lettera a Padre Pio dicendo che avrebbe desiderato appartenere alla sua famiglia spirituale, ma che disperava di poterci entrare, dato che ogni sera doveva fare il buffone sulla scena, con la faccia impiastricciata di cerone. Padre Pio gli rispose press’a poco con queste parole: “Figlio mio, i tuoi scrupoli sono infondati. Ognuno di noi, per quanto è grande il mondo, fa il buffone là dove lo ha messo la Provvidenza”. È una frase grande. Per Padre Pio, come per tutti i suoi predecessori a cominciare da S. Gerolamo per finire a S. Filippo Neri, la serietà non è cosa adatta all’uomo, creatura macchiata dal peccato originale. Ecco senz’altro una delle fonti dell’esistenzialismo cristiano, consistente in un senso di vergogna e di imbarazzo provocato nel genere umano in seguito alla cacciata dal Paradiso». (p. 280)