sabato 24 dicembre 2011

Davanti al teatro del mondo

*NATALE 2011*

La cultura protestante che privatizza la religione ha trovato nel Natale la sua festa per eccellenza: il rito è domestico, celebrano genitori e figli, fidanzati e amici, il sacerdozio universale ottiene la sua realizzazione palpabile. In terra americana ha trovato la sua patria, le innumerevoli canzoni che l'accompagnano da un secolo hanno conquistato il mondo. E la sera del 24 dicembre i pragmatici che seppero costruire un impero con una massa di esuli si commuovono, «… And every mother's child is going to spy, / To see if reindeer really know how to fly» (The Christmas Song). Non fu sempre così, naturalmente, le Cantate natalizie di Bach non si eseguivano nei salotti e tantomeno nelle sale da concerto, bensì nelle chiese luterane, erano parte integrante della liturgia. Strada facendo però il laicismo protestante prese il sopravvento, il sacro si stemperò in una festa borghese d’inverno e, per ridar fiato all’evento, non bastando il padrone di casa a far da mediatore tra il Cielo e la Terra, si tirarono fuori figure misteriose, il vecchio benefico a metà tra il generoso San Nicola e la personificazione della estrema stagione dell’anno che, in consonanza con quella della vita, ha i connotati della decrepitezza. Negli ultimi tempi, una multinazionale delle bevande gassose si impadronirà di quel personaggio, gli metterà i suoi colori, il rosso e il bianco, ne farà una forma di pubblicità indiretta. Il vecchio così sostituisce il puer e sovraintende al nuovo rito dello scambio di doni materiali (nella ‘profanazione’ della festa sacra questi infatti da segni, da testimonianze, si trasformano in feticci). Il messianismo è ridotto a un ammasso di merci, a un bazar di simboli ormai incomprensibili, confusi, come sempre nel cosiddetto post-moderno.

Il presepio cattolico rammemora invece come l’incarnazione divina non fu un fatto intimo, con la famigliola nel chiuso domestico: l’Invisibile divenne visibile davanti al teatro del mondo. Pastori e altri miserabili furono i primi ad accorrere, ma vi si aggiunsero i re, i saggi, i suonatori di zampogna – almeno secondo il presepio italiano –, gli artisti dunque, e gli angeli fecero corona alla scena. Non era un racconto lineare, si snodava lungo una via narrativa contorta con curve a gomito come nelle raffigurazioni dei primi maghi della prospettiva che dietro alla scena della natività piazzavano diversi tornanti per rompere la piattezza della parete di fondo.

Il presepio enfatizza il fatto storico che si incrociò con il censimento romano, con l’editto imperiale, con i voleri del pontefice massimo. Al contempo la natura partecipa a questa festa, dalle stelle del cielo alle piante sempreverdi, e vi partecipano gli animali, a compimento delle profezie, asino, bue, pecore, capri, cani che vediamo per esempio raccolti da Giotto in gran copia.

Il presepio cinquecentesco, quello concepito da Albrecht Dürer, faceva incrinare le architetture classiche, una specie di terremoto della storia. Gli archi romani spezzati sottolineavano la nascita del moderno che coincide con l’avvento di Dio in forma umana. La storia non era finita – sembrava dire l’artista tedesco – ma c’era ormai un prima e un dopo, al senza-tempo del mondo antico si sostituiva il tempo che corre verso lo scioglimento di tutti i legami, di tutte le servitù. Il superamento del classico fu annunciato dagli artisti tedeschi che più gli erano estranei, che ne subivano il giogo, che rappresentavano i semplici, i barbari, gli ansiosi della modernità salvifica. Eccessivi, eterni espressionisti, i germanici credevano che l’annuncio evangelico fosse il rintocco dell’ora presente. Ma i pittori italiani ripresero quel tema pur conservando con pietà filiale le rovine del loro passato, quell’impero che la Provvidenza aveva messo al servizio del puer divino. Moderno era una complicata conseguenza di quella notte in terra di Israele e del suo riverbero nel mondo romano.

Nei giorni del buio invernale, non era più sufficiente la luce delle lampade negli interni delle case, il fuoco domestico, il simbolico verde delle piante sopravvissute, il cibo in abbondanza: la modernità cristiana pretendeva aver superato la morte. Di qui il suo fascino, la sua grandezza morale, il suo sommo privilegio; verrà utilizzata in modo strumentale dai propagandisti del progressismo, dai fedeli dei Lumi.

Profano significa fuori del tempio, pro-fanum, lontano dalla chiesa. Si riconsacra il Natale soltanto nella partecipazione alla Messa, là dove il teatrum mundi del presepio si incarna nella comunità vivente. Là dove si ricongiunge la davidica Betlemme e il Golgota, e il mistero del puer si svela. Allora soltanto il moderno diviene un’aggiunta preziosissima all’eburneo mondo classico.

Buon Natale, amici che leggete questo Almanacco, buona festa della vita e, come sempre nelle occasioni solenni dell’anno, buon ricordo dei morti.

mercoledì 21 dicembre 2011

Piccoli orrori natalizi

~ LA CICOGNA IRROMPE IN PARROCCHIA,
IL BEAT NELL’EREMO DI LISZT ~

Gesù disegnato come un marmocchio con un solo dentone, lentiggini e ciuffetto, che pende dal becco di una cicogna: così una parrocchia di Monte Mario a Roma narra sul suo bollettino l’incarnazione divina. Una spiritosaggine o piuttosto il dramma della incapacità di esprimersi, la confusione sui fondamentali, l’assoggettamento al gergo dominante, quello parodistico e comico. L’ossessivo ‘aggiornamento’ dei cattolici ha tanto in uggia l’eternità da diventare feticismo dell’immaginario reclamistico; il prete sull’altare non parla e canta nella lingua contemporanea, ripete nelle forme cheap della parrocchietta il tracotante idioma dei pubblicitari. A maggior gloria del Kitsch. I misteri cristiani spariscono, al loro posto si avverte l’enigma della merce.

Violata la regola universale della Catholica, si improvvisa continuamente con le migliori intenzioni di questo mondo (del mondo, appunto), ci si diverte a colpi di creatività da maestre di asilo in un ambito che non ha niente della ludoteca. C’è chi distribuisce la comunione facendo zuppetta con l’ostia nel «sangue di Cristo» contenuto in un calice che il celebrante affida a un ragazzo o a una matura signora della prima fila, chi pretende di ricevere l’ostia in mano e, appena girato, se la porta in bocca col gesto prosaico del Mangiatore di fagioli di Annibale Carracci, c’è l’officiante che nel bel mezzo del sacro rito si dilunga nell’informazione spicciola, invogliando alla gita parrocchiale in Spagna o ad acquistare il biglietto dello spettacolo di beneficenza dove sono assicurate matte risate, chi dopo una breve lettura va a sedersi su uno scranno e resta in un lungo silenzio che mette in ansia i fedeli su un possibile mal di pancia del prete o su una sua improvvisa conversione al Quietismo, chi evita le candele e chi la croce, chi va a stringere la mano in segno di pace per tutta la chiesa, alla maniera dei politicanti in cerca di voti, rendendo vana quella lavanda dei polpastrelli da ogni impurità prima di toccare le sacre specie, chi spiega di volta in volta ogni suo gesto quasi si fosse in piena didattica catechistica invece che nella ripetizione di un sacrificio… Un prete in vena di cortesie per gli ospiti lodava la pazienza dei fedeli per aver assistito alla messa domenicale, quasi si trattasse di una sua conferenza poco brillante, chissà che ne avrebbe pensato sulla croce il Patiens per antonomasia.

Un giorno, in Paradiso, magari ci si accorgerà della manchevolezza armonica delle più elevate composizioni di Beethoven, e tutte le opere musicali, pittoriche e letterarie che tanto sembravano accostarci al Cielo – l’arte è quella attività che più somiglia alla religione, sosteneva Pio XII – mostreranno da una tale distanza la loro debolezza, però della volgarità di tutte le canzoncine post-conciliari si è consapevoli fin da adesso. Né vale obiettare che anche i pii canti di una volta apparivano teologicamente zoppicanti, i testi ingenui, semplici le melodie: erano infatti espressione popolare, niente di male, mentre ora si tratta di sottospecie del pop, di scarti festivalieri, ovvero di prodotti mercificati (non c’è bisogno di aver letto Adorno per capirlo), in ogni caso i dolci inni in onore della Madonna e dei santi si intonavano nelle processioni e nelle funzioni minori, non accompagnavano la somma liturgia della messa.

Restiamo a Monte Mario, l’altura che fa ombra alla valle del Vaticano, il Monte Gaudio dei pellegrini – risuona anche in Dante –, luogo felice dunque perché da lassù si vedeva finalmente la meta, la basilica di San Pietro. Su questo ‘monte’, di appena 139 metri, sorge la chiesa di Santa Maria del Rosario, un rifugio delizioso tra il modernismo delle case anni Cinquanta. Qui, Franz Liszt si nascose al mondo e contemplò Roma. Dopo «il virtuoso degli anni del pellegrinaggio», dopo «lo tzigano delle rapsodie ungheresi», dopo «il maestro di cappella di corte», si presentò alla vita musicale come «l’abate Liszt». Ospite del convento che affiancava la settecentesca chiesa, uno dei massimi geni musicali serviva umilmente la liturgia suonando un armonium – mancando i soldi per acquistare un organo – e componeva musica sacra nel silenzio del luogo. Liszt «vide in Roma – si legge in un vecchio programma di sala – un forum mondiale dove realizzare le sue ambizioni riformatrici nei generi e nelle istituzioni della musica liturgica cattolica. Suo desiderio era poter diventare un “nuovo Palestrina, salvatore della musica”». Quale migliore occasione allora, in queste celebrazioni del bicentenario lisztiano che ci hanno accompagnato nell’anno ormai alla fine, per una riflessione solenne, magari proprio in questo eremo, sul ruolo della musica nei riti cattolici di oggi? Invece, la scorsa domenica, forse per un improvvido dono di Natale, la messa nella chiesa ‘di Liszt’ era accompagnata dalle chitarre e dalle solite, bruttissime, canzonette.

Non è la chitarra in sé che irrita i disgraziati fedeli (anche se non è un caso che il regale organo, con i suoi soffi evocanti lo Spirito santo, sia il principe degli strumenti musicali liturgici), la leggenda che accompagna la notissima Stille Nacht sta a dimostrarlo: alla vigilia di Natale del primo Ottocento l’organo di una chiesetta alpina si era rotto e il compositore austriaco Franz Xaver Gruber, in mancanza di meglio, eseguì il suo canto romantico alla chitarra, ma suonandola appunto in modo ‘classico’, pizzicando, arpeggiando, non battendo tempi corrivi con ‘pennate’ – cioè a colpi di plettro – accompagnamento più adatto ai coretti della gita scolastica. Quando non si ricorre alla violenza beat, moda peraltro che risale a mezzo secolo fa, si ripiega su melodie del tutto simili alle colonne sonore delle soap: perché mai i fedeli devono trovare nel tempio di Dio i medesimi suoni che ci tormentano nel regno dell’effimero televisivo? Perché il prete deve trasformarsi in animatore? Tutti da rianimare, tutti senz’anima?

giovedì 15 dicembre 2011

La modernità gareggia con Dio

~ UN VIAGGIO DI DOSTOEVSKIJ IN OCCIDENTE ~

Lo scrittore russo contemporaneo di Marx, abituato alle distese asiatiche, ai villaggi contadini, ai salotti dei signori, stralunò gli occhi davanti al mare di folla che travolgeva le città dell’Occidente. Da quel primo viaggio in Europa trasse un librino troppo presto dimenticato, Note invernali su impressioni estive (ristampato qualche anno fa da Feltrinelli). Stupefacente: a Dostoevskij basta un breve soggiorno, una settimana londinese – senza parlare una parola di inglese – per annunciare al mondo quello che l’attende nel prossimo secolo. Scrutando la capitale inglese con uno sguardo allucinato cattura le immagini che rimugina nel lungo inverno russo: ha intravisto quella «forza tremenda» che sembra gareggiare con Dio, sì, è convinto che «lì qualcosa è stato già raggiunto, che lì è la vittoria, che lì è il trionfo».

Voltaire inviava le sue Lettere inglesi per celebrare le mirabilia della Borsa di Londra, missionario della nuova religione universale «che considera infedeli solo quelli che fanno bancarotta»; Heine pubblicava corrispondenze da Parigi in grado di incendiare la Germania sentimentale, Marx a Londra vide cose tremende e ne scrisse in modo ancora più fosco. Altrettanto Dostoevskij. Il russo però non studiò la faccenda sui libri, non passò anni ai tavoli della più fornita biblioteca imperiale per ricostruire in tutti i particolari scabrosi il Nuovo Inferno senza Satana, giunse a Londra con l’aria un po’ brutale di un ex forzato che non si lascia abbindolare dalle apparenze. Era scampato a una fucilazione (per sinistro gioco), viaggiava come un mezzo morto, non aveva più pudori umani. Era ben provvisto di «capacità di negazione per non cedere», per non piegarsi al fatto. Potenza della psicopatologia delle visioni del mondo. Dostoevskij non era stato a scuola di Hegel, non vedeva nell’infernale metropoli il superamento dei rapporti feudali, non godeva per la distanza da quelle comunità idiote e maleodoranti dei suoi villaggi russi, non lodava abbastanza la forza che libera dai vincoli del passato. Però, in questa Apocalisse londinese, Dostoevskij riusciva a essere ‘dialettico’, a dare il giusto peso ai due corni del dilemma moderno; in fondo, ogni bravo romanziere è dialettico. La forza che attira milioni di esseri è così grande che forse ha vinto per sempre, e la storia è finita. Sarà allora la traduzione profana dell’ut omnes unum sint annunciato da Cristo? È il primo sospetto di Dostoevskij. «Bisogna accettare tutto ciò come la più completa verità e tacere per sempre?».

Lo spettacolo è superbo, gli addobbi unici, la luce abolisce la notte, gli ori e gli specchi ammaliano, le donne sono bellissime. Non è l’invettiva di un asceta che danna ogni cosa senza saperla apprezzare. Le tentazioni sono un motivo dialettico: l’Occidente è forte, impressionante per numero, invincibile, comodo, ragionevole e bello, maledettamente bello. E quei milioni di «selvaggi» che percorrono le città, intorpiditi e in branco, non sanno fare di meglio, per muta protesta, che partecipare a quelle sètte protestanti, a quella gnosi degradata che promette alle masse una new age. Gli esclusi dal banchetto continueranno fino ai giorni nostri a riunirsi in gruppuscoli balordi e a tracciare sui muri svastiche, falci e martelli, imprecazioni.

«Questa città [Londra] sconfinata come un mare e colma giorno e notte di movimento; i fischi e gli urli delle macchine; queste ferrovie edificate al di sopra delle case (e tra breve anche sotto di esse); questo audace spirito d’iniziativa, quest’apparente disordine che in sostanza è invece l’espressione dell’ordine borghese nella sua forma più elevata; questo Tamigi avvelenato, quest’aria pregna di carbon fossile, questi stupendi giardinetti, e i parchi, e questi angoli orribili della città, come Whitechapel, con la sua popolazione stracciona, selvaggia e affamata. E la City, coi suoi milioni e col commercio mondiale, il Palazzo di Cristallo, l’esposizione universale… Sì, l’esposizione è qualcosa di sbalorditivo».

L’ultima moda, l’architettura che anticipa i musei-templi, i santuari della merce, il cuore dell’Esposizione internazionale, il Crystal Palace, non ottiene lo sguardo devoto e succube di Dostoevskij, il romanziere non è un giornalista scodinzolante. «Guardate queste centinaia di migliaia, questi milioni di persone che docili sono affluite fin qui da tutte le parti del globo terrestre: persone giunte con un unico pensiero, che si affollano tranquillamente, con ostinazione e in silenzio in questo palazzo colossale, e percepite che lì si è realizzato qualcosa di definitivo, si è realizzato e si è concluso. È una sorta di quadro biblico, un’evocazione di Babilonia, una specie di profezia dell’Apocalisse quella che si va realizzando davanti ai vostri occhi. Voi percepite che occorre molta resistenza spirituale e un’eterna capacità di negazione per non cedere, per non soggiacere all’effetto, per non inchinarsi davanti al fatto e per non deificare Baal, e cioè per non accettare quello che esiste come il proprio ideale…».

In Germania, continuerà a prendere di mira una delle principali disgrazie moderne: la cultura come dovere, l’arte come liturgia domenicale e soprattutto estiva. La sua critica radicale dell’Occidente e dei filo-occidentali, lo porterà perfino al rifiuto del culto turistico della Madonna Sistina, l’opera di Raffaello conservata a Dresda, che stregherà Tolstoj e una lunga schiera di russi in pellegrinaggio verso l’Ovest.

«Van tutti in giro con le loro guide in mano e in ogni città si precipitano avidamente a vedere le cose notevoli, proprio come se lo facessero per un senso del dovere, proprio come se ancora stessero prestando servizio: non si lasciano scappare un solo palazzo a tre finestre, se appena lo menziona la guida, non una sola casa di borgomastro, sorprendentemente simile alla più normale casa moscovita o pietroburghese: restano a bocca aperta davanti alla gran carne di Rubens e credono che si tratti proprio delle tre grazie, perché così è loro imposto dalla guida; si precipitano sulla Madonna Sistina e le stanno davanti in torpida attesa: ecco, pare che pensino, adesso qualche cosa accadrà, qualcheduno striscerà fuori da sotto il pavimento e disperderà d’un sol colpo tutta la loro vacua angoscia e stanchezza».

Torniamo a Londra, la capitale della modernità, la Babilonia in terra, agli antipodi della Russia fuori del tempo amata dagli slavofili. «A Londra si può vedere una massa umana di tali dimensioni e in tali condizioni, come non vi capiterà di vedere da svegli in alcuna altra parte del mondo. Mi avevano detto, per esempio, che ogni sabato, di notte, mezzo milione di operaie di operaie coi loro bambini si riversano come un mare per l’intera città, raggruppandosi per lo più in certi quartieri, e che per tutta la notte fino alle cinque del mattino festeggiano il riposo dal lavoro, cioè si ingozzano e si ubriacano come bestie per tutta la settimana. Quest’intera moltitudine porta là le sue economie settimanali, tutto quello che ha faticosamente messo insieme a forza di duro lavoro e di maledizioni. Nelle botteghe di carne e di generi alimentari arde il gas in ampi fasci di luci, che illuminano a giorno le vie. Parrebbe un vero e proprio ballo, organizzato per questi negri bianchi. Il popolo si affolla nelle taverne all’aperto e nelle strade. E qui si mangia e si beve. Le birrerie sono addobbate come palazzi. Questa moltitudine è ubriaca, ma senz’allegria, è cupa, opprimente, e in un certo suo modo, ostinatamente silenziosa. Solo di tanto in tanto le bestemmie e le risse sanguinose infrangono questo silenzio sospetto, che agisce tristemente su di voi. Tutti si sforzano di ubriacarsi quanto prima possibile, fino a perdere coscienza… le mogli non si staccano dai mariti e si sbronzano assieme a loro: i bambini corrono e strisciano tra i loro genitori».

Un incubo a occhi aperti, un popolo che ricorre all’alcol e alle droghe per sopportare il lavoro moderno, per affrontare i perversi ‘piaceri’ della metropoli, per reggere il ritmo del lavoro industriale. «Laggiù non si vedeva già più un popolo, ma solo un intontimento una perdita della coscienza, sistematica, sottomessa, incoraggiata. E guardando questi paria della società voi sentite che ancora per molto tempo non si avvererà per loro la profezia, che ancora per molto tempo non daranno loro i rami di palma e le vesti bianche, e che per molto tempo ancora essi urleranno davanti al trono dell’Onnipossente: ‘Fino a quando, Signore?’. E anch’essi lo sanno, e per il momento si vendicano della società mediante certe loro sette sotterranee, mormoni, fanatici di vario genere, pellegrini… […] Questi milioni di persone abbandonate ed escluse dal banchetto dell’umanità, accalcandosi e pigiandosi l’uno all’altro nella tenebra sotterranea in cui sono stati gettati dai loro fratelli maggiori, a tentoni picchiano a qualsiasi portone e cercano un’uscita per non soffocare in quelle buie segrete. Lì è l’ultimo disperato tentativo di confondersi nel proprio mucchio, nella propria massa, e di staccarsi da tutto, foss’anche dalla sembianza umana, pur di poter vivere per proprio conto, pur di non restare insieme a noi…».

Non mancano in questo Inferno i gironi della prostituzione. «Chi è stato a Londra sarà probabilmente andato almeno una volta, di notte a Hay Market. È questo un quartiere nel quale, ogni notte, in alcune vie, le donne pubbliche si affollano a migliaia. Le vie sono rischiarate da fasci luminosi di gas, come da noi non se ne può avere un’idea. Caffè sontuosi, adorni di specchi e d’oro, sorgono a ogni passo. Lì ci sono i punti di riunione, lì i rifugi. Si prova addirittura un senso di raccapriccio a entrare in questa folla. Ed è così stranamente assortita. Ve ne sono di vecchie, e vi sono donne di una bellezza tale che dinanzi ad esse ci si ferma stupefatti. […] Questa moltitudine si affolla addirittura con fatica nelle vie, tanto è fitta e densa. La folla non riesce a stare tutta sui marciapiedi e straripa per l’intera strada. Questa moltitudine è avida di preda, e si getta con svergognato cinismo sul primo che passa. E vi si vedono sia fulgidi abiti costosi, sia abiti fatti quasi di stracci, e nette differenze d’età, tutto mischiato assieme. In questa terribile folla si fa strada il vagabondo ubriaco, e vi si trova anche il riccone con tanto di titolo. Si sentono bestemmie, alterchi, profferte e il silenzioso, implorante bisbiglio di una bella ancora intimidita..».


A Parigi, Dostoevskij nota bene le differenze storiche con Londra ma ritrova questo titanico progetto borghese che sembra oramai trionfante in tutto l’Occidente. «Perché [il borghese] ha ficcato chissà dove tutti i poveri e assicura che i poveri non esistono proprio? Perché si accontenta della letteratura banale? Perché ha una voglia terribile di convincersi che le sue riviste sono incorruttibili. […] Perché nel teatro i mariti vengono raffigurati in un aspetto tanto nobile e danaroso, mentre gli amanti sono così laceri, senza né impiego né protezione, sempre commessi o che so io, artisti, cenciume insomma al massimo grado? […] Ma come, suvvia: perché se così non fosse, allora magari si potrebbe pensare che l’ideale non è stato raggiunto, che Parigi non è ancora il perfetto paradiso terrestre, che magari si può desiderare ancora qualcos’altro, e che dunque il borghese medesimo non è perfettamente contento di quell’ordine che egli difende e che impone a tutti».

Allora è certo: Dostoevskij a Parigi non ha messo piede nei teatri d’operetta, non ha avuto neppure notizia delle creazioni di Offenbach, tanto di successo in quei giorni, dove i mariti sono sempre dei poveri sciocchi e gli amanti dei semidei belli e ricchi, altro che artisti, casomai oziosi redditieri. Non sempre tutto si tiene. Viene invece da chiedersi: come mai, nell’Ottocento, tutto questo interesse per i poveri? Ce ne sono forse di più che negli altri secoli, sono più esposti, strappati all’ombra degli ambienti tradizionali e mescolati nella metropoli ai ricchi sontuosi? Probabilmente sì, ma non è una risposta esauriente: anche nelle città medievali folle di straccioni si accompagnavano ai borghesi, ecclesiastici e nobili, ma non ci si torturava così tanto sul problema della povertà. Slavofili e cristiani, socialisti e reazionari forse si dovrebbero rendere conto che la «questione della povertà» è stata imposta in Occidente dai borghesi vittoriosi. E forse l’indignazione di Dostoevskij è dovuta proprio alla sfrontataggine dell’etica protestante che affronta il problema scandalizzando i cristiani ortodossi e i cattolici. Il protestantesimo è «la religione dei ricchi»; quando poi vuole uscire dai confini di classe si converte al socialismo e dimentica del tutto l’aspetto metafisico (non è un caso che nel momento in cui, molto recentemente, il cattolicesimo si ‘protestantizza’ non riesca più ad affrontare la questione sociale se non trasformandosi in diaspora socialista).

«Accumulare una fortuna e possedere la maggiore quantità possibile di cose: questa è divenuta la principale norma di moralità, il catechismo del parigino. Questo accadeva anche prima, ma adesso, adesso ha acquistato, per così dire, un aspetto sacrosanto. Prima si dava valore anche ad altro che non fosse il denaro, di modo che una persona, pur essendo priva di soldi, ma ricca d’altre qualità, poteva contare su una qualche forma di rispetto; mentre adesso in nessunissimo caso sarà così. Adesso bisogna, bisogna accumulare i soldini e provvedere della maggiore quantità possibile di cose, e solo allora si potrà contare almeno su un po’ di rispetto. E non solo sul rispetto degli altri, ma persino sul rispetto di se stessi non è possibile contare, se non è così. Il parigino non darebbe un centesimo per la propria vita se sentisse d’avere le tasche vuote, e questo del tutto consciamente, con scrupolo, con grande convinzione. Vi si permetteranno cose stupefacenti se solo avrete del denaro».

Oggi il fenomeno appare centuplicato. Forse non è tanto la questione dei poveri a essere centrale in Occidente quanto quella del denaro. Se Dio non c’è, il denaro è il suo migliore surrogato. Senza soldi si perde la stima di sé, la cura di sé, la propria anima. Peggio di una malattia fisica, si giace fantasticando intorno alle «cose stupefacenti» che il denaro permette.

«Entrate in un negozio per comprare qualsiasi cosa e l’ultimo dei commesso vi schiaccerà, vi schiaccerà semplicemente con la sua ineffabile nobiltà. […] Siete venuti, per esempio, per spendere una decina di franchi, e intanto vi hanno accolto come foste lord Devonshire. Sull’istante proverete per un qualche oscuro motivo una terribile vergogna , vorrete assicurarli al più presto che voi non siete affatto lord Devonshire, ma solo dei mediocri, modesti viaggiatori, e che siete entrati soltanto per comprare l’equivalente di dieci franchi. Ma un giovanotto con sul viso la più lieta delle espressioni […] inizierà a sciorinare merce per decine di migliaia di franchi. In un solo istante ricoprirà per voi l’intero bancone, ed ecco che voi pensate, lì per lì: quanta roba, poveretto, gli toccherà riordinare […]. E non appena si pensa a tutto ciò, allora, in un attimo, involontariamente, proprio lì dinanzi a quel bancone, si comincia a provare il massimo disprezzo nei propri confronti. Ci si pente di tutto, e si maledice la sorte che adesso vi fa avere in tasca soltanto cento franchi: così li gettate, chiedendo perdono con lo sguardo. Ma con magnanimità i commessi vi avvoltoleranno la merce per il valore dei vostri miserabili cento franchi, vi perdoneranno tutto il trambusto, l’incomodamento che avete provocato nel negozio, e voi vi affretterete a scomparire al più presto. Poi, tornando a casa, vi stupirete sommamente di aver speso cento franchi quando volevate spenderne soltanto dieci».

È circa un secolo e mezzo che siamo trascinati in questa logica (e forse, più, molto di più) ma, a differenza delle tante critiche correnti, Dosteoevskij mette in scena il consumo come umiliazione, la nudità di chi, con pochi soldi, varca la soglia di un negozio. Casomai, adesso che il consumismo ha pervaso ogni angolo del nostro ambiente, chi ha pochi soldi in tasca è sempre nudo, qualsiasi punto della città attraversi, anche se si nasconde in casa, perché ovunque si offre la merce e ogni volta ci si vergogna di non poterla acquistare. Man mano che si va avanti negli anni, uno prende coscienza delle proprie effettive risorse economiche e ritaglia in qualche modo su quelle potenzialità il ritratto di se stesso: c’è chi può permettersi una libertà di abitare qualsiasi posto del mondo, e chi pur essendo costretto in un luogo fisso può concedersi grandi viaggi, qualche follia, piccoli capricci quotidiani, ecc.; ma chi sa di essere al grado zero non riesce a pensarsi diverso da una nullità. Il resto sono astrazioni. D’altra parte, si sa bene che il piacere di ogni acquisto deriva dalla repressione forzata di altri desideri o dal fatto di potersi permettere cose che ad altri sono escluse.

«Per chi deruba in modo ripugnante, vigliacco, c’è la galera: il borghese infatti è pronto a perdonare molto, ma non i furti, anche se voi o i vostri bambini stanno morendo di fame. Ma se ruberete per virtù, oh, allora vi si perdonerà veramente tutto. Perché voi vorrete allora faire fortune e accumulare molte cose, ovvero adempiere a un dovere della natura e dell’umanità. Ecco perché nel codice sono distinti con assoluta chiarezza i punti sul furto per bassi scopi, cioè per un qualche pezzo di pane, e quelli sul furto per alta virtù».

Il povero B.B. non ha detto niente di nuovo con i suoi provocanti accostamenti tra i rapinatori e i fondatori di banche. Ma noi che leggiamo con piacere di questi colpi ben assestati, che condividiamo il sarcasmo sparso sulle nequizie borghesi, noi chiudiamo il libro e istalliamo serrature eccellenti che scoraggiano ogni ladro affamato. Sono in genere i più agiati che si permettono la letteratura sulla fame e gli improperi sui furti borghesi. Leggere che si è ladri ma raffinati e che non si incorre nel carcere produce un segreto godimento, ci si sente superiori. I disperati non leggono mai delle loro imprese sciocche. O se ne lasciano accattivare di tanto in tanto, per crudeltà verso se stessi. Poi tornano a distrarsi con i teorici della borghesia che non parlano mai di questioni lacrimose.

«Liberté, egalité, fraternité. Molto bene. Ma che cos’è la liberté? La libertà. Quale libertà? La libertà, per tutti uguale, di fare quello che si vuole nei limiti della legge. Quando è possibile fare tutto quello che si vuole? Quando si possiede un milione. La libertà dà un milione a testa? No. Che cos’è un uomo senza un milione? Un uomo senza un milione è colui che non fa tutto quello che vuole, bensì è colui del quale si fa tutto quello che si vuole. […] La fratellanza: bene, quest’articolo è il più curioso […] nella fratellanza vera non è la singola personalità, non è l’Io che deve arrabattarsi per affermare il proprio diritto all’avere ugual peso e ugual valore […]. Che deve mai fare il socialista, se nell’uomo occidentale non esiste il principio fraterno, ma, al contrario si ha in lui soltanto il principio individuale, personale, che incessantemente si isola da tutto il resto, esigendo, con la spada in pugno i suoi diritti? Il socialista vedendo che non c’è fratellanza, comincerà a predicarla. La mancanza di fraternità lo spingerà inoltre a cercare di crearla […] ma manca una natura umana capace di fratellanza […]. In preda alla disperazione il socialista inizierà allora a costruire a definire la fratellanza futura, ne calcolerà peso e misure, vi alletterà con l’idea di un tornaconto, commenterà, insegnerà, racconterà quanto profitto deriverà ad ognuno da questa fratellanza, quanto ci si guadagnerà, definirà il ruolo e le aspirazioni d’ogni singola personalità in essa, farà in anticipo il computo di tutti i beni della terra intera […]. Ma che razza di fratellanza può essere quella che in anticipo si spartisce le cose?».

A Weimar i grandi scontri SPD/KPD avvenivano soprattutto attorno a simili questioni: come spartirsi il mondo dei beni con la storia della fratellanza. Tattiche socialdemocratiche, avanguardie spartachiste, Politik als Beruf, fratellanza catacombale dei proletari forgiati nella fatica del lavoro. E poi c’era il calore della comunità dei camerati, il virile abbraccio degli ex-combattenti, forgiati nel sangue e nel dolore. In mancanza di vera fratellanza che – secondo Dostoevskij – si trova solo tra i seguaci del Vangelo, ci si allettava vicendevolmente con «l’idea di un tornaconto». L’egoismo virtuoso dei marxisti che, fino a pochi anni fa, si esaltavano per la «rude razza pagana», fingendo di dimenticare la sottomissione di tali pagani alle peggiori satrapie orientali.

Se fosse ripassato qualche anno più tardi a Parigi, Dostoevskij avrebbe potuto incontrare un giovane Léon Bloy, altrettanto brutale, altrettanto spaventato dal moderno. Che bel sodalizio sarebbe venuto fuori tra il visionario ortodosso e l’apologeta del cattolicesimo.