giovedì 30 luglio 2009

L'eremita del Baltico volta le spalle all'uomo

LA RELIGIONE, BIASIMATA NELLE CHIESE E NEI MONASTERI, RISPUNTA NEI MUSEI. ~ MA È UNA RELIGIONE PROTESTANTE, AVVERSARIA DELLA SENSUALITÀ DEI «MIGLIORI ITALIANI», CHE SI AFFERMA PROPRIO QUANDO I PASTORI DEL GREGGE LUTERANO PERDONO PESO INTELLETTUALE E MORALE, CONTESTATI DALL’ILLUMINISMO. ~ IL CASO DI CASPAR DAVID FRIEDRICH CHIUDE LE QUATTRO PUNTATE SULLA STORIA DELLA «RELIGIONE DELL’ARTE» ~

Forse l’insofferenza romantica per l’arte come si era sempre fatta nasceva dal materialismo settecentesco, scaduto spesso in stucchevole prosa. Ed ecco che riecheggiando le ansie di Runge, morto prematuramente, il massimo rappresentante del romanticismo in pittura, Caspar David Friedrich, solitario che sarà preso a modello dai suoi tanti epigoni, osservare: «può la pittura, o qualsiasi altra forma artistica, venir esaurita, o non morirebbe come arte se ad essa non potesse venir posto un fine più alto?»[1]. Noi, con l’esperienza degli ultimi due secoli, potremmo rovesciare la domanda: porre un fine troppo alto non ha forse provocato la morte dell’arte?

Ancora una volta, è un comando religioso a intimare ai suoi contemporanei di essere moderni: «nessuno ha il potere di frenare la nostra grande epoca fatale, l’epoca dell’inquietudine e delle trasformazioni che si manifestano in tutti i campi, dalle arti alle scienze, giacché Dio stesso l’ha originata e la porterà dunque a compimento. Combattere il proprio tempo significherebbe dunque rivoltarsi contro l’Onnipotente, la qual cosa è lontana da me»[2]. Léon Bloy polemizzerà con il conte de Maistre con argomenti non dissimili: «non aveva capito che nel 1789 Dio aveva cambiato la faccia del mondo». Dio che aveva garantito i tempi lenti del feudalesimo con il suo carattere di eternità, adesso veniva invocato dai credenti nella storia, in una pericolosa identificazione con essa. Dove era però scritta la fatalità dell’epoca? Non appariva una tentazione satanica verso il peccato di superbia per cui l’inquietudine di sempre diventava segno di una catastrofe cosmica?

La storia detta dei precetti estetici che se fossero impartiti dalle accademie di belle arti susciterebbero scandalo, la storia si fa megafono della volontà divina, la storia impone i temi all’arte anche nei quadri che storici non sono. Quando Friedrich dipinge una chiesa in rovina, si giustifica: «è svanito il tempo della magnificenza dell’edificio sacro e dei suoi ministri, e dall’insieme in rovina è come sorta un’altra epoca e un’altra necessità di chiarezza e di verità»[3]. Che cosa diverrà mai l’arte se rifiuta la «magnificenza» a vantaggio di rovine e frammenti? Se la consolazione che ha fino ad allora rappresentato diventa forma luttuosa (non conforto del lutto), costruzione sinistra, memento mori senza resurrezione della carne e soprattutto senza carne e sangue, senza forma sensuale, puro concetto macabro?

Friedrich, l’eremita romantico, non teme di confrontarsi anche con l’aspetto sociologico della faccenda. Il numero degli studenti di arte cresce sempre più, che ne sarà di loro quando entreranno nella professione? Il fattore quantitativo diventa d’altronde un elemento essenziale della crisi dell’arte tradizionale. Fuori del numerus clausus delle botteghe d’arte, divenuta una libera professione, dove non si viene selezionati in base al talento ma accolti per libera volontà di ‘essere artisti’, è naturale che questo esercito di pittori, scultori, architetti combatta la sua prima battaglia nella concorrenza, e si formino perciò battaglioni di avanguardia che con teorie e pratiche stravaganti si vogliono distinguere dal resto delle truppe. «Alla base di tutto ciò non c’è forse un’ambizione sbagliata?» si chiede Friedrich. Nei tanti nuovi mestieri che stanno rubando le braccia all’agricoltura – come si diceva un tempo, quando appunto l’agricoltura imperava – avanza ora anche quello dell’artista. Nel giro di due secoli, i mestieri ‘creativi’ incideranno notevolmente nelle percentuali delle popolazioni occidentali, con un indotto che gareggia con la vecchia industria pesante, in un intreccio con moda, media, turismo, ecc. Ma questo è il nostro tempo. Nel primo Ottocento, ci si domandava ancora: «Bisogna ricorrere alla massa, a un esercito di pittori, per promuovere l’arte?». Nella interminabile guerra all’arte tradizionale, nelle battaglie per il nuovo assoluto che si ingaggiano dal romanticismo in poi, c’è pronto un esercito di artisti: «io chiedo, e lo faccio con particolare insistenza, si crede davvero che si possa inculcare in un uomo la ragionevolezza attraverso l’insegnamento delle regole e la meccanicità degli esercizi, quando la natura gli ha rifiutato predisposizione e inclinazione?»[4]. Domande ingenue, cui Friedrich aggiunge con maggiore innocenza: non sarebbe meglio che questa gente senza talento si preparasse a divenire abili uomini d’affari? I due mestieri diverranno uno solo nell’arte di domani.

Se l’eremita parla di questioni sociali è perché vi intravede profeticamente i segni del tempo, e Dio nell’epoca romantica si manifesta nella storia. Friedrich sembra meno radicale di Runge, quantomeno senza megaprogetti sull’essenza dell’arte, limitandosi a dipingere un quadro che è ancora un quadro e che al massimo fuoriesce sulla cornice per esuberanza magmatica. Però si tormenta anche lui sul fatto che non si possa tornare indietro, neppure se si fosse Raffaello redivivo, perché si è figli del proprio tempo e questo tempo moderno impone di separarsi dal passato, di frantumare la continuità delle generazioni e di credere solo al futuro, futuro che in un attimo è già nei rifiuti del passato, secondo la grande intuizione di von Baader. «Ogni epoca imprime a tutto la sua impronta», il marchio di una finora sconosciuta schiavitù viene imposto dal romanticismo all’umanità occidentale. Di questa lotta mortale con il passato, Friedrich parla con parole chiare: «Si combatte una guerra eterna contro il tempo, giacché laddove nel mondo qualcosa di nuovo cerca di assumere forma, per quanto sia vero e bello viene contrastato dal vecchio, dall’esistente e solo con la lotta e la contesa può farsi spazio e affermarsi, finché non subirà l’assalto di qualcosa di più nuovo, a cui dovrà cedere»[5].

Il mulino del tempo tutto macina, l’arte che sembrava echeggiare l’eternità del divino si fa ora effimera schiava del tempo, ma non del presente, che solo in quanto immagine quotidiana dell’eternità potrebbe avere una sua chance, schiacciato invece nella battaglia tra vecchio e nuovo carica di ansia perfino l’istante. Lo scontro degli adolescenti con i loro padri diventa allegoria di una umanità che romanticamente si maschera da adolescente, falsi giovinetti, trucco sfacciato e parodistico, per cui si dimentica o si dileggia la sapienza di secoli, e si ricomincia ogni giorno da capo, contro i padri, senza più diventare padri, senza generare, perché le opere sono votate a quell’«assalto di qualcosa di più nuovo», come dice Friedrich, che sicuramente le annienterà.

Friedrich è dubbioso nella teoria quanto è sicuramente innovativo nell’opera. Diffidente verso chi si autoproclama sacerdote del nuovo, vorrebbe conciliare ancora la semplicità del mestiere con l’attuale peso sociale che ha acquistato l’arte. Se si chiede come possa parlarsi di ‘progresso dell’arte’, risponde negativamente, ma poi si confonde con questa pazza corsa del tempo per cui il meglio sta sempre dopo. Ricorre allora a un obiettivo non troppo radicale, di genere: la pittura dei nostri tempi sarà quella di paesaggio. Così decretavano anche altri, così suonava bene in tedesco dove si era rimasti folgorati dalle interpretazioni goethiane della natura. Puntare sul paesaggio voleva dire mettere da parte la figura umana, o rimpicciolirla a tal punto, come farà proprio Friedrich, da tornare alle gerarchie medievali nelle proporzioni, girando definitivamente le spalle alla prospettiva rinascimentale e al suo umanesimo sotteso. Ma era anche un segno dello strano panteismo che aveva travolto l’antica arte dei giardini e prodotto la teologia neopagana che più corrode il cristianesimo rivelato e che si affermerà nel comune sentire. Senza Goethe, però, e neppure Campanella e Bruno, che ebbero pochi seguaci tra i pittori, e non fosse altro che per motivi cronologici, l’arte del Quattrocento fiorentino, o quella ‘lombarda’ di Leonardo e dei suoi seguaci, per non dire di Dürer, avevano già mostrato i segreti di una natura sottratta al materialismo e filtrata in un cristianesimo ‘eretico’ che pur sapeva distinguersi dal paganesimo. Nell’entusiasmo per la riscoperta ci si dimentica dei celebri precedenti e sembra di assistere all’avvento di un’arte più spirituale di quella che ritraeva gli umani o le scene storiche, perfino più sacra di quella che metteva in scena Gesù e i suoi santi. I paesaggi si caricano di grandi valori, l’«infinito orizzonte» che contengono rimanda direttamente a Dio.

Friedrich può meravigliarsi allora di coloro che «dipingono sempre il terso cielo italiano, libero da foschia, nella cui luce persino gli oggetti più distanti sembrano più vicini», accorciando magari la distanza incerta che è segno del Dio romantico. Già, per secoli si dipinsero italici cieli tersi, o turgidi di nubi leggere e dorate che si facevano nere e minacciose soltanto negli sfondi delle crocifissioni o nelle anticipazioni delle immagini apocalittiche. D’ora in poi, cieli scuri e nordici, e piogge e asfalti bagnati nelle innumerevoli scene impressioniste, rompendo anche in questa aspetto tematico con vecchie abitudini: i paesaggi che dovremo avere sempre davanti agli occhi servono ad allietare la vita nella nostra valle di lacrime, conviene che siano immagini solari, squarci di felici esistenze, possibilità di rivivere dei dettagli di paradisi in terra – e l’Italia era edenica per eccellenza – , non permettendosi l’arte figurativa quel gusto macabro che pure è consentito alla letteratura e in modo particolare alla poesia che può civettare con il tetro, perché poi si chiude il libro mentre l’opera della pittura se ne sta perennemente davanti a noi, e solo i barocchi osarono ripetere il memento mori anche in quadri non devozionali, facendoci sospettare che in quell’epoca il gusto del corpo si estendeva ad assaporarne con piacere anche il momento della decomposizione, frutto di una fede, dalla forma oramai perduta, nella resurrezione della carne.

Parlando dell’altro polo della pittura romantica tedesca, di quello dei Nazareni fiorito a Roma, Friedrich, già con il tono polemico incandescente delle future avanguardie, attacca duramente la fazione opposta. «Non è disgustoso e nauseante vedere esangui Madonne tenere in braccio Gesù Bambini affamati, le cui vesti sembrano fatte di carta? Va inoltre detto che l’insieme è spesso deliberatamente mal disegnato, con volute infrazioni alle regole della prospettiva lineare ed aerea. Tutti gli errori dell’epoca precedente vengono scimmiottati, ma il valore di quelle opere, il sentimento profondo, devoto e infantile che le anima, non può certo venir imitato meccanicamente, e questo non riuscirà mai a degli ipocriti, per quanto abbiano perfezionato la simulazione sino al punto di farsi cattolici»[6]. Friedrich svela gli artifizi della prima avanguardia storica (o preistorica, in quanto molto distante dal Novecento). Benché questa si voglia semplice e spontanea, nient’altro che un ritorno al passato religioso, alla tradizione, cela un insopprimibile artificio, in quanto il retrocedere è una simulazione, una messa in scena, un primitivismo esibito in chiave estetica, una religiosità che ricorre alla filosofia dell’arte. La simulazione si è perfezionata al punto da convertirsi alla ‘religione bella’, ma la differenza tra cattolicesimo e protestantesimo sta proprio nel resistere, da parte del primo, alle sollecitazioni romantiche. Dal punto di vista luterano, la critica di Friedrich investe l’infantilismo di ritorno: i nostri avi erano veramente candidi come bambini e potevano accettare i misteri liturgici e il culto delle immagini, ma adesso come si fa a mantenere un tale abito forzatamente infantile? «Se persone adulte facessero i loro bisogni nella stanza come i bambini, questo non verrebbe certo giudicato favorevolmente né tanto meno accettato»[7]. Il paragone è pesante, diventare cattolici per artifizi estetici sarebbe come defecare in pubblico, atto di demenza cui si piegano i pazzi dichiarati, come Nietzsche dopo la crisi di Torino. Ma Friedrich sembra non prevedere quell’infantilismo dichiarato e militante che già Runge ideava e che tutte le avanguardie o quasi tenteranno di conquistare. Infanzia sta letteralmente per coloro che non parlano ancora, che sono ai balbettamenti, alla comunicazione pre-logica. L’arte nuova partirà da questo stadio, e ove non fosse in grado di raggiungere un verosimile livello infantile, se insomma la scrittura automatica o altre trovate non garantissero l’assoluta in-fanzia e tradissero folgorazioni razionali, le droghe permetterebbero l’impossibilità di ragionare, il primitivismo coatto. Farsi piccoli come infanti attraverso le soluzioni chimiche per una iniziazione moderna che consenta di conquistare il Regno dei Cieli.

L’eccessivo ricorso al colore, secondo Friedrich, rispecchia il suo tempo: «Ognuno vuole imporsi con violenza, ognuno vuole superare l’altro»[8], magari anche nella nobile gara di chi è più spirituale, di chi non si lascia irretire dalla meccanica verosimiglianza. Ma il risultato è che il colore grida, che l’opera conosce soltanto il tono dionisiaco, vergognandosi delle delicatezza apollinee, che si gareggia nei radicalismi, che la violenza si trasfigura in arte o meglio l’arte si riduce a gesto violento, sulla tela e più tardi sulla scena della performance. Il dubbioso artista pomerano sa ricordare, non si è piegato a tal punto davanti agli imperativi dei contemporanei da dimenticare le opere di un tempo, il loro fulgore. Eppure è così folgorato dalla nuova voga spiritualista, dai comandamenti etici interiori, da risolversi alla fine nel preferire l’idea dell’opera al suo aspetto materiale. Egli lamenta infatti che spesso viene criticato chi «sa stimolare lo spirito e suscitare nell’osservatore riflessioni e sentimenti», mentre «troppo spesso giudicano il valore di un quadro solo in base al grado di perizia e di abilità nell’uso del pennello, nel trattamento e nell’applicazione del colore». Ebbene, bisognerebbe tener presenti i due corni della ricerca artistica ma, ammette, «se dovessi scegliere, preferirei annoverarmi tra i primi»[9].

In un’altra pagina tornerà sull’argomento: c’è chi crede che «il pittore deve limitarsi a dipingere, non deve volere![…] Io dichiaro apertamente e liberamente che mai e poi mai potrò concordare con una simile concezione»[10]. Del resto una simile concezione riporterebbe alla situazione del pittore artigiano, mentre in cuor suo l’artista si convince oramai di essere ispirato direttamente da Dio e di parlare in suo nome all’umanità. «Devo ripetere quello che ho già detto più volte, ossia che l’arte non è, e non dev’essere, unicamente abilità tecnica […]. È invece necessario che sia il linguaggio della nostra sensibilità, del nostro modo di essere, la nostra devozione e la nostra preghiera»[11]. Se il filosofo dice un po’ cinicamente che la nostra preghiera mattutina è diventata la lettura dei quotidiani, l’artista ancora una volta sembra salvare il delicato aspetto del sacro, la nuova preghiera perciò sarà la recezione dell’arte, la contemplazione di un quadro romantico. Quando qualcuno sostiene che «sia un bel viso […] che un bel deretano sono soggetti degni per l’artista, essendo entrambi parte della natura, e il Creatore si rivela all’uomo attraverso la bellezza…», Friedrich tiene subito a dire che «questa opinione sull’arte» che corrisponde «a quella dei migliori greci e dei migliori italiani, confesso che non mi aggrada. Da un’opera d’arte io esigo elevazione dello spirito e impeto religioso..»[12]. La religione che viene dannata nelle chiese e nei monasteri deve rispuntare nei musei. Una religione protestante, certo, avversaria della sensualità dei «migliori italiani», che si afferma mentre i pastori del gregge luterano perdono peso intellettuale e morale, contestati dall’illuminismo. Una libera interpretazione della natura che prende il posto di quella del testo sacro, una ricostruzione soggettiva della spiritualità affidata ai pittori. E fuori dalle chiese Friedrich dipinge il suo Crocefisso, icona di un nuovo culto.

Epilogo. - La commistione religione-arte raggiunse il massimo, come è noto, nella filosofia di Schelling. In un discorso pronunciato a Monaco di Baviera sul rapporto tra Le arti figurative e la natura, il teorico idealista mostrava come ormai la vecchia tecnica dei pittori servisse addirittura a concedere agli umani l’unica esperienza di immortalità, quella in qualità di spettatori, davanti a un quadro che sottrae, appunto per miracolo estetico, l’attimo alla morte. Se ogni prodotto della natura «possiede per un solo istante la vera bellezza perfetta, possiamo allora dire anche che possiede per un solo istante la pienezza dell’esistenza. Esso è in questo istante ciò che è in tutta l’eternità: al di fuori di quell’istante lo attende solo il divenire ed il perire. L’arte, rappresentando l’essenza in quell’istante, la sottrae al tempo; la fa apparire nel suo puro essere, nell’eternità della sua vita»[13]. In mancanza di altra, più certa, immortalità.

Quando la carne sembra destinata alla dissoluzione, si afferma questa fugace visione dell’immortalità, per cui l’arte blocca, come Giosuè, il tempo nei limiti di un quadro. Ne deriva però un’arte molto malinconica che trapela perfino nel tema neutro dei paesaggi. Del resto, Et in Arcadia ego: così parlava la Morte in un paesaggio ‘classico’ di Guercino. Rendere viva una natura morta è ben magra soddisfazione se il quadro diviene l’unica speranza di sopravvivenza ed è perciò caricato di significato smisurato. Unico accesso all’Infinito. Un uso strumentale della pittura, un soterismo per via estetica, dove il pittore naturalmente deve badare a cogliere l’attimo e trasformarlo in eternità, sacerdote o mago. Eppure, «certo, non ritornerà mai più un’arte che, sotto tutti gli aspetti, sia la stessa di quella dei secoli precedenti, giacché la natura non si ripete mai. Non ci sarà mai più un Raffaello» e per raggiungere «la vetta dell’arte in un modo altrettanto originale» ci sarà bisogno di «una nuova fede»[14]. Della poesia non si sarebbe detto alla stessa maniera: Goethe era lì a smentire quanti avevano affermato che l’età dell’oro di Omero e di Shakespeare era per sempre terminata. E la musica, con Beethoven, si presentava autentica arte dell’avvenire, senza però rompere con la tradizione di Haydn e di Mozart, sempre più assoggettando casomai le arti figurative fino al punto di farle astratte come lei, sottoposte alla sua preminenza gerarchica.

È allora l’arte sensuale, la raffigurazione dei corpi che pare avviarsi al tramonto, dal momento che la credenza nella «resurrezione della carne» contrasta con la fede moderna nello spiritualismo. Ormai l’ateismo si combatte sempre a colpi di spiritualismo, perciò il primo risulta sempre vincitore. Arte e Grazia, arte in ogni aspetto sacra, dunque. A un drappello di pittori tedeschi Schelling affidava il compito di far sorgere l’arte nuova e la nuova fede, e sembrava annunciare profeticamente la congrega dei Nazareni: «Chi può negare che negli ultimi tempi sia apparsa di nuovo nell’arte tedesca una sensibilità molto più libera e originale che, se tutto andasse per il meglio, alimenterebbe grandi speranze e creerebbe l’attesa di una spiritualità in grado di aprire nell’arte la stessa via, più alta e più libera, che la poesia e le scienze avevano percorso, e sulla quale soltanto potrebbe germogliare un’arte che potremmo definire veramente nostra, cioè un’arte dello spirito e delle forze del nostro popolo e della nostra epoca?»[15]. A udire simili annunci, sulle rive del Mediterraneo, si saranno provati già allora dei brividi di paura.

(4. fine)
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[1] C. D. Friedrich, Äußerung bei Betrachtung einer Sammlung von Gemälden von größtenteils noch lebenden und unlängst verstorbenen Künstlern, trad. it. Scritti sull’arte, Milano, 1989, p. 38.
[2] Ivi, p. 39.
[3] Ivi, p. 42.
[4] Ivi, pp. 43-44.
[5] Ivi, pp. 47-48.
[6] Ivi, p. 58.
[7] Ivi.
[8] Ivi, pp. 58-59.
[9] Ivi, pp. 59-60.
[10] Ivi, p. 67.
[11] Ivi, p. 79.
[12] Ivi, p. 81.
[13] Fr. W. Schelling, Ueber das Verhältnis der bildenden Künste zur der Natur, trad. ital. Le arti figurative e la natura, Palermo, 1989, p. 52.
[14] Ivi, p 71.
[15] [15] Schelling, Geschichte der zeichnenden Künste in Le arti cit., p. 87.

sabato 18 luglio 2009

Il pittore che inventò l'Opera d'arte totale

~ PHILIPP OTTO RUNGE, «TEOLOGO DEL COLORE», FA DERIVARE DAL SUPPOSTO TRAMONTO DEL CATTOLICESIMO LA DECADENZA DELLA PITTURA TRADIZIONALE. ~ SI PRESENTA ALLORA COME NUNZIO DELLO SPIRITO ASTRATTO DELLA RIFORMA LUTERANA E PREDICA UN’ARTE ASTRATTA. ~ TERZA PUNTATA DELLA RELIGIONE DELL’ARTE ~

Si parla di Philipp Otto Runge come di un «teologo del colore» e l’appellativo la dice lunga sui mutamenti del ruolo dell’artista. Del resto, il delicato pittore cerca nel colore, come nella composizione, nella forma del quadro, perfino nel rapporto tra i quadri, un senso nuovo, e nel medesimo tempo si interroga sul senso dell’arte. Prometeica battaglia che arriva a concepire una liturgica Gesamtkunstwerk, con grande anticipo su Wagner.
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Fin dall’inizio, la cultura romantica tedesca tendeva alla sinestesia, alla prosa musicale o alla pittura poetica. Runge sognava un’opera d’arte totale, con i quadri esposti alle pareti mentre nella stessa sala un’orchestra avrebbe eseguito una ‘colonna sonora’ di questa pittura e Ludwig Tieck declamato poesie ispirate alle opere circostanti.
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Nel salotto del conte Filkenstein, amico dei romantici di Dresda, il giovane Runge ascoltò l’esecuzione dei concerti delle Quattro stagioni di Vivaldi. Il fratello Daniel, anni dopo, ne rievocherà l’entusiasmo. Il veneziano stabiliva delle affinità tra la sua musica e i ritmi dell’anno, il pittore tedesco meditava sulle assonanze tra le tonalità cromatiche e le tonalità musicali, in anticipo sulle alchimie di Marc e di Klee. Runge pensava a delle sinfonie visive, sinfonie filosofiche. Un sistema di corrispondenze segrete tra le stagioni dell’anno, le ore del giorno, le età dell’uomo. Elabora un ciclo di Jahrzeiten e di Weltzeiten. Prova a rappresentare il tempo nei quadri e perciò le tele delimitate da cornici non gli bastano. I paesaggi romantici del cuore adesso fuoriescono dalle singole opere. Teorizza a lungo per mettere in scena la titanica cattura dell’universo, del tempo, della vita. Goethe, in una lettera al pittore, dice in modo compito di non essere riuscito a capire granché delle Tageszeiten. Runge insiste nel suo sforzo supremo di andare oltre la pittura, in un non so dove, che sfugga alla raffigurazione tradizionale. Vuole sperimentare, creare nuove opere e nuove sale per contemplarle e vuole contemplazioni di tipo diverso: l’arte è ormai un altro rito. L’atteggiamento classicista, predicato da queste parti, di rispetto per il passato, di nani sulle spalle dei giganti, viene cancellato da nuove metafore: infanti che ripartono da zero. Il mito di Novalis viene ora riecheggiato dai pittori.
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A folgorarlo era stato il romanzo di Tieck, Franz Sternbalds Wanderungen (Le peregrinazioni di Franz Sternbald), una storia del tardo medioevo che ha per protagonista un pittore e che si snoda tra descrizioni di quadri religiosi e conversazioni su quadri religiosi, mescolando effetti musicali ed effetti pittorici. Neomedievale e moderno, Runge scrive allora a Tieck: «Non siamo più dei Greci…». Si accinge quindi alla sua opus magnum. Figlio di un armatore, era nato a Wolgast, in Pomerania, nel 1777. Fin da piccolo, era stato un virtuoso delle silhouettes, creando cioè forme dall’ombra. L’inquietante sagoma oscura che accompagna i corpi luminosi. Con la sua bravura aveva stregato Goethe che gli richiedeva continuamente queste figurine nere. Un predicatore lo aveva indirizzato verso il pietismo. Dopo aver anche tentato la strada del commercio, fu dispensato in famiglia dagli affari mondani e finalmente potette dedicarsi all’arte anima e corpo.
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Nel 1801 se ne va Dresda, attratto dalla fama di capitale dell’arte e su esortazione di Caspar David Friedrich, ma con il più anziano maestro non stringerà mai vera amicizia. Quattro anni durerà il suo soggiorno nella capitale della Sassonia, eppure in una vita breve quell’incompleto lustro può corrispondere a un secolo. I fatti decisivi avvennero qui. A Dresda incontrò la ragazza che poi avrebbe sposato, si mise a studiare l’italiano, conobbe i fratelli Schlegel, Fichte, Jacobi e Tieck che fu il suo patrono. Morì a trentatré anni. Il fratello Daniel ne raccolse le opere, gli scritti e le testimonianze orali, dedicandosi alla memoria dell’artista, proprio come fece Theo van Gogh, alla fine dell’Ottocento, con il fratello Vincent.
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Fu un filosofo prima che un artista, ma di lì a poco, nella cultura tedesca, le due figure si abbracceranno in Nietzsche. I suoi quadri comunque erano pensieri. Più che un paesaggista, «un allegorista», con tutto ciò che di medievale e di barocco trascina con sé l’allegoria.
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Era trascorsa appena una stagione dalla comparsa a Dresda di un artista come Mengs, pittore filosofico che, in quanto tale, infastidiva, fuori dai confini tedeschi, anche coloro che lo ammiravano per il suo virtuosismo. Perché il Raphael Germanicus non riduceva tutto a forma e colore. Adesso, quel grumo filosofico presente in Mengs diventa radicale sostituzione della forma con spigolosità filosofiche e della scienza della natura. Un processo di astrazione dell’arte, di spiritualizzazione, di ‘germanizzazione’, si potrebbe dire, dell’arte moderna, che va in scena a Dresda. Tieck ha spinto Runge per questa strada. Il pittore chiama i suoi paesaggi «pensieri geroglifici» (ma anche «arabeschi», e purtroppo spesso sono soltanto arabeschi). Un’arte concettuale che anticipa le avanguardie (e si spiega così la devozione che molti capifila di questa nutriranno per Runge). Come gli avanguardisti, Runge si misura con la storia dell’arte per vibrare delle cesure violente, per interrompere il corso. E predicando l’ «arte nuova», parla di corsi e ricorsi ma sottolinea il drastico tramonto dell’Occidente, la decadenza la sente intimamente e la vede sconfinare in una tabula rasa.
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Al momento di mettersi al lavoro per le sue Tageszeiten si accorge di non possedere tecnica a sufficienza. Torna allora a frequentare con umiltà l’Accademia. E mette a punto il progetto: le tele di ciascun ‘tempo’ dovranno essere di circa cinquanta metri e i colori saranno ispirati dai libri dei mistici dedicati al significato simbolico dei colori. Runge stesso scriverà molte pagine di una teoria dei colori che sottoporrà a un Goethe sempre più perplesso. Tutto il ciclo sarà ospitato in un luogo appositamente costruito, che Runge non riesce a immaginare e a progettare molto diversamente da una cattedrale gotica. In questo nuovo tempio dell’arte, il visitatore vedrà un quadro dopo l’altro accompagnato da una sinfonia in sottofondo scritta per contrappuntare i dipinti dal musicista Ludwig Berger, amico del pittore, e dalle poesie e prose di Tieck, lette dall’autore. Ma il povero Runge, dubbioso e malinconico, non riuscì a realizzare la sua utopia.
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Nelle lettere di Runge a familiari e ad amici appare l’appassionata volontà di creare quella che definisce ripetutamente un’«arte nuova», si badi bene non un nuovo stile, una nuova tecnica, bensì una definitiva rottura con la tradizione artistica occidentale, un appello affinché le arti della parola e quelle visive e sonore si intreccino per dare vita a un universo estetico mai visto, dove l’umanità scorgerà l’alba della redenzione. Allora, il colore sarà l’equivalente della nota nelle trombe apocalittiche.
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Fin dalla prima lettera in cui annuncia al padre, che lo voleva commerciante, la sua vocazione artistica, cita il capostipite dei pittori ‘religiosi’: «Ho letto una lettera di Albrecht Dürer, che a ogni giovane pittore consiglia la Bibbia quale fonte inesauribile dell’arte, e in ciò egli ha ragione»[1]. Prima di ogni altra cosa, Runge medita su una lingua per esprimere l'intimo, lingua segreta dove è stato sepolto lo spirito nel corso dei secoli. E naturalmente, accanto alla lingua esoterica, vuole uno spazio chiuso, una confraternita dove usare simile comunicazione: «sarebbe bello abitare nel cerchio di una famiglia dove si può parlare gli uni con gli altri, e solo un folle vorrebbe rinunciare a essere felice in essa. Credo che gli apostoli, i musicisti devoti, i grandi e bei pittori e poeti veramente volessero fondare una tale famiglia. Agli apostoli è riuscito, agli altri solo in parte»[2] Primo accostamento tra gli apostoli e gli artisti, che in altre epoche sarebbe suonato oltremodo eccentrico. Fondare questa famiglia, una confraternita di artisti, è il compito che comincia a prefiggersi, dove per «arte vera» «non si dovrebbe guardare al come uno ha detto qualcosa, ma se uno ha detto qualcosa»[3], se ha detto la formula magica che schiude il paradiso spirituale.
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È inutile cercare di ripetere l’arte antica, Runge manda in rovina le prescrizioni di Winckelmann, «come ci è mai potuta venire in mente l’infelice idea di richiamare in vita l’arte antica?», e con Winckelmann lo studio accademico che si rifaceva ai modelli della tradizione: «dinanzi a noi vi è qualcosa che sta crollando, noi ci troviamo al margine di tutte le religioni che sono nate dalla religione cattolica, decadono le astrazioni, tutto è diventato più aereo e leggero di quanto non fosse»[4]. Comincia l’interminabile litania che ripete una constatazione storica, sempre nuova e sempre uguale: il mondo sta crollando, grande è il disordine sotto il cielo ma la situazione diventa eccellente. Un’opera d’arte servirà d’ora in poi a segnare un crocevia storico, a dannare il vecchio e a benedire il nuovo, a restaurare una religione dei cuori, a «trattenere gli spiriti che fuggono» a far coincidere «il bello e il buono». Per raggiungere questi santi scopi, «noi dobbiamo ridiventare fanciulli»[5]. Da questa affermazione ai proclami dada c’è molta strada, un secolo di storia dell’arte per esempio, ma appare comune la volontà di infantilismo che sola concederebbe di praticare l’arte. Perché mai solo ai piccoli innocenti è consentito l’accesso nel regno della arti dove, fino per secoli si richiedeva casomai sapienza, abilità e dunque anni di addestramento? La risposta viene da sé quando si ricorda che il Regno della arti è divenuto il Regno dei Cieli, i due Paradisi combaciano.
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«Siamo sul punto di accompagnare a sepoltura un’altra epoca?», scrive all’amato fratello Daniel il 9 marzo 1802. Di fronte a questi crolli di epoche e di civiltà, al succedersi delle mode che con violenza e con scienze raffinate sembrano infliggere colpi decisivi alla stessa religione rivelata, non resta che l’opera d’arte «eterna», «la più bella delle imprese» che prende avvio dalla «nostra intuizione di Dio». Altissima è la presunzione di quest’arte nuova, di fonte divina, di andamento religioso, eppure in Runge come nei teorici e negli artisti novecenteschi c’è la convinzione che «difficilmente possa risorgere qualcosa che sia pari alla bellezza dell’arte storica nel suo punto più alto». Uno scacco in partenza di fronte a quell’arte storica che senza proporsi mete divine (o forse proprio per questo) resta, nei suoi limiti umani e nel suo sfondo metafisico, irraggiungibile. Ma la lettura del pio Runge è diversa: la «decadenza» che ci allontana l’opera di Raffaello, Michelangelo e Guido deriva dal fatto che «lo spirito ha abbandonato» l’arte. La sua morte – che indirettamente Runge evoca dal momento che parla spesso di «resurrezione» – coinciderebbe con l’averla ridotta a «trastullo», a gioco. Eco nervosa di quel «puro gioco delle facoltà» che Kant aveva stabilito nella sua recente Critica? Runge si rende conto che l’arte ludica dei moderni può precipitare in breve la nobile attività in tecnica per ingannare il tempo, per illudere l’ozio.
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La sua stessa pittura non si accontenta più dei pur devoti ritratti dei familiari, non si accontenta dei quadri di cavalletto, ed escogita l’opera d’arte totale, l’incrocio di tutte le arti onde far soffiare in tal punto lo Spirito. Ma sempre pigiando il pedale della volontà dell’artista, quasi spettasse a lui solo di rimettere in ordine il mondo spirituale. Abbozza allora, nello spazio di una lettera familiare, una sintetica storia dell’arte confrontata con la religione: dalla rigidità fastidiosa del simbolismo egiziano al culto cattolico di Maria che «rendeva bella la vita nel Cielo». Dal supposto tramonto della religione di Roma, Runge fa derivare il decadimento dell’arte plastica figurativa. Lo spirito della Riforma era invece «più astratto, ma in nulla meno interiore, e anche da esso deve sorgere ora un’arte più astratta». L’excursus storico si chiude con la convinzione che «non vi è un’opera d’arte la cui esistenza non sia fondata nella nostra propria esistenza»[6]. Che fare allora se tale convinzione si perderà nel pubblico che acquista e guarda l’arte? Runge non osa neppure pensare fino in fondo questa orribile prospettiva ma comunque si incarica di rovesciare le sorti del mondo con le deboli forze dell’arte. Si era abituati, nel leggere gli epistolari degli artisti del passato, a rivalità in fatto di bravura e di successo, a lamentele per mancate committenze, a progetti, a entusiasmi, ad amori più o meno felici, non a proclami per rifondare il mondo.
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Restano dei forti dubbi: «per quale ragione le arti e i suoi trastulli, che non sono quanto di più alto abbiamo […] e che persino possono condurre all’idolatria» dovrebbero diventare il supporto della nuova spiritualità? Ma la risposta non è facile, se ne rende conto lui per primo, se ne renderanno conto i più sensibili artisti degli ultimi due secoli, gli eresiarchi, i fondatori delle scuole avanguardistiche, incalzati dalla medesima domanda. «Per iscritto è difficile non dar luogo a incomprensioni», dice nella stessa lettera al fratello, e poi «qual è la via?». Cita Cristo e le sue tentazioni, si sente al centro della scena evangelica, l’imitatio Christi è diventata una reintepretazione o forse, in certi momenti particolarmente eccitanti, una reincarnazione. «Per il momento penso solo: allontanati da me Satana, perché mi sei soltanto noioso». Annuncia quindi una più lunga missiva, un saggio dove cercherà di mettere a fuoco la «nuova arte», altrimenti tanti pensieri che dovrebbero ricollocare al loro posto il cielo e la terra, rischiano di finire con l’esistenza del pittore. Niente altro che un altisonante sogno cui pone fine il risveglio.
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Di fronte alla miseria del solipsismo romantico non resta che il lascito di una traccia scritta, qualche pagina che compensi la titanica sfida mancata e che magari, come un messaggio nella bottiglia, si offra a qualche altro adolescente che voglia ritentare e tornare a sognare. Ma c’è una versione religiosa di tale piccolo calvario percorso dall’artista teologo, sacerdote, santo, messia. Ce lo espone Runge nella medesima lettera: «Il demonio ci conduce sulla cima del tempio, dove noi dovremmo mostrare tutto il nostro splendore, e infine ci conduce nel vecchio mondo, ormai trascorso, dei cui splendori egli ci vuole fare dono se cadiamo in ginocchio e lo adoriamo». Idolatria sarà dunque inchinarsi allo splendore del passato, ecco perché «non devo studiare in Italia»: per dedicarsi al totalmente nuovo, a costo di mostrare «un’enorme presunzione, un enorme orgoglio»[7], come ammette lui stesso. Raramente è stato detto meglio questo rifiuto ‘religioso’ del passato, il resistere alle tentazioni che l’arte moderna, di origine sempre nordica, esprime nei confronti delle seduzioni della sensualissima pittura e della sensualissima scultura italiana anzitutto e in generale latina. Nessuno nega la bellezza di quelle opere e neppure il godimento che se ne ricava al giorno d’oggi, ma la si respinge come frutto della tentazione satanica nei confronti dell’uomo moderno e quindi morale, prima protestante e poi genericamente ‘laico’, piccolo Prometeo kantiano che tradisce però desideri smisurati.
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Pochi giorni dopo, il 27 novembre del 1802, sempre da Dresda dove si è a lungo ispirato alla ‘icona’ della raffaellesca Madonna di S. Sisto, annuncia finalmente il suo quadro che sarà «la fonte anche di tutti i quadri che farò, la fonte della nuova arte nonché fonte in sé per sé». A quel punto il fratello capirà l’«avversione interiore [di Philipp] a vedere ora Francia e Italia». Illuminati dalla lettera di Runge e dall’esperienza secolare possiamo capire anche noi l’avversione o comunque l’imbarazzo dei teorici e degli artisti dell’avanguardia, fino al silenzio e all’impaccio di Adorno, loro padre spirituale, rispetto al patrimonio antico italiano. Le più recenti eccezioni, le curiosità per i manieristi o l’appassionato studio dei romanici da parte di Klee, sono una citazione, talvolta uno sberleffo, una violazione del bello che si vuole sacrilega o giocosa o semplicemente, nel più diffuso dei casi, il saccheggio di un’aurea forma con la quale fregiarsi e di cui sentirsi eredi.
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In quest’alba dell’arte nuova viene evocato Jakob Böhme, padre di tutti gli apprendisti terurgisti e si annuncia «la grande nascita del mondo», dove gnosi e massoneria restano in sottofondo. La luce, prodotta dai mistici colori sui quali mediterà Runge, sarà l’origine della rigenerazione del mondo. Il colore si dovrebbe fare carne: versetto di questa gnosi artistica che zoppica, perché a differenza della parola, luce e colore hanno già pienezza fisica e sensuale. Il mysterium magnum di Böhme avvolge ora anche l’arte con i suoi manicheismi. Il pantesimo cerca una conciliazione con la Trinità e una trascrizione nei colori, sempre a rischio di essere spenti da Satana. «Su questa linea penso anche a un quadro dove noi si possa dar figura e senso all’aria, alle rocce, all’acqua e al fuoco». Leonardo da Vinci è il primo nome che viene in mente a sentir parlare di raffigurazioni dell’aria e delle rocce, dov’è la novità? Perché non provare umilmente a dipingere questi elementi (come farà un giorno con somma maestria Stifter nelle sue prose) invece di trasfigurarli in una battaglia cosmica e apocalittica tra le forze divine e quelle diaboliche? Perché la scelta del paesaggio, che Runge come Friedrich e Carus con molta teoria pongono al centro dell’‘arte nuova’, non è soltanto un genere pittorico?
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Perché, sembra risponderci Runge, se Dio è irrappresentabile, di quella natura che gli è specchio, possiamo dare però rappresentazione spirituale, rivelare Dio nei quadri attraverso i riflessi divini dei paesaggi. Ben altra, estrosa, soluzione proponeva un credente d’altri tempi come Teodoro Studita quando sosteneva che poiché Cristo è nato da una madre raffigurabile, possiede una immagine rispondente a quella della madre, e se non si potesse rappresentare nell’arte vorrebbe dire che sarebbe nato dal solo Padre e non da Maria[8]. Invece Runge concepisce l’individualismo più sfrenato, al limite della incomunicabilità: «il prodotto più alto dell’arte è l’immagine di Dio in noi», cioè «la visione individuale che ciascuno porta con sé», e trattandosi dell’Assoluto immaginato nell’intimo, senza più rapporto con il mondo empirico, senza alcuna incarnazione nel mondo degli uomini: tutti gli espressionismi sono possibili, scatenati per dare forma al Dio individuale e nascosto. Di fronte a questo compito sublime perché mai l’artista-sacerdote, l’evocatore della divinità, dovrebbe perdere tempo e furore mistico nell’umile attività del copiare? «Non posso retrocedere» si dice convinto Runge, «Dio ha voluto che fossi qui assegnato» e dunque «mai mi adatterò a un vero e proprio copiare»[9].
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Non si è precisato che negli anni in cui scrive queste lettere la sua vocazione pittorica è ancora piuttosto astratta, di quadri ne ha fatti ben pochi. Ma si sente chiamato, non si tratta neppure di talento esperimentato, di mano felice, quanto di segno di predilezione divina affiorato nell’anima. Come sempre poi accadrà nelle avanguardie a venire, prima delle opere ci saranno i proclami. Il timido Runge i suoi proclami li confidava al devoto fratello, proprio come più tardi farà van Gogh.
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Le proibizioni imposte dalla Storia: i pittori moderni si accorgono dello iato profondissimo con il mondo della tradizione e riportano questo senso di distanza con alcuni divieti che pare loro di dedurre dagli ultimi sviluppi della storia dell’arte. Da un certo punto in poi si dirà perciò che non si può più dipingere la figura umana o non si può più dipingere tout court. Runge, agli albori, scrive in una lettera a Ludwig Tieck che «dopo il Giudizio universale di Michelangelo» è impossibile rappresentare «gli uomini come la forza dei tempi [che] si agita in essi». La storia dell’arte apporta la testimonianza di migliaia di artisti che dopo Michelangelo smentiscono l’«impossibilità» teorizzata da Runge, ma lui replicherebbe che si tratta di epigoni pompiers, eterno pompierismo di chi non è illuminato dall’intuizione del nuovo ruolo dell’artista vocato alla nuova arte. Adesso avanza, secondo Runge, il paesaggio come specchio dell’umano e del divino, fiori e alberi che tradiscono un certo sentimento umano; più tardi si dirà: dopo l’arte concettuale di Cézanne non si potranno più dipingere paesaggi ingenui, successivamente si reagirà agli intellettualismi francesi con la lava espressionistica tedesca: dopo i colori che gridano non si può più rappresentare secondo la pacata scienza rinascimentale, e così all’infinito, semmai la storia avesse uno svolgimento infinito. Dall’altra parte c’è chi resiste, talvolta nell’oscurità talvolta nella esplicita ribellione, a questi divieti dell’epoca, che in quanto tali si potrebbero anche chiamare imposizioni della moda. Ma così rubricando simili inibizioni, dimentichiamo che esse sono lette da chi vi soggiace come comandamenti divini: «Come comprendere del resto quest’arte se non muovendo dalle profondità di una mistica religiosa, dal momento che essa deve procedere infine da questa e su questa anche saldamente poggiarsi, altrimenti crolla come la casa sulla sabbia?»[10].
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La debolezza di quest’arte, al limite del vuoto concetto, deriva dall’essersi sostituita all’idea religiosa, nutrendosi soltanto di immagini mistiche. Si tolga invece l’impalcatura savonaroliana alla Natività della National Gallery di Botticelli: resterà gran parte dell’opera. Ma nessuno potrebbe sostenere che la pittura del Quattrocento fiorentino non sia colta, lussureggiante di idee, semplicemente che quella moderna di cui sentiamo l’annuncio poggia soltanto su dei «geroglifici»; senza la spiegazione dei quali risulta un insieme di inutili enigmi, e più tardi sarà fatta solo di concetti, ideine nella testa dell’autore, che potrebbero perfino restarsene in mente sua.
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Il 13 gennaio del 1803, Runge confida al padre che talvolta si sente attaccato: «‘Lei non capisce niente d’arte’: ma se anche fosse non mi resta altro che prendere di qui le mie mosse. Ciò a cui io do il nome di arte è in effetti fatto in modo tale che se lo si dovesse raccontare tale e quale nessuno lo comprenderebbe e io verrei ritenuto pazzo, folle, sciocco». La lettera è ricca di progettualità altisonante, non a caso si misura con il padre, ma vale la pena fermarci un po’ su queste righe. Tutti gli ‘innovatori’ moderni, che per comodità possiamo chiamare avanguardisti, vengono all’inizio sospettati di follia, mentre è certo che quando Giotto scioglie la fissità bizantina o Paolo Uccello introduce la prospettiva, pur rompendo con schemi secolari, riempiono di ammirazione il loro pubblico piuttosto che essere considerati da questo fuori di cervello. E gli stessi manieristi di cui si narrano estreme stravaganze, operano lunaticamente sul piano biografico, l’opera non viene sospettata di essere inutile gesto demente. Il fatto è che l’innovazione moderna riguarda non temi o stili quanto lo stesso lavoro dell’artista e lo statuto dell’opera d’arte. La più sfrenata fantasia barocca fu infatti contenuta in una concezione millenaria del quadro (o dell’affresco o della statua), ovvero nella oggettività della tela dei colori delle velature, di un lavoro che con impercettibili e infinite modificazioni ripeteva un eterno schema: a chi si era addestrato dalla fanciullezza nel rappresentare su un determinato materiale figure umane e paesaggi naturali veniva commissionata la tale scena storica o una vicenda biblica o privata, e l’incaricato eseguiva di volta in volta inventando la composizione, il taglio di quella scena, scegliendo i colori, la luce, la plasticità e nei casi più eccelsi anche il significato spirituale che quell’opera doveva sprigionare; ma ora è l’idea stessa di arte a cambiare di volta in volta, diventando una fantasia soggettiva che si esprime senza più il freno della tradizione.
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Sfrenata, dunque, folle, l’arte non è più quella che è stata da sempre ma l’invenzione che ciascun personaggio, autonvestito di grazia, senza controprova di talento e di perizia tecnica, inventa liberamente. «Ciò a cui io do il nome di arte», dice Runge, e propone una mistica panteista cui non basta più il singolo quadro, che richiede l’opera totale; «ciò a cui do il nome di arte» dirà qualcun altro e proporrà la tela nera, e qualcun altro la tela bucata e basta, e il rifiuto del quadro, e un’idea virtuale di opera, un segreto mentale. Il «libero gioco» di Kant ne ha fatta di strada. L’estetica tedesca, soprattutto di timbro idealistico, l’ha trasformata in arte filosofica e subito dopo, si è confusa così tanto con i pensieri, che si è ridotta a metter in scena la sua morte. In questa voluttuosa necrofilia si presenta ormai da alcuni decenni, ma non si può escludere che qualcuno, più fantasioso, ne decreti la resurrezione momentanea., sarebbe soltanto un cambio di segno, resterebbe infatti la sfrenata soggettività con cui un essere umano si autoproclama artista e propone una qualsiasi sua fantasia sotto il nome di arte. Sacerdozio universale ma senza neppure un testo sacro sul quale poggiare.
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L’ambizioso progetto veniva spiegato da Philipp al padre: «conosco […] parecchi giovani» disposti a eseguire il piano epocale, ad Amburgo degli artigiani «potrebbero crescere sotto la mia guida», e subito scatta una presuntuosa analogia: «una istituzione di questo genere assomiglierebbe a quello che fu la scuola di Raffaello»[11]. Quando non si evoca Gesù Cristo e i suoi apostoli si vola direttamente ai massimi maestri del Rinascimento, o viceversa. Nel frattempo fa degli schizzi, «sono convinto che quando nella mia cartella ne avrò cinquanta potrò considerarmi arrivato». Non è soltanto una posa tardo-adolescenziale per cui basta poco e si gioca all’artista, è soprattutto che si mira a megalomani progetti, la realizzazione dei quali conta poco; la tecnica così viene in ultimo, al primo posto c’è una idea. In una successiva lettera al fratello, scende nei molti dettagli delle sue Tageszeiten. Il Giorno e la Notte si popolano di fiori animati, luce e colori si caricano di significati simbolici. Due settimane più tardi affiorano in un’altra lettera dei dubbi e delle preoccupazioni sull’«esito di queste fantasie»[12] e, passata una decina di giorni, si dilunga ancora sulla sua «incomprensibile paura»[13], l’artista ora – come il soggetto morale di Kant che dev’essere al contempo giudice imputato e boia di se stesso – è committente, ideatore, esecutore, critico e sacerdote della sua arte. Del resto, non basta più «eseguire secondo regola e pratica», ma secondo l’indicazione evangelica di Matteo «cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia».
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Si infittiscono allora le lettere ricolme di simbolica, in cui Runge specula sui numeri e su geometrie mistiche, invoca la musica e la Bibbia, per concludere il 6 aprile del 1803: «non è stupefacente e vano quando gli artisti di oggi per pronunciare il nuovo usano le antiche figure, gli dèi pagani e le persone allegoriche»: sì, da sempre gli artisti avevano dipinto dèi, e quando giunse l’annuncio del Dio unico e si affermò la religione cristiana, nessuno pensò di buttare a mare gli dèi e la figurazione pagana, appena si sfumarono le somiglianze e in un gioco di mascheramenti si trasformò le dame dell’Olimpo nella ragazza ebrea di Nazareth. Ora invece si voleva esclusivamente il mai visto, difficile anche da percepire. Non a caso, qualche riga più sotto Runge aggiunge: «Rivive in me il desiderio di rileggere l’Apocalisse di Giovanni. Credo che non mi sarà, ora, veramente incomprensibile»[14]. Quale altro libro prova a rivelare l’impossibile mai visto come quello supremo della Bibbia? Ogni annuncio avanguardistico, ogni ‘manifesto’, ha un tono apocalittico che Runge coglie per primo e con serietà. Solo negli ultimi giorni dell’umanità, quando le donne gravide invidieranno le sterili, si sradicheranno le abitudini dell’umanità, a cominciare dalla prospettiva temporale che improvvisamente si chiude, e si potrà assistere veramente a uno spettacolo del tutto inedito. Il mai visto allora non sarà un brivido di moda quanto il terrificante segnale di morte, anzi la visione propria dei morti. Ma guai a chi crederà ai falsi messia e alle falsi apocalissi, rivelazioni ingannevoli dell’Anticristo: si moltiplicheranno gli annunci dell’imminenza del giorno supremo confondendo le trombe angeliche con le réclames circensi del nichilismo moderno.
(3. continua)
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[1] [1] In Ph. O. Runge, Hinterlassene Schriften, tr. it. La sfera e il colore e altri scritti sull’arte, Milano, 1985; lettera del 24 agosto 1798, p. 62.
[2] Datata: Dresda 1801, pp. 63-64.
[3] Ivi.
[4] Datata: Dresda, febbraio 1802, p. 65.
[5] P. 66.
[6] Pp. 68-73.
[7] Pp. 74-77.
[8] Citato da padre Giovanni Pozzi nel suo fulgido Sull’orlo del visibile parlare, Milano, 1993, p. 63.
[9] Pp. 77-81.
[10] Pp. 83-85.
[11] Pp. 85-88.
[12] P. 90.
[13] P. 91
[14] Pp. 98-101.

domenica 12 luglio 2009

I maghi del Brutto

~ QUANDO L’ARTISTA SI INTERROGA SUL SENSO DELL’ARTE PIUTTOSTO CHE SULLA TECNICA DA IMPIEGARE. ~ E I TEORICI DELL’ESTETICA TRIBOLANO A TAL PUNTO NELLA RICERCA DEL NUOVO BELLO DA FINIRE PER ACCLAMARE IL MOSTRUOSO. ~ IL CASO DI FRIEDRICH SCHLEGEL, APPRENDISTA STREGONE. ~ SECONDA PUNTATA DELLA SERIE DEDICATA ALLA NASCITA DELLA RELIGIONE DELL’ARTE ~

Va anche detto che nelle epoche precedenti alla nostra
i pittori […] compivano il proprio apprendistato presso
un maestro, come fanno i giovani calzolai e i sarti. Ora
però la superbia e la presunzione sono penetrate nei
giovani, l’uovo vuol essere più intelligente della gallina,
l’esperienza dei vecchi non viene più rispettata, ognuno
vuol essere il maestro di se stesso, crede di sapere tutto
e oppone resistenza al destino che Dio gli ha assegnato.
C.D. FRIEDRICH

Incipit l’èra della superbia artistica come neppure tra i geni del Rinascimento. I sacerdoti della religione estetica in realtà son quasi tutti papi. Incredibile che J. S. Bach, in livrea da domestico, sia contemporaneo degli enciclopedisti e preceda soltanto di vent’anni la nascita di Beethoven. Nell’ultimo scorcio del Settecento e il primo del secolo successivo, accadono apocalissi della storia e avventi di messia artistici: Canova, Mozart e Beethoven. Ma non è ancora chiaro se aprano o chiudano per sempre la storia del bello. Si assistette infatti anche a immani catastrofi estetiche, sbigottimenti, terrori.
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Non è un caso che il maggior lavoro si svolga in Germania, eternamente resistente alla cultura ‘romana’. All’inizio, Friedrich Schlegel «aveva predetto l’avvento di una nuova epoca, un terzo regno nell’arte e nell’estetico»; così in seguito, novello Battista, predicava la pienezza dei tempi per una rinascita religiosa. Il 7 maggio 1799, al fratello razionalista impenitente, annunciava tutto compreso: «Colla religione, amico mio, non intendo davvero scherzare: si tratta invece di una cosa serissima, poiché è venuto il tempo di fondarne una […]. Sì, io vedo già venire alla luce la più grande nascita della nuova età»[1]. Manteneva però una diffidenza settecentesca verso il cristianesimo e un erotismo non ancora annacquato dal romanticismo: «Proprio perché il cristianesimo è una religione della morte, potrebbe venir trattato con un estremo realismo e potrebbe benissimo avere le sue orge come l’antica religione della natura e della vita»[2]. Considerava il suo romanzo Lucinde, il «tractatum eroticum Lucinda», «un libro religioso». I sogni di Friedrich Schlegel erano comuni a quelli di molti suoi contemporanei. «Sono speranze e sogni che derivano dal retaggio cristiano dell’Occidente. La costante rivoluzione interiore avente come mèta il regno di Dio è una continuazione del ‘Protestantesimo’ immanente al Cristianesimo, una escatologia che esige che gli uomini non soltanto credano, ma siano anche attivi. Dal momento che la teologia alla fine del Settecento in Germania non diceva queste cose con sufficiente intensità, gli artisti e gli scrittori ripresero i grandi temi della teologia e li trasfigurarono a modo loro»[3].
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Nella fusione – post-lessinghiana o anti-lessinghiana – delle arti, Friedrich Schlegel indicava la formula, classica tutto sommato: ut pictura poesis e viceversa. Ma poi aggiungeva: se venisse meno all’uomo l’arte della pittura gli verrebbe a mancare uno dei mezzi più efficaci per collegarsi al divino. Trascorso qualche decennio, sulla scia di Wagner, i tedeschi si convinceranno che è nella musica la mistica scala per unire cielo e terra e la pittura dovrà fare sforzi disperati per diventare ut musica, l’astrattismo allora sarà una conseguenza di tale volontà musicale. Ma se la pittura è creazione che mima Dio «dobbiamo cercare la sua origine nella libertà e nell’arbitrio»[4]. Non è insomma artigianato, ma in quanto arte ‘divina’ fa a meno delle tecniche, le supera, le travolge, per comunicare con il cielo. Perciò il pittore e il sacerdote coincidono più che mai, arti magiche sono qui arti mistiche, rappresentazione del trascendente, capacità di dischiudere le tende e mostrare l’iconostasi, come nella Madonna di Raffaello. Ahimè, niente di divino venne fuori dai pur stimabili affreschi e quadri dei nostri tedeschi, come si trattasse di maghi che si affannano per entrare in contatto con l’aldilà e continuano a riecheggiare soltanto parole troppo umane.
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Allora, i teorici tribolarono a tal punto nella ricerca del nuovo che rinvennero il brutto. Certo, erano solo dei teorici, potevano dire quel che volevano, avevano ideato strampalatissime dottrine cui il rude artista opponeva il lavoro serio, sprezzante dei bamboleggiamenti filosofici. Invece, da un certo punto in poi, artista e teorico coincidono sempre più, e l’artista si interroga angosciato sul ‘senso dell’arte’ piuttosto che sulle tecniche. Colui che al massimo era stato un demiurgo abilissimo pretende di divenire un amoroso redentore e un Dio onnipotente, a costo di legarsi all’estremo Negativo. Faust docet, ma troppo diffidenti per stabilire patti con il Maligno, ci si lascia andare all’estetica, si venera la manifestazione estetica del demoniaco, il deforme, il mostruoso, l’horror.
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Friedrich Schlegel, tra i primi, dice parole forti, imbarazzanti per il tempo: «Mai il bello. Il bello è così lontano dall’essere il principio dominante della poesia moderna che molte delle più splendide opere moderne sono palesemente rappresentate dal brutto, tanto che si è costretti ad ammettere (a malincuore) che esiste una rappresentazione dell’immensa ricchezza del reale nel suo massimo disordine e della disperazione causata dall’eccesso e dal conflitto delle energie per la quale è necessaria un’uguale se non maggiore forza creatrice e sapienza artistica che non per la rappresentazione di quella ricchezza e di quelle energie in perfetta armonia»[5]. L’apologia del brutto all’orecchio educato dal neoclassicismo suona soprattutto ridicola. La Romantik sembra inseguire l’assurdo, e l’illogico diventa risibile. Nel mondo della tradizione, il bello ha una veste sacra, il brutto evoca gesti goffi e schernevoli del diabolico. I giorni saturnali producono il temporaneo rovesciamento dell’universo, la volta celeste che sprofonda sulla terra e il trionfo del bestiale nell’alto dei cieli; risate carnevalesche, poi il ciclo gerarchico riprende il sopravvento, il mondo torna al suo posto. Ma se il brutto sopravanza sempre il bello vuol dire che questo moderno si fonda su una eterna risata. I Padri della Chiesa ammonivano: il luogo dove si ride ininterrottamente è l’Inferno.
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Schlegel scontò la pena. Fu irriso da contemporanei e dai posteri. Oscillante tra la filosofia e la poesia, campò abbastanza per dover decidere un mestiere e fu una dolorosa scelta: professore d’università o giornalista, politico o riformatore religioso, seduttore o padre di famiglia, pensatore o lirico, erudito o creativo, filosofo di Stato o dilettante. Vennero fuori tutte le contraddizioni che la morte precoce risparmiò ai Novalis e ai Wackenroder. Era impossibile fare il ‘Goethe romantico’, non fosse altro che per pregiudizio sfavorevole allo stato di quiete ‘olimpica’. Si fu costretti alla vita movimentata, in giro per le città d’Europa. Il dotatissimo scrittore sfiorò la miseria, Brentano lo soprannominò «Messer Friedrich dalle tasche vuote». Fece infiniti progetti, sempre irrealizzati. L’avvocato, padre o zio dei Nazareni subì, come loro, risatine di scherno. In fondo, si trattava delle prime avanguardie e Schlegel si spendeva come loro promoter.
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Dopo un secolo di dileggi, Ernst Robert Curtius gli dedicò un saggio con una bella apertura: «Abbiamo molto da farci perdonare da Friedrich Schlegel perché nessun grande autore del periodo della nostra fioritura è stato così incompreso, anzi con tanta malignità diffamato»[6].
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Figlio di un ecclesiastico luterano, nipote di un drammaturgo, fratello di un letterato, pigro, lussurioso (nel suo Lucinde esaltava «l’emancipazione della carne»), dissoluto (nella vita godette di molti piaceri), mangione pantagruelico e grasso come non si può perdonare a un romantico, rubizzo in contrasto con i pallori dei suoi confratelli, ma altrettanto estremo: non si consumò nella tisi, lui esplose, morì di colpo apoplettico per troppo cibo e vino.
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Ma se Schlegel fu un precursore del Brutto in estetica, anticipatore di Rosenkranz, c’è un lungo percorso settecentesco che precipita poi nel caos post-rivoluzionario. Herbert Dieckmann lo ha ricostruito in un breve saggio[7]. La valutazione del brutto è affine alla giustificazione del male: estetica e teodicea, brutto e peccato, mostrano qualche affinità nel XVIII secolo. Naturalmente qui si parla della «rappresentazione seria del brutto», ché la satira e la salacità attraverso il deforme erano sempre esistite. Ma è soltanto con la crisi dell’autonomia del bello che si riconosce il brutto. In origine è la comédie larmoyante, il piacere delle lacrime. Moses Mendelssohn, il suocero di Schlegel, è forse il primo a occuparsi delle ‘sensazioni miste’. In una lettera parla del diletto per certe situazioni raccapriccianti[8]. D’altra parte, Addison aveva già messo in evidenza che anche l’evocazione di un letamaio può procurare godimento, certo per la bravura dell’artista nella descrizione, non per l’oggetto in sé. Comunque, «finché il brutto è stato l’antitesi del bello – scrive Dieckmann –, esso non aveva alcun valore proprio, il bello dominava incontrastato»[9]. Diderot, parlando della flagranza prodotta dall’attore sulla scena, fa non poche considerazioni sul piacevole spettacolo del brutto. Ma è Burcke che si spinge ad ammettere che il dolore è una qualità positiva. Arriverà a dire che «l’idea di una pena corporale […] produce il sublime»[10], inaugurando una possente teoria, del tutto moderna, i cui risultati letterari finiranno nella raccolta di Praz, La morte, la carne e il diavolo.
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Dieckmann sta attento però a non confondere la ribellione alle regole, per esempio la celebrazione lessinghiana del genio con l’apologia del brutto. Lessing infatti non nega l’utilità delle regole, le attenua appena in un anti-accademismo ben temperato. È Mendelssohn a spingersi in questa indagine sulle nostre più nascoste propensioni anche nell’arte. «Ogni spavento illusorio», ogni spettacolo del brivido, dunque, è sempre gradevole[11]. I fratelli Schlegel amplieranno il concetto, ma già Johann Elias, un loro zio, aveva detto: «a un pittore è lecito descrivere cose nauseabonde quanto a un poeta»[12].
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(2. continua)

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[1] Per le digressioni confessionali di Friedrich Schlegel, si è debitori della Introduzione di Vittorio Santoli ai Frammenti critici e scritti d’estetica, Firenze, 1967, qui pp. XXVII- XXVIII.
[2] Ibid. p. 153.
[3] Rudolf Zeitler, La costruzione della storia dell’arte come storia dello Spirito in Friedrich Schlegel, saggio uscito per la prima volta in Italia e in lingua italiana: «Critica d’arte», nn. 25-26 (1958), p. 24.
[4] Ibid. p. 101.
[5] Fr. Schlegel, Über das Studium der griechischen Poesie, tr. it. Napoli 1988, p. 66.
[6] E. R. Curtius, Friedrich Schlegel und Frankreich, tr. it in Letteratura della letteratura, Bologna, 1984, p. 79.
[7] Si tratta di L’orrido e il terrificante nelle teorie dell’arte del XVIII secolo raccolto poi in una traduzione italiana di saggi di Dieckmann, Illuminismo e rococò, Bologna, 1979 e che qui viene riassunto.
[8] M. Mendelssohn, Briefe über die Empfindungen, VIII libro.
[9] Dieckmann cit., p.170.
[10] Burcke, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful, London 1958, p. 86.
[11] Si veda la lettera di Mendelssohn a Lessing del 23. 11. 1756 (Moses Mendelssohns Gesammelte Schriften, Leipzig 1848, vol. V, p. 45).
[12] Cit. in Dieckmann, p. 205.

mercoledì 8 luglio 2009

L'arte come succedaneo della religione

~ UNO SCAMBIO DI RUOLI NEL SETTECENTO TEISTA E LIBERTINO: IL SACERDOTE VIENE ALLONTANATO DALLA SCENA PUBBLICA, AL SUO POSTO ENTRA L’ARTISTA, NON PIÙ IDEATORE ED ESECUTORE EGREGIO DI UN’OPERA ESTETICA, BENSÌ MEDIATORE TRA GLI UOMINI E L’ASSOLUTO. ~ PRIMA PARTE DI UN LUNGO DISCORSO A PUNTATE ~
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Come annunciato qualche giorno fa parlando di «Arte e santità» (29 giugno 2009), ecco la prima puntata di una serie dedicata alla nascita della religione dell’arte. Discorso che a sua volta rientra nel più vasto tema della storia dell’iconoclastia e dell’icondulia, intorno al quale l’«Almanacco Romano», sulle tracce dell’Image interdite di Besançon, amerebbe promuovere nella Pasqua 2010 un seminario molto amicale in un qualche borgo italiano. Per intanto, pubblica nel corso dell’estate dei materiali per la discussione, pur sempre utili al di là del simposio ancora lontano.
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Al termine del XVIII secolo, Novalis tracciava un bilancio e avanzava una congettura metafisica in un frammento pubblicato su «Athenäum» (1799): «Poeti e sacerdoti erano in origine una cosa sola, e soltanto i tempi successivi li hanno separati. Il vero poeta però è sempre anche sacerdote, così come il sacerdote autentico è sempre rimasto poeta. Ora perché mai non dovrebbe l’età futura ripristinare questo antico stato di cose?». Fantasiosa ricostruzione storica, confusa e sofferta constatazione della scissione moderna, romantica profezia della ricomposizione di un supposto stato di cose originario, più pagano – andrebbe aggiunto – che cristiano. Dove mai c’era stato infatti un sacerdote poeta? Forse nell’antico Egitto, di certo in molte immagini dei filosofi presocratici, non certamente nel cristianesimo, anzi il cattolicesimo, riecheggiando la religio romana, aveva compresso ogni misticismo, evitando le figure profetiche, assegnando al sacerdote la consapevolezza e la lucidità, senza situazioni estatiche: si consacrano uomini che hanno studiato il diritto canonico, non degli ispirati (il carisma casomai scenderà dopo). Però quell’annuncio che il «ripristino» dell’artista-sacerdote sia alle porte coglie nel segno uno dei fenomeni principali della modernità e sul quale gli innumerevoli discorsi intorno alla secolarizzazione sono scivolati via senza trattenere una riflessione specifica alla storia dell’arte contemporanea. La leggenda della liquidazione di ogni arte religiosa – per parafrasare il titolo di una celebre opera schmittiana – non è stata mai confutata.
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Il Settecento teista e libertino volge al termine, affiorano qua e là le prime ipotesi della negazione atea, ed ecco il geniale romantico rivelare uno scambio di ruoli: il sacerdote viene allontanato dalla scena pubblica, al suo posto entra l’artista, non più ideatore ed esecutore egregio di un’opera estetica, bensì mediatore tra gli uomini e l’Assoluto. Calano i credenti nelle promesse cristiane ma crescono i fedeli della nuova religione dell’arte. A essa spetta le redenzione, non tanto, anzi non più, la cura delle forme, la creazione della bellezza che accarezza i sensi, ma una presuntuosissima promessa del Paradiso in terra. Il Beato Angelico o Raffaello o Velaquez non garantivano il Cielo, non pretendevano di sostituire le loro opere ai piaceri dell’aldilà, né tantomeno di mettersi al posto dei sacerdoti e dei vescovi. L’arte, la letteratura o la filosofia stavano accanto alla fede cristiana, potevano essere sublimi godimenti dell’aldiqua che difficilmente entravano in collisione con le faccende divine, casomai ne erano un anticipo, una allegoria. Ma l’ultima gilda avanguardistica del Novecento si presenta come una setta di redenti e annuncia una sua propria salvezza al pubblico che si vorrà schierare con essa. L’arte come gnosi, come spazio dove è ancora legittimo affrontare il tema salvifico, anche se sempre più denudato delle coloriture metafisiche e ridotto a disperato gioco.
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Spesso questa onnipotente arte si vuole anche sostituire alla politica, ed è la lunga storia dell’engagement, dai nazionalismi romantici ai ribellismi comunisti e anarchici. Nei recenti decenni, tuttavia, la politica subisce la medesima degradazione che toccò in sorte alla religione rivelata, ragion per cui l’arte si trova nella straordinaria situazione di ereditare tutto, dagli spiritualismi d’ogni sorta all’autorità del potere, dalla verità del dogma alla forza di legittimizzazione con la quale rende lecito ogni gesto, al carisma che transustanzia le cose. Vi corrispondono altrettante correnti artistiche degli ultimi due secoli, talvolta più di una per ciascuno di questi beni ereditati o forzatamente avocati dalla religione e dalla politica, che così appaiono estinte.
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Con la nascita dei primi gruppi organizzati, dei primi squadroni dell’avanguardia, grosso modo con quel Lukasbund (o Nazareni, come li chiamavano i popolani romani) che si ricollega ai ‘primitivismi’ quattrocenteschi per rilanciare la fede cristiana aggredita dalla modernità – quasi spettasse all’arte rialzare le bandiere della Chiesa di Roma –, fino al Wiener Aktionismus che, ricorrendo perfino ai paramenti liturgici cattolici, celebra sacrifici più cruenti di quelli dei misteri pagani, il collettivo artistico tende all’anonimato, vicino alla comunità di monaci, come sognava Wackenroder, collettivo di «operai di Dio» – secondo una definizione di Mario Praz per i Lukasbrüder – che saltano il tramite religioso, e costruiscono sul terreno estetico la casa della salvezza. Diretti messaggeri celesti, quasi angeli. Ma nessuno li ha investiti di qualcosa né li ha iniziati: da soli, con un talento via via meno dimostrabile, soltanto per volontà artistica e, talvolta, per conferma di un confratello, di un critico, di un mallevadore appartenente alla medesima setta cioè, si autoproclamano artisti e definiscono artistiche le loro opere. Viene a mancare il fondamento di una estetica precettistica, oggettiva, la perizia tecnica costatabile, la rappresentazione tradizionale di un oggetto. La stessa estetica diventa invenzione artistica, soggettiva come tutto il resto.
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Eppure, nonostante un secolo di sociologismi, a parte pochissime eccezioni – per esempio, quella luminosa di Hans Sedlmayr –, quasi nessuno ha tenuto a mettere in rilievo come l’arte moderna sia sorta sullo sfondo dell’ateismo, mentre si sono sprecate le analisi sulle connotazioni sociali delle arti del passato, che sarebbero state condizionate dal feudalesimo o dall’imperialismo. Qui però si tratta di questioni ben più cruciali delle coloriture sociali, si sta infatti toccando il cuore dell’opera d’arte, il suo carattere ambiguamente metafisico per cui un quadro che è il trionfo della materia e del piacere sensuale rivela al contempo un mondo nascosto, svelando qualcos’altro sia pure per una visione fugace. Allora, il venire a mancare l’ordinato universo gerarchico, dove Dio è il sovrano e gli angeli i suoi messi luminosi, in un mondo oscuro che ha bisogno vitale della luce celeste e che si pasce di ogni sia pur approssimativa apparizione, produce un serio squilibrio del quadro o della scultura. Ricacciata nella pura materialità, animata soltanto dall’ingegnosità esasperata dell’autore, che rasenta d’ora in poi l’esercizio mentale funambolico, l’opera d’arte nell’epoca dell’ateismo cambia il suo statuto e trasforma pian piano anche i suoi caratteri materiali. La bella pittura plastica diviene pompieristica decorazione mentre la nuova arte degli ‘operai di Dio’ si vuole sempre ascetica, gotica, primitiva, schiacciata, livida, dissonante, malinconica, insoddisfatta. L’infelicità diventa la cifra dell’avanguardia, anche quando si presenta ludica e scherzosa, nel migliore dei casi, Abrgrund-glück, felicità d’abisso, come chiude un verso Gottfried Benn. D'altronde, «non c’è arte se non c’è incarnazione, e in che cosa del resto si incarnerebbe se non nell’immagine dell’uomo e in quella del mondo quale si è rivelata all’uomo?» diceva il russo Weidlé.
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Ci si conforta con un luogo comune: in tempi angosciosi l’arte non può che essere angosciosa, teoria dello specchio nero, smentita però da secoli di storia dell’arte che in periodi travagliatissimi e inquieti seppe offrire una festa per gli occhi e per lo spirito, basti pensare al Rinascimento italiano. La storia dell’arte dell’Otto-Novecento è – salvo miracolose epifanie – quaresimale, mortificante, perché sembra chiedere sempre allo spettatore una prova iniziatica per accedere alla salvezza di cui l’artista è il sacerdote dispensatore. Novalis ha visto giusto, si può provare a rileggere le principali correnti moderne alla luce della sua profezia. Oggi, nelle tenebre, avanza a tastoni una umanità che ha perduto le mète, le speranze, i conforti sacramentali e perfino quelli simbolici della antica arte; vive nella bruttezza elevata a sistema dalla industrializzazione e vagheggia il bello come in nessuna altra epoca mai, perché la parentesi estetica permette ancora una fuoriuscita provvisoria, e forse illusoria, dall’inferno di una vita segnata dalla morte. Disposta a lasciarsi irretire dalle più sottili trovate e a giocarsi l’anima per degli scontati calembours metafisici, quella povera umanità si incammina in interminabili pellegrinaggi verso tutti i luoghi dove aleggia una parvenza d’arte, anche se sotto forma di parodia della bellezza. Nostalgia dell’Assoluto, dicono i sociologi. Delusa, ahimé.
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Avanguardia delle avanguardie fu la gilda, medioevaleggiante e volta al passato, dei Nazareni. Sotto l’incalzare della modernità, nel pieno delle guerre napoleoniche, son loro che per primi si organizzano in reparti d’assalto, ricorrono alle metafore militari, annullano l’individualità artistica nel gioco di squadra, impongono uno stile pittorico di gruppo, delle tecniche ‘ideologiche’ (l’affresco, per esempio), i manifesti con cui lanciare le proprie battaglie. Si tratta infatti di un’arte che concepisce dei nemici mortali: chi è contro di noi, diranno i pii pittori, chi non condivide il nostro progetto salvifico, è dannato. Così corrotta e dannata sarà tutta l’arte che non si mette al servizio di una visione del mondo: il cattolicesimo pre-rinascimentale per il Lukasbund come la modernità con un’anima per il Futurismo. Ma i Nazareni non si limitano a intraprendere per primi queste guerre estetiche della modernità, fondano l’avanguardia come ordine religioso, carattere che resterà impresso a ogni corrente che faccia tabula rasa dell’arte prima di lei e accanto a lei, anche di quelle che si ispirano a principi del tutto atei. Perché gli avanguardisti sono monaci di una religione dell’arte che si afferma quando il cristianesimo sembra subire i più duri colpi della storia. Non è un caso allora che proprio nella Roma cattolica, dove surrettiziamente (e inconsapevolmente), i Lukasbrüder introducono questa religione dell’arte, appaiano le prime icone di un simile culto. Il primitivismo dei neoquattrocenteschi diventa arma contro la storia, volontà di percorrere al contrario l’umana storia (così come altri, più tardi, tenteranno di accelerarla in avanti), ma il revival nasconde il nuovo, nulla forse più anticattolico dell’entusiasmo di questi pittori romantici che pensano di reinventare la tradizione a loro piacimento, che confondono Novalis con i Padri della Chiesa e Raffaello con i santi. C’è chi affresca un paradiso incantato sulle orme del Beato Angelico, ma nella gloria degli angeli e dei santi colloca pittori e poeti. I nuovi sacerdoti dell’Assoluto spiritualizzato provano a imporsi alla devozione dei fedeli.
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Più tardi l’intuizione di Novalis viene tradotta in filosofia da Schelling: religione che si trasforma in arte. Hegel ne trarrà le conseguenze: Assoluto che si rivela nella filosofia, morte dell’arte. Allora in molti si affanneranno su tale annuncio macabro, ricamandoci magari fantasiose utopie. Appena una stagione precedente l’altra terribile notizia della ‘morte di Dio’. Comunque, le principali teorie su questo tema, le metamorfosi dell’arte, vengono elaborate dalla cultura tedesca, poco esperta, almeno durante lunghi secoli, in questioni di belle forme, e tale penuria di forme viene compensata con spiritualità e concettualismo, due capisaldi dell’attività estetica moderna, mentre la bellezza diventa argomento tabù, quasi rimembrandola si evocasse l’antico cattolicesimo – che brillava come sostanza celeste della grande arte, e così la vide ancora Novalis –, cattolicesimo sul quale le teorie hegeliane, luterane, sembrano trionfare.
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Giunge infine Nietzsche e ne trae con decisione le conclusioni: «la musica, con un suo posto a parte rispetto alle altre arti, l’arte indipendente in sé, che non già, come queste, offre riproduzioni della fenomenalità, ma piuttosto parla la lingua della volontà medesima, cavandola immediatamente dall’‘abisso’ come la sua più vera, più originaria e più diretta rivelazione. Con questo eccezionale potenziamento di valore della musica, quale sembrava scaturire dalla filosofia di Schopenhauer, anche il musicista crebbe enormemente di valore e diventò ormai un oracolo, un sacerdote, una specie di portavoce dell’‘in sé’ delle cose, un telefono dell’al di là – da allora in poi non parlò soltanto di musica questo ventriloquo di Dio – parlò di metafisica…» (Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift). Le arti un tempo figurative impararono a piegarsi davanti alla musica, abolirono la figura e si fecero sue ancelle. Così divennero tutte telefoni dell’aldilà, mentre folle di artisti si spacciavano per ventriloqui di Dio.
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Dirà un novecentesco, lo scrittore spagnolo José Bergamin: «Se, per esempio, ci ricordiamo delle correnti più significative della pittura, cominciando da quella religiosa, che naturalmente non è una religione della pittura, ma al contrario una pittura della religione – una pittura teatrale della religione: una teatralità o popolarità religiosa – , per arrivare al cubismo che corre il rischio di trasformarsi in una religione razionale della pittura – o almeno in una morale religiosa del dipingere –, sarà facile mettere in evidenza in ogni pittore una mano felice o infelice nel suo modo naturale della pittura e prendere il coraggio a due mani per vedere quello che ogni pittura ha di riflesso e di trasparenza, di simulazione teatrale, di autentico simulacro, di idolatria e di verità, di invenzione o di creazione poetica» (La importancia del demonio y otras cosas sin importancia in «Los cuatros vientos» Madrid, 1933). Era insomma scontata la falsità dell’arte, anche quando illustrava la verità evangelica, e non ambiva a sostituirsi a quella verità. La moralistica ricerca dell’autentico (sempre contra la corruzione, gli inganni, dell’arte bella) si impone, dal movimento tedesco dei pittori romantici in poi, diventando il Leitmotiv di tutte le avanguardie.
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Allora, di fronte alle più allucinate immagini e anche alla distruzione allucinante delle immagini, ai desolanti procedimenti mentali che sostituiscono la sensuale imagerie di un tempo, ci si ripete che solo quest’arte negativa dà corpo alla disperazione contemporanea, scambiando la causa per l’effetto. Tra i pochi invece a ricordare come l’arte possa essere un freno al nichilismo contemporaneo piuttosto che una sua eco – senza per questo risultare puerilmente consolatoria – , Ernst Jünger ammoniva negli anni Trenta: «In una realtà come quella odierna, dove la vita di milioni di uomini è dominata dalle operazioni di congegni automatici e dove le forme si somigliano come in un salone degli specchi, la responsabilità dell’artista è particolarmente grande. Egli opera da solo per la moltitudine, e in nome di tutti deve offrire testimonianza che l’energia creatrice non è estinta. È lo spirito che gli guida la mano, che gli regge la penna, il pennello, lo scalpello».
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(I – continua)