lunedì 4 agosto 2008

minima / Riti persiani nella Basilica liberiana
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Domani, 5 agosto, a Santa Maria Maggiore, si festeggia solennemente la Dedicazione della Basilica, ovvero la leggendaria apparizione della neve in piena estate del 431 d.C. sul colle Esquilino, a segnare la volontà celeste che una coppia di patrizi romani, insieme a papa Liberio, edificassero in quel luogo un tempio alla Deipara, il primo del mondo occidentale. Da allora, e per circa milleseicento anni vi si tiene un rito particolare che rievoca il miracolo climatico, ma da quando è arciprete dell’arcibasilica un cardinale venuto dal Nuovo Mondo, la liturgia ha assunto una veste straordinariamente sontuosa. È come se il prelato americano fosse maggiormente consapevole di quel che significa il privilegio di una cerimonia cattolica in una delle quattro basiliche patriarcali dell’Urbe. Perciò alle 10 del mattino si svolge la Messa pontificale con solennità di altri secoli, per esempio del Rinascimento, con preziosi paramenti di epoche sovraumane, con cori polifonici, organo e ottoni argentini e gravi, che provocano vibrazioni nei muri della chiesa paleocristiana, che passando dall’acustico al visivo per una sacra sinestesia fanno brillare i mosaici; intorno, i vescovi con mitria, il clero romano con le cotte ricamate, i cavalieri di Malta e di Rodi con le loro dame, la folla di mezzo mondo. Candele di pura cera, incensi pregiati, candelieri e croci progettati da designers del barocco, calici cesellati da orafi senza uguali, e il lusso anacronistico del latino, ma è al momento dell’offertorio che avviene un miracolo poetico: si schiude il soffitto aureo, che vanta il primo oro venuto, come il cardinale celebrante, dal Nuovo Mondo, e comincia a scendere una neve di rose bianche. I petali formano la delicata materia di questo spolverio candidissimo, non è una macchina barocca, piuttosto un rito persiano, un incanto dei giardini di Esfahan tra le colonne dell’architettura ancora imperiale. Pian piano l’invaso si riempie di leggerissimi lembi floreali che impiegano una eternità a venir giù e toccare il bel pavimento dei Cosmati o a posarsi sui ricami dorati delle pianete o sulle nere mantiglie delle dame, e intanto si sparge un profumo di rose che ricopre gli afrori agostani della ‘plebe di Dio’ in estasi, come sono definiti i fedeli nella scritta latina su quel gradissimo arco trionfale che inquadra l’abiside di Jacopo Torriti, pietra miliare, atto di nascita, della storia dell’arte italiana.
Tutti i giornali, i siti, le agenzie turistiche, le guide spingono invece i viaggiatori e i romani ad affollare la sera del 5 agosto il sagrato della basilica, dove un architetto povero di fantasia organizza ogni anno una nevicata con effetti da Cinecittà, riempiendo la piazza di macchine, di luci, di rumori dei generatori di corrente, di polistirolo privo d'anima al fine impossibile di una iperrealistica e brutale ricostruzione di un miracolo. Senza rose bianche per cancellare i miasmi delle notti sudate.