venerdì 21 giugno 2013

Viva l'Italia

~ LA CATTOLICITÀ DEL BELPAESE
SECONDO PARISE ~


Dopo avere abbozzato una scena romana di via della Croce, con un cieco alla fisarmonica, il forno con l’odore di pane fresco, i marinai che ascoltano il cieco che suona Verdi, e «su tutto, sopra l’angolo un vecchio capitello papalino con una Madonnina e una lampada, sopra questo il cielo d’Italia», Goffredo Parise se ne usciva con una espressione forte: «Mi fanno schifo e noia quelli che continuamente parlano male dell’Italia, cretini, che girino pure il mondo e un quadretto così, un De Pisis purissimo non lo troveranno in nessun luogo» (da «Lettere inedite» a Omaira Rorato, in I movimenti remoti, «Marka 32», pp. 50-51).

Hai voglia a far le file ai musei, a non perdersi una mostra, mancano gli occhi. Gli ultimi cafoncelli al termine delle loro vacanze all’estero affermano convinti che il tal paese o il talaltro è «dieci vent’anni avanti a noi». Pizzardoni della storia e della civiltà, hanno come orizzonte il pensiero unico e provano orrore per le meraviglie che gli fanno eccezione. Lo snobismo di chi ha perduto ogni eleganza, perfino quella degli umili, spinge costoro a vergognarsi dell’Italia. Comici, giornalisti, studenti in Erasmus sottomessi agli ospiti, pigri mentali in genere servono al forestiero il piattino con gli intingoli che predilige: mafia, camorra, corruzione dei politici, strapotere della Chiesa di Roma. Senza timidezze ma senza indignazioni, Parise smentì con grande allegria simili superstizioni. Gli bastò riprendere a parlare del bello nell’epoca dei sociologismi, quando sembrava scomparso, in quei Settanta che passano per i peggiori del Novecento. E mise insieme bello, Italia e cattolicità. I corvi annunciavano la fine della letteratura, lui replicò pubblicando proprio nel decennio grossolano la prima parte di Sillabari. E vi si veda la voce Italia: dovrebbe esser letta con leggerezza in tutte le scuole, almeno una volta all’anno, come una Magna Charta (indispensabile in particolare per i ragazzi che vogliono ottenere la cittadinanza di questo eccentrico popolo). Tali incanti, in affinità con le piccole prose di Raffaele La Capria, apparivano anche negli articoli per i giornali, dove lo scrittore veneto sapeva ricondurre gli smemorati dei Settanta, colonizzati e ideologizzati, ai piaceri del Belpaese. In forma di chiacchiere con i lettori, sul «Corriere della Sera» tenne una rubrica settimanale che brilla ancora oggi, sottratta come era alle mode funeste del tempo. Attingiamo copiosamente al libro che raccoglie queste conversazioni: Verba volant, con il sottotitolo editoriale «Profezie civili di un anticonformista» (Firenze, 1998) in modo che, una volta tanto, si parli del nostro paese senza sangue alla testa e respiro ansimante per pacchiane questioni di soldi.

«Questo è il mio Paese»

A un lettore che prova tristezza per preti e monache:
«‘Preti e monache’, incluse campane domenicali e vecchie che vanno a messa all’alba non soltanto mi piacciono ma mi danno gioia, guardi un po’. Perché questo è il mio Paese, con preti, monache, campane domenicali e vecchie che vanno a messa all’alba. Vede, signor Ravaioli, noi italiani, battezzati o no, non possiamo non essere cattolici. Lo siamo da troppi anni e l’impasto di amministrazione cattolica di cui siamo fatti è ormai fisico, lo spirito essendo volato via al tempo della Riforma e Controriforma al di là delle Alpi e degli oceani. A noi sono rimaste le pompe, le statue e le statuette, i pepli dei comunicandi e dei cresimandi, i confetti, le bomboniere e la pietà dei preti e delle monache. È poco rispetto all’Idea di Dio (invisibile)? Non è poco. […] Siamo un paese di atei, signor Ravaioli, che crede appunto in ciò che vede e che tocca, che crede nelle immagini dei santi, nei riti, nei parroci, insomma in tutto ciò che abbiamo visto fin dall’infanzia» (p.35).

«… Questo mio Paese è l’Italia molto bella dei più, non il meschinissimo Paese dei meno: quello dei meno è un Paese dove non si nasce, non si mangia, non si ama, non si vive e non si fa nessuna cultura. Dove non si respira nemmeno l’aria, perché prima bisogna ‘fiutare le arie che tirano’ e solo dopo si respira. Questo non è il mio Paese: il mio Paese è l’Italia piena di calore animale, quella ignorata dai poveri snob, dove mi piace vivere e scrivere» (p.129).

La povertà

Trentacinque anni fa, durante un’altra crisi economica c’erano come oggi, a contraddire i profeti si sventure, «i capannoni pieni di gente che si getta sul cibo». E anche Parise si chiedeva: «La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbe sciopero per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati sull’acquisto insensato di oggetti e di cibo». Molte le assonanze, dunque, a cominciare dal terrore di diventare poveri. «Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e religioso al tempo stesso. […] Questo denaro deve cascare dal cielo e dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. […] La povertà, si cominci a impararlo, è un segno distintivo e infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere, che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro Paese» (pp. 75-79). Tutt’altra storia le giaculatorie sulla ‘cultura’ come mezzo per far soldi: qui si insegna la strada per la bella povertà.

La scuola

Come risolvere il contrasto tra la cultura scolastica basata sulla lettura dei libri e quella televisiva basata sullo sguardo distratto?
«Questa frattura italiana è per il momento insanabile nonostante il velocissimo processo di integrazione in corso. Fino a quando la vecchia Italia, museificata, mummificata (o distrutta, che è lo stesso) avrà cessato di esistere come corpo vivo» (pp. 97-98). Forse questo momento è arrivato, la museificazione è completata, la distruzione di una penisola vivacissima quasi realizzata. Allora i ‘tagli’ ai bilanci del culturame non sono una disgrazia contro cui inveire.

«Non siamo in America dove non c’è cultura umanistica che affonda nel passato e dove il paesaggio e la realtà giornaliera coincidono perfettamente». Già, è un dettaglio che dimenticano tutti coloro che anche da noi sbandierano una americanizzazione della cultura del Belpaese. Si dovrebbe far sapere agli assessori competenti che, «essendo il nostro Paese molto vecchio, permangono in molti suoi abitanti […] alcuni frammenti di ‘cultura umanistica’: cioè autoctona, locale. Questi frammenti non si apprendono nelle scuole classiche, bensì stanno nascosti in una specie di sacca culturale pre-storica e pre-politica, che ci portiamo appresso dal nostro passato agricolo, popolare, paesano e cattolico. Questi frammenti si trovano nei contadini, quelli che ancora ci sono, negli operai (che furono contadini), in certa aristocrazia decaduta e in certa media borghesia del sud, che la sa lunga. Per fare un brevissimo esempio, anche la mafia è, a suo modo, uno di questi frammenti. […] La prima fonte di informazione per un contadino di fronte a un estraneo (straniero alla famiglia, al paese, alla regione) è la faccia. Quando si diceva ‘diffidenza contadina’ nei confronti di estranei, in realtà si diceva ‘cultura contadina’» (p. 100).

Sulla Biennale, basta una parola:
«Gli snob mi rimproverano perché essi fanno parte di un’altra società, quella oligarchica del pas de chale. Ce ne sono molti di sinistra, tra gli snob, perché anche la sinistra italiana, quella oligarchica e antidemocratica, ha i suoi pas de chale, le sue parole difficili, i suoi comportamenti apartheid: basterebbe guardare la nuova Biennale» (p. 127).

La Chiesa (1)

Quando un Gesù attualizzato in jeans finì sulla copertina di un settimanale cattolico, producendo gli entusiasmi dei bigotti post-conciliari, Parise scrisse: «È lo spirito e l’aspetto della intera Chiesa cattolica, il simbolo dell’autorità carismatica e pastorale che viene leso». Perché riportare il mistero divino al livello del linguaggio pubblicitario, atto a far soldi, fa sì che «la lesione si produce proprio là dove maggiore è, oggi, la debolezza della Chiesa: nella sua autorità, il suo fascino. Come dire che la Chiesa cattolica […] riconosce le leggi commerciali e potentissime del consumo materiale come leggi utili a cui obbedire, quanto meno, di cui servirsi. L’abolizione definitiva dell’autorità temporale (il Papa a Tormarancio) auspicata da Pasolini, o al contrario, il ripristino del potere temporale (parte diretta nell’amministrazione del nostro Paese) auspicata da me, hanno infinitamente più autorità spirituale che il compromesso commerciale con i tempi. […] Pensare, anche soltanto pensare, che la figura del Cristo debba essere ‘attualizzata’ per raggiungere e penetrare uno strato più vasto di consumatori è segno e annuncio, da parte di chi lo pensa, di una profonda crisi […]. Come dire: dobbiamo inventare qualcosa per rilanciare un prodotto poco richiesto. Il prodotto poco richiesto sarebbe la figura e la parola di Cristo» (pp. 145-146).

La Chiesa (2)

Anche se ne frattempo il prestigio del clero è scivolato giù (ne converrebbe oggi anche Parise) e perfino la parola ‘papa’ è occultata con imbarazzo, suona comunque attuale il rapporto schizzato in queste righe tra Italia e Chiesa romana. «Ho detto che non sono religioso, che non credo in Dio, e lo ripeto, ma non ho mai detto né scritto che non credo all’efficienza della Chiesa cattolica. Per prima cosa è la sola organizzazione amministrativa (anche se di anime) che gode immenso prestigio nel mondo; e di questo ogni italiano deve essere fiero. Poi credo nella Chiesa cattolica per la sua efficienza culturale, per la sua attenzione, non soltanto spirituale, ma umanistica e scientifica: infinitamente superiore, anche nel più umile dei suoi servi, a quella del più dotto uomo politico democristiano. Poi credo nella sua onestà, nella sua rettitudine, nella sua saggezza che ha sempre agito non soltanto ad maiorem Dei gloriam, ma anche a maggior gloria del Paese in cui vive […]. Non cesserò mai di ripetere che il solo altissimo prestigio del nostro Paese nel mondo è dovuto alla presenza fisica della Chiesa cattolica e del suo Princeps a Roma, in Italia. All’infuori di questo prestigio, per l’Italia, non c’è altro. C’è la mafia, alcuni prodotti alimentari, un po’ di canzoni. Ma questo non è prestigio internazionale, questa è bancarella. […] Tra il prestigio internazionale della Chiesa cattolica e quello della bancarella di prodotti folkloristici c’è un’immensa, incolmabile differenza di stile. Anzi, non c’è nemmeno differenza, perché lo stile sta da una parte sola. E lo stile si vede dalla qualità e dalla quantità di rispetto con cui gli altri Paesi guardano a noi. Uno stile da così lungo tempo avvezzo al potere che si è fuso con esso, uno stile depurato con i secoli da volgarità e scorie, dall’esercito dei parvenus politici da cui siamo afflitti noi laici» (pp. 164-165).

Matrimonio all’americana

Ai tempi di Parise non si aveva ancora l’ossessione delle nozze finalizzate alla reversibilità delle pensioni, prescindendo dal sesso. Ma già l’agitazione per il matrimonio all’americana, all’insegna del divorzio, con un contratto di riserva, pareva inaccettabile allo scrittore che non ragionava secondo modelli importati. Per far durare a vita il matrimonio c’è bisogno di celebrarlo sull’altare: «non sarei contrario al sacramento del matrimonio» – osservava – altrimenti non era granché convinto del contratto civile. Perciò quando gli aedi del divorzio predicarono la civiltà di un tale rimedio, egli si esercitò nel lanciare strali ironici. «Ritengo il divorzio l’altra faccia del matrimonio, cioè di un assurdo contratto, e burocratico e tribale, che tende alla cristallizzazione (vogliamo dire indissolubilità?) di un sentimento infinitamente dissolubile come l’amore» (p. 231).

E al professor Calogero, un laicissimo docente di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, che chiedeva: «non sarebbe l’Italia almeno un poco più felice se fosse infelice come gli Stati Uniti d’America?», rispondeva: «No, Calogero, non auguri al nostro Paese la terribile infelicità americana. È grande. Non la auguri, né in generale né in particolare per matrimonio e divorzio. Matrimonio economico e divorzio ancora più economico. Anche qui non ho spazio per descrivere la spettacolare e squallida Las Vegas, che ha un edificio per il divorzi e, sulla strada a fianco, per i divorziati novelli e novelli sposi, un attrezzatissimo servizio chiesette per varie tasche con cartelli che dicono “happy marriages only 50 $”. […] No, Calogero, restiamo in Italia, con tutti i nostri difetti e la nostra (quando c’è) ancora bellissima e decrepita e difettiva felicità». (pp. 232-233).

Quanto alle mode sessuali, basta una frase per cancellare il Kitsch delle parate chiassose sui propri gusti intimi. Contrapponendo agli agitati «problemi del sesso» il «mistero del sesso», Parise scriveva della «finta omosessualità di massa (quella vera è aristocratica, rara, molto privata e disprezza i ‘problemi del sesso’» (p. 12).

Inocularsi la morte

Il paese della dolce vita si è adesso appassionato della ‘dolce morte’ di marca nordico-protestante. Anche in questo caso Parise si accorgeva prima degli altri di quanto incubava e spiegava con pacatezza il suo dissenso, smontando le elucubrazioni sinistre che prendevano a diffondersi. Nella risposta al lettore apologeta del suicidio, c’è un tono ammirato della vita che pare uscito dal migliore cattolicesimo italiano.

«La sirena filosofica ci dice che la morte volontaria è un atto di coraggio e invece è un atto di viltà, […] è un orribile affare di carne morta, un fagotto di stracci, di pallore, di atteggiamenti del volto stravolti, ripugnanti e immobili che, se riuscissimo a immaginarseli, basterebbe a trattenerci dall’azione. […] Se lei vedesse il corpo di un suicida: aleggia intorno a quel corpo, all’espressione del volto, delle mani e delle gambe, come una bruttezza criminale che difficilmente ispira pietà agli uomini: la sirena filosofica ha cessato di cantare la sua superbia, i colori sono i grigi, i terrei, i rosso sporchi, molto peggiori nella loro essenza di qualunque altro colore della morte involontaria e naturale […] Quando si guardano quei colori, si guardano per contrasto i colori della vita e, pur sapendo che un giorno essa finirà, si è (con spavento) felicissimi di vivere oggi, forse domani, forse dopodomani e così via. Di vivere la vita qualunque essa sia, felice o infelice, povera o ricca, sana o malata» (p.57).

Agli italiani che adesso non si limitano a scegliere il suicidio ma vogliono la legge dalla loro parte, chiedono l’assistenza dello Stato al loro gesto, le parole di Parise faranno un certo effetto: non si tratta infatti, a sentire lui, di un diritto come un altro.

«Quanto all’istituto per la morte volontaria e indolore, mi pare una cosa molto più orribile perfino del suicidio […]. Mi figuro una specie di clinica dove una persona disperata […] viene gentilmente accolta da asettiche infermiere, accompagnata in una cameretta a lato di corridoi lucenti di cera e deserti, e lì, tra i sorrisi delle infermiere, dopo essere stata lungamente e inutilmente sconsigliata, le viene fatto firmare un atto di rinuncia alla vita. Poi come in un sogno, è preparata in qualche modo (forse con un’iniezione?) a un tiepido relax, forse tra le musiche. Al relax, dolcemente, senza alcun dolore ma inesorabilmente, come all’avvicinarsi di un sonno profondo (da cui ci si illude, come ogni notte, di risvegliarsi) segue il sonno definitivo, la fine di tutto. Le sembra giusto e generoso tutto questo?».

Infine, un tocco affettuoso, ché il Belpaese non dovrebbe conoscere le livide condanne del ‘peccatore’ proprie del puritanesimo.
«Mi dispiace molto che lei non abbia firmato la sua lettera. Avrei tenuto nascosto il suo nome ma l’avrei cercata per telefono una mattina presto, all’alba, per chiederle che tempo fa nel luogo dove lei abita e per farmelo descrivere nei dettagli. Quei dettagli che, messi insieme, fanno le ore, il giorno, gli anni e la vita che ci è data di vivere (qualunque essa sia, sempre bella appunto perché imprevedibile come il tempo), e che è tutto quello che abbiamo». (pp. 57-57).

martedì 11 giugno 2013

Tramonto italiano

~ BEATI QUEI POPOLI
CHE NON HANNO BISOGNO
DI TURISMO ~

Si era concentrati nella lettura di un libro su un tram romano non più sferragliante come un tempo, quando il gommoso fluire venne disturbato da un chiacchiericcio con cadenze siciliane: «la cultura... la cultura», ripeteva il mantra. Cosicché finimmo nolenti a intercettare le conversazioni di due boss dei cosiddetti beni culturali in viaggio di lavoro nella capitale, con frasi reboanti sugli affari che controllavano. Uno dei due teneva tra le mani un volumone che incuriosiva per la mole: che tema meritava mai tanto peso, quale trattatista poteva permettersi di ingombrare quanto un bagaglio? Il titolo, Mafie, faceva subito intendere di che razza di passionisti dell’ovvio si trattasse. Il principale nel grado burocratico si lamentava con l’altro per la Cappella Palatina di Palermo, di cui sembrava avesse una qualche responsabilità amministrativa, che gli dava non pochi grattacapi. Era il prete che celebrava la messa a procurargli il maggior fastidio, sottraendo ai turisti quella mezzoretta così preziosa, ma sembrava irritato anche dai palermitani che la domenica si volevano sposare in quell’aureo tempio invece di avere a cuore gli incassi della biglietteria posta  all’ingresso della chiesa. Il prete era malvisto perché voleva pregare nel luogo di preghiere, le coppie perché pretendevano di far benedire in una sala delle meraviglie le loro nozze sottraendo così molti soldi alla «cultura». Ancora una volta questa appariva come uno dei peggiori feticci contemporanei, esigendo continui sacrifici delle cose più sacre. Ma è anche vero che forse a Palermo non conoscono la formula per mischiare liturgia e turismo in voga a Roma sul sagrato della basilica petrìna, dove i pellegrini si rivelano essenzialmente dei gitanti, ragion per cui recentemente li si accontenta riducendo al minimo i sacri riti e ampliando l’entertainment, anche con opportuni discorsetti al livello dei viaggiatori in brache corte, e con gesti che fanno fuori la solennità, a maggior gloria del tutto compreso.

Che severità, obietterete, si deve pur mangiare. «Prostituzione intellettuale», secondo la lezione di un elegante lusitano, e si finisce per confondere la seduzione dell’arte con l’adescamento: si mette a disposizione il più squisito e vulnerabile lascito degli avi nostri al voyerismo internazionale. A metà Ottocento, Gustave Flaubert scriveva in una lettera da Napoli  di bambinetti e bambinette proposti da padri e madri alle stazioni delle carrozze per danarosi passeggeri stranieri; il commercio infantile adesso è più nascosto, non si fanno scrupolo invece i prosseneti delle opere d’arte. La chiamano risorsa la triste pratica di commerciare la bellezza. A sentir giornali ed esperti, la Grande Proletaria non pare possedere altre chances per sopravvivere. Non si posa ammirato e stupefatto sulla bellezza quello sguardo profano, ottusamente distratto, intriso di turpitudine, senza più riverenza per le testimonianze del passato; le guide, cieche tra i ciechi, si limitano a tener serrata la mandria. Il commercio dei secoli è inconfondibile segno di decadimento. Rubate alla quotidianità, le chiese non servono più a Dio e ai suoi fedeli, bensì ai visitatori estranei che pagano per guardare. Un tale traffico lo chiamano cultura quando sarebbe più appropriato il termine simonia. Povera Italia ridotta a un museo perché quelle opere esposte non sa più crearle, perché non riesce a ideare la taumapoietica, perché ha dimenticato i segreti del bello e deve accontentarsi di rivendere quello ereditato.

A Roma, Firenze e Venezia, dilaga il «colera turistico» (Manlio Brusatin) e tutta la penisola è contagiata dal morbo senza preci e immagini taumaturgiche che ottengano il miracolo della guarigione. Tutti osti e camerieri, hostess e ciceroni, autisti e museificatori: chi progetta ancora senza mettersi nello specchio dello spaccio turistico? I nostri borghi nacquero per egoistica dolce vita, al massimo per competere con il paese accanto. I visitatori allora, i giovani aristocratici del Grand Tour, erano accolti alla tavola dei signori per scambiare quattro chiacchiere sugli affari del mondo non per smerciar loro emozioni. Quelli che confidano nella «cultura» si rammaricano invece che il Sud non sia all’altezza del servizio turistico, destinando con cinismo, e con l’avallo delle autorità governative, una parte cospicua e già sfortunata della penisola repubblicana a questa nuova attività ancillare, senza più prevedere un futuro minimamente dignitoso dove magari si sappia costruire una Cappella Palatina del nostro tempo. Certo, ben poco di quel che firmano oggi con iattanza - nell’architettura come nel  ‘visivo’ - potrà tornare utile ai nostri figli nel caso malaugurato che finissero anche essi in una crisi paralizzante e volessero superarla ricorrendo al mestiere dei padri, ovvero di avvilire e svendere le proprie arti. Meglio essere conquistati dai Normanni o dagli Angioini - intrecciando tra indigeni e invasori amorose invenzioni - che essere sottoposti all’effimero dominio di chi lascia dietro di sé soltanto rifiuti.

Il pubblico funzionario sul tram sembrava avere in mente l’idea più balorda: il Belpaese costretto a sostentarsi con la propria bellezza, cioè con la più impalpabile delle ricchezze. La Cappella Palatina umiliata a opera da tre soldi ma contando le monete raccolte con l’occhio avido di Scrooge McDuck. Per pompare denaro un ospedale diventa un museo e la casa di Dio un sito a pagamento. Magari tra un po' venderanno tutto direttamente  a chi sa sfruttare meglio le italiche uova d’oro (liberalismo da Mackie Messer) e per dire messa si ricorrerà a qualche garage, secondo lo pseudo francescanesimo alla moda. Intanto, a furia di apporre un prezzo a ogni angolo delle città d’arte e di far pagare le nostre memorie, succede che pure a un italiano in giro per la casa davvero comune càpiti di dover versare somme insostenibili; lo si notava con dolore giorni fa a Siena:  per vedere duomo e palazzo comunale, l’ex ospedale e la torre cittadina, a otto euri in media, magari con una scarna famiglia,  egli dovrà sborsare una banconota da cento. E in sovrappiù essere travolto dalle folle di profani vocianti, che vogliono soltanto agitare i loro smartphone e scattare. Che ne sanno le masse di Caterina Benincasa?