sabato 23 agosto 2008

Idola / Novità

FINO AL SETTECENTO, LE COSE POSITIVE ERANO QUELLE STABILI MENTRE L’INNOVAZIONE RISULTAVA SEMPRE SOSPETTA. IN UNA CONFERENZA A TEL AVIV, RENÉ GIRARD, METTENDO A FUOCO QUESTA PAROLA-CHIAVE, SI CHIEDEVA: «PERCHÉ GLI ARTISTI MODERNI SONO TANTO OSTILI ALL’IMITAZIONE?»

‘Innovare’, dice il Dizionario etimologico, vuol dire «alterare l’ordine delle cose stabilite per fare cose nuove». In questo carattere distruttivo, o che comunque rende instabile i fondamenti del mondo, è evidente l’accezione negativa che la parola novità aveva in una società tradizionale. Con lo sgretolarsi di quell’universo compatto, però, si ebbe una trasmutazione dei significati: sempre più ‘novità’ sarà la parola-chiave, essere originali il primo comandamento, quindi alterare, anzi rovesciare, l’ordine

Nel 1989, René Girard tenne sull’argomento una conferenza a Tel Aviv, «Innovation and Repetition», poi confluita nella raccolta La voix méconnue du réel (in italiano tradotta da Adelphi, 2006, edizione da cui prendiamo le tante citazioni che compongono questo sunto). «’Innovazione’, dal latino innovare, innovatio, aveva in origine il significato di ‘rinnovamento’, ‘ringiovanimento interiore’, più che di novità, che è invece il suo attuale significato». Fino al Settecento, manteneva «connotazioni quasi sempre sfavorevoli», infatti, «le cose positive sono stabili per definizione, e perciò esenti da innovazione, che invece è quasi sempre presentata come pericolosa o sospetta». Come prevedibile, Hobbes la detestava, e altrettanto le erano avverse la Francia del classicismo e la Roma cattolica a caccia di eresie (di innovazioni, appunto). Più sorprendente che anche nella Svizzera di Calvino le cose andassero nello stesso modo. Il riformatore denunciava «il desiderio e la bramosia di innovare, cambiare e sovvertire ogni cosa», criticando in tal modo i peggiori istinti umani. I protestanti infatti, dice giustamente Girard, non vogliono innovare niente bensì restaurare il cristianesimo autentico. E restauratori vogliono essere gli umanisti che criticano i cambiamenti rozzi introdotti dai medioevali e pretendono di tornare all’antico, genuflessi davanti al classico. Montaigne usa con intento denigratorio la parola «nouvelleté». Il conferenziere sottolinea che è il substrato pagano che tiene a freno il cristianesimo che, altrimenti, si sarebbe potuto lasciare andare in tutte le utopie. Come annunciatore di nova e novissima, gli sarebbe bastato davvero poco per volere superare gli antichi, seppellire la tradizione, introdurre la fluidità, presentarsi come eternamente instabile, dunque regredire al caos. Si limitò invece a inventare nel suo senso più alto il moderno. Nonostante la buona novella, infatti, non predicò mai la rottura totale con il passato, il culto del nuovo per il nuovo, dell’originalità a tutti i costi. Anzi, presentava un modello insuperabile e si atteneva a quel modello (Imitatio Christi). Altri invocheranno l’imitazione dei classici, il modello ciceroniano nelle belle lettere, il modello politico in Cesare.

Nei millenni passati, si era convinti – scrive Girard – «che il gusto per l’innovazione caratterizzasse una mente perversa, se non squilibrata». È il trionfo della tecnologia a dare un segno positivo alla novità. Quindi fu la macchina vorace del Capitale a stabilire che l’innovazione era essenziale e perpetua. Innovazione si traduceva immediatamente in profitto. «Non più tardi del XIX secolo, l’innovazione diviene l’idolo che ancor oggi veneriamo […]. Il nuovo culto implicò l’abbattersi sul mondo di un nuovo flagello: la stagnazione».

Qui veniamo alle nostre questioni estetiche, o almeno ai loro riflessi. Durante il XIX secolo e per gran parte di quello seguente, questo nuovo idolo dell’innovazione si impose su tutto, facendosi «sempre più intollerante della tradizione», ne conseguì che anche l’arte della rappresentazione fu marchiata dal fuoco sacro dell’originalità, rifiutando come il male assoluto il concetto e la pratica della imitazione. «Diffondendosi dalla pittura alla musica e alla letteratura, la visione radicale della innovazione innescò gli sconvolgimenti successivi, ai quali diamo il nome di ‘arte moderna’: l’unico risultato degno di un ‘creatore’ è la rottura completa con il passato». Girard cita sornionamente un passo di Radiguet (Le diable au corps): «tutti gli amanti, anche i più mediocri, immaginano di innovare». E se lo pensano gli amanti mediocri, figuriamoci la febbre di chi si è autoinvestito del titolo, un tempo celestiale, di artista, di poeta. «Innovazione compulsiva», la chiama il nostro conferenziere. Fino a giungere a Nietzsche, davanti al quale l'antropologo cattolico non si genuflette come è abitudine da un secolo a questa parte: «Nietzsche è il nostro modello supremo del ripudio di qualunque modello, il venerato guru della rinuncia ai guru».

Eppure l’economia, dopo i proclami ideologici dei secoli scorsi, ha saputo tenere insieme saggiamente innovazione e imitazione. Allora, «perché gli intellettuali e gli artisti moderni sono tanto ostili alla imitazione?». Per orgoglio autodistruttivo – è la risposta – si preferisce negare il modello, reprimere l’impulso mimetico, o trasformarlo in una specie di «controimitazione», in cui si afferma la parodia, mettere fuori corso la saggia abitudine alla imitazione.

Quarant’anni fa un movimento violento tentò di cancellare definitivamente l’umiltà del discepolato, rendendo impossibile la trasmissione culturale, la tradizione. Una autarchia generale si è allora affermata nel mondo, «l’innovazione arrogante» senza altro riconoscimento che quello dei loro complici. Però l’imitazione fece una sua fugace e buffa comparsa in una concezione estetico-reclamistica che si richiamava alla serialità industriale: il pop americano. Un iperrealismo è invece avanzato con il cosiddetto post-moderno: tutto è permesso, non ci sono più modelli ma copie che rimandano ad altre copie, senza più l’originale, come le immagini digitali.

Tutto è creativo, la creatività non si può insegnare, tutti sono artisti. La pedagogia è divenuta «progetto artistico e culturale». «In tutto questo sciocchezzaio – dirà Jean Clair – dove si ritrovano, volgarizzate, inebetite ma oramai imposte le parole d’ordine surrealista, si constata con costernazione che è in nome di una ‘democratizzazione della cultura’ che si chiede all’insegnante di disprezzare l’eredità culturale» o alla istituzione di finanziare la selvaggeria senza oggettivi riscontri…». Non si insegna più a leggere e a scrivere, tanto meno a disegnare, dipingere e scolpire, bensì a giocare con la ‘creatività’.

Solo sapendo che l’imitazione deriva dal rito religioso si può invece ridarle un prestigio che ha goduto nei secoli, la dignitas dell’imitazione, della mimesis. Così come solo all’interno della tradizione si può innovare senza cadere nella egolatria.

Ma quanto sono originali le innovazioni? George Steiner, invecchiando, scrive libretti assennati, dove si può leggere: «in effetti, i poeti hanno lottato per creare nuovi linguaggi, come nel Dadà e in certi esperimenti futuristici. I prodotti si sono rivelati banalità più o meno comprensibili» (Ten (Possible) Reasons for the Sadness of Tonght, in italiano da Garzanti, 2007).

venerdì 15 agosto 2008

Un corpo femminile nell'empireo


L’Assunta, come fu detta e festeggiata molti secoli prima della proclamazione dogmatica di questa salita al cielo, è la presenza di un corpo femminile accanto alla Trinità divina nel punto sommo del Paradiso. Non è un caso che il tema dell’Assunzione sia uno dei cardini della pittura sacra, la trasfigurazione del corpo fisico e al contempo la venerazione del corpo, con Maria che alza le braccia – secondo l’iconologia ricorrente – quasi per nuotare nell’aria, coadiuvando gli angeli nel pio trasporto, confermando così che non si sta parlando di una generica sopravvivenza spirituale, che proprio di carne e ossa si tratta, e nel più puro dei cieli. Assunzione che non va disgiunta dalla morte, con lo stupore e lo sgomento degli apostoli di fronte al corpo sfatto, come lo rappresentò Caravaggio, con cattolica dottrina e messa in scena truce (prendendo a modello una prostituta, si dice, affogata nel Tevere), affinché non si dubitasse del passaggio mortale, senza alcuna magica trasformazione della materia. Quel medesimo sbigottimento manifestato dagli ancora rozzi omoni nel vedere la madre del loro maestro in volo verso l’alto, trasportata dagli angeli che devono vincere – a differenza della Ascensione di Cristo – la forza di gravità. La tomba che si svuota è il Leitmotiv di queste pitture, il tema fondamentale del cristianesimo. Di una resurrezione infatti si narra. Più trasognata è l’interpretazione sul versante orientale, a cominciare dal nome, la Dormizione di Maria, che idealizza in un dolce sonno le brutture dell’agonia, con le icone raffiguranti Cristo che accoglie un neonato, ossia l’anima di sua madre; si accenna nell’orbe bizantino a un corpo speciale, a un corpo consacrato e santificato, che nella religione romana, dal Tiziano dei Frari al Rubens dell’abside della Chiesa Nova, assume invece i caratteri concreti di una persona muliebre piena di grazia.

Quando Pio XII pensò di definire come punto di fede essenziale l’assunzione corporale di Maria di Nazareth molti cattolici, anche negli ambienti dei giovani teologi di Monaco, si preoccuparono delle possibili reazioni negative del mondo protestante, sempre sospettoso di ogni regalità della deipara, temendo una forma nascosta di idolatria, temendo cioè come la peste qualsiasi collusione con il paganesimo. E invece proprio da un illustre protestante, il calvinista Carl Gustav Jung venne l’acclamazione per il gesto di papa Pacelli, con argomenti peraltro che tradivano una gnosi di fondo. Jung cercava infatti di trasformare l’assunzione nella cooptazione divina di Maria, parlando addirittura pro domo sua, della sua psicologia del profondo, di una Trinità che accoglie in sé l’elemento femminile. Resta indiscutibile, anche nelle metafore junghiane dell’alchimia, che questa componente femminile sta ad attestare la fisicità del cristianesimo.

Il 1° novembre dell’anno santo 1950, davanti a una folla che arrivava alle sponde del Tevere, Pio XII, con la solennità che gli era propria, proclamava dall’alto del balcone della basilica vaticana questa verità di fede con le seguenti parole:
«…per l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l'immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo. Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica».

Con quella «fede divina e cattolica» un giovanissimo Tiziano dipinse l’immensa pala della chiesa veneziana dei Frari. Un titolo ‘laico’, semplicemente descrittivo, del quadro potrebbe essere «Il Trionfo sulla morte», garanzia per le tombe dei dogi e degli altri personaggi sepolti in questa chiesa. Tra i monumenti funebri che riempiono il tempio francescano, c’è anche quello che gli allievi di Canova dedicarono al maestro e che ne custodisce il cuore, ebbene la malinconia neoclassica, paganeggiante, delle statue che si avviano all’Ade, nel varco oscuro della misteriosa piramide, sul modello della tomba viennese di Maria Cristina, mostra la distanza che separa le concezioni moderne del morire dalla allegra sarabanda che accompagna l’Assunta al Paradiso nel dipinto di Tiziano. Là il funerale si è cambiato in una festa campestre e celeste.

sabato 9 agosto 2008

Letture / Se la bellezza diventa invisibile


«CHI, SENTENDO PARLARE DI BELLEZZA, INCRESPA AL SORRISO LE LABBRA, GIUDICANDOLA COME UN NINNOLO ESOTICO, DI COSTUI SI PUÓ ESSERE SICURI CHE NON È CAPACE DI PREGARE E NEMMENO DI AMARE». UNA PAGINA DI HANS URS VON BALTHASAR

Hans Urs von Balthasar (Lucerna 1905-Basilea 1988), teologo, sacerdote, gesuita, cardinale che muore due giorni prima di ricevere la porpora, giusto vent’anni fa, è oggi, sotto il pontificato di Ratzinger, così attento alle questioni dell’estetica cattolica, una fonte luminosa di pensiero. Mentre si affermavano gli angelismi del dopoguerra che erano l’altra faccia dell’umanesimo ateo (Pascal docet), e l’arte non paga di aver sostituito la religione, si permetteva adesso di istruire i padri conciliari, von Balthasar scriveva la sua estetica teologica controcorrente. A quei tempi, Kandinskij era più popolare di Tommaso d’Aquino. E un teologo protestante come Bultmann, in gran voga all’epoca, metteva in guardia: «Per la fede cristiana l’idea di bello non ha alcun significato formativo della vita; essa vede nella bellezza la tentazione di una falsa trasfigurazione del mondo…» (Glauben und Verstehen). Il teologo svizzero invece vi vedeva il vincolo splendido che serra il vero e il bene. Anni dopo, il poeta Brodskij sosterrà che «ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo».


«La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta dei piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita neppure dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa. Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente - non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare. Il secolo XIX è ancora aggrappato, in un’ebbrezza appassionata, alle vesti della bellezza fuggente, alle cocche svolazzanti del vecchio mondo che si dissolveva (‘Elena abbraccia Faust, il corporeo svanisce, la veste e il velo gli rimangono tra le braccia… le vesti di Elena si dissolvono in nubi, circondando Faust lo sollevano in alto e si dileguano con lui’ Faust II, atto III); il mondo illuminato da Dio diventa apparenza e sogno, romanticismo, presto ormai soltanto musica, ma, dove la nube si dissolve, rimane l’immagine insostenibile dell’angoscia, la nuda materia; poiché però non c’è più nulla e tuttavia si ha pur bisogno di abbracciar qualcosa, allora si spinge l’uomo del nostro tempo a questo Imene impossibile, che alla fine gli fa venire in uggia qualsiasi forma di amore. Ma ciò di cui l’uomo non è più capace, ciò per cui è diventato impotente, non può più, proprio perché si sottrae alla sua sottomissione, essere da lui sostenuto. Non resta che negarlo o circondarlo di un silenzio di morte.
In un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso – , in un mondo che forse non ne è privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male. Anche questo costituisce infatti una possibilità, persino molto più eccitante. Perché non scandagliare gli abissi satanici?» (Hans Urs von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, Jaca Book, 1961).

lunedì 4 agosto 2008

minima / Riti persiani nella Basilica liberiana
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Domani, 5 agosto, a Santa Maria Maggiore, si festeggia solennemente la Dedicazione della Basilica, ovvero la leggendaria apparizione della neve in piena estate del 431 d.C. sul colle Esquilino, a segnare la volontà celeste che una coppia di patrizi romani, insieme a papa Liberio, edificassero in quel luogo un tempio alla Deipara, il primo del mondo occidentale. Da allora, e per circa milleseicento anni vi si tiene un rito particolare che rievoca il miracolo climatico, ma da quando è arciprete dell’arcibasilica un cardinale venuto dal Nuovo Mondo, la liturgia ha assunto una veste straordinariamente sontuosa. È come se il prelato americano fosse maggiormente consapevole di quel che significa il privilegio di una cerimonia cattolica in una delle quattro basiliche patriarcali dell’Urbe. Perciò alle 10 del mattino si svolge la Messa pontificale con solennità di altri secoli, per esempio del Rinascimento, con preziosi paramenti di epoche sovraumane, con cori polifonici, organo e ottoni argentini e gravi, che provocano vibrazioni nei muri della chiesa paleocristiana, che passando dall’acustico al visivo per una sacra sinestesia fanno brillare i mosaici; intorno, i vescovi con mitria, il clero romano con le cotte ricamate, i cavalieri di Malta e di Rodi con le loro dame, la folla di mezzo mondo. Candele di pura cera, incensi pregiati, candelieri e croci progettati da designers del barocco, calici cesellati da orafi senza uguali, e il lusso anacronistico del latino, ma è al momento dell’offertorio che avviene un miracolo poetico: si schiude il soffitto aureo, che vanta il primo oro venuto, come il cardinale celebrante, dal Nuovo Mondo, e comincia a scendere una neve di rose bianche. I petali formano la delicata materia di questo spolverio candidissimo, non è una macchina barocca, piuttosto un rito persiano, un incanto dei giardini di Esfahan tra le colonne dell’architettura ancora imperiale. Pian piano l’invaso si riempie di leggerissimi lembi floreali che impiegano una eternità a venir giù e toccare il bel pavimento dei Cosmati o a posarsi sui ricami dorati delle pianete o sulle nere mantiglie delle dame, e intanto si sparge un profumo di rose che ricopre gli afrori agostani della ‘plebe di Dio’ in estasi, come sono definiti i fedeli nella scritta latina su quel gradissimo arco trionfale che inquadra l’abiside di Jacopo Torriti, pietra miliare, atto di nascita, della storia dell’arte italiana.
Tutti i giornali, i siti, le agenzie turistiche, le guide spingono invece i viaggiatori e i romani ad affollare la sera del 5 agosto il sagrato della basilica, dove un architetto povero di fantasia organizza ogni anno una nevicata con effetti da Cinecittà, riempiendo la piazza di macchine, di luci, di rumori dei generatori di corrente, di polistirolo privo d'anima al fine impossibile di una iperrealistica e brutale ricostruzione di un miracolo. Senza rose bianche per cancellare i miasmi delle notti sudate.

domenica 3 agosto 2008

Feticci in mostra

AL CENTRE POMPIDOU DI PARIGI UNA MEGA-ESPOSIZIONE DI OGGETTI VAGHI PER TESTIMONIARE IL SACRO. A ROMA C’È CHI SI RALLEGRA DI QUESTO RICHIAMO ALL’ORDINE ESTETICO SENZA CAPIRE CHE SI TRATTA DEL TRIONFO DELLA GNOSI

Dicono i giornali, con il tono pettegolo di vecchie ladies, che oggi la religione ‘fa tendenza’ in campo artistico. Prova ne sarebbe la mostra nel caravanserraglio parigino del Centre Pompidou – quel lunapark precocemente invecchiato, eretto per onorare la memoria di un umanista conservatore – intitolata Traces du sacré (7 maggio-11 agosto). Roma drizza le orecchie, la capitale delle arti spodestata nell’Ottocento dalle innovazioni parigine (e dal saccheggio delle truppe francesi) vede, dopo le sperimentazioni insolenti d’ogni tipo, un rappel à l’ordre, una resa al Cielo. Così annunciano i giornali italiani, persino l’organo vaticano si rallegra, Dio non è morto dunque, si consola il critico del quotidiano «Europa» (persistono tuttavia le credenze sulla morte dell’arte). C’è davvero da intonare un Te Deum di ringraziamento?

Una lunga sfilata, centinaia di pitture, sculture, video e naturalmente quegli strambi oggetti che chiamiamo, con linguaggio da idraulico, installazioni. Si parte da Goya e da un drappello di romantici, Friedrich in primis con il quadro del crepuscolo che si spegne sulle rovine di una chiesa, seguono gli isolati fine-ottocenteschi, i Gauguin, van Gogh, Munch (di cui si espone la Croce vuota), quindi gli avanguardisti del Novecento, un figurativo quanto geometrico e spettrale trittico di Mondrian, cui succede l’angoscia espressionista e la blasfemia surrealista, le maschere africane, il magico, i sortilegi, l’informale visto come reazione alla guerra, perfino il pop ridanciano come consolazione del dopoguerra, il sangue bovino rappreso sulle pareti del museo per la Passione paraliturgica di Nitsch, infine tutti i capricci estetici del nostro tempo; con un’appendice fragile sull’‘arte sacra’, scaduta definitivamente a pompierismo, non senza le terribili eccezioni sempre più diffuse di uno stile pompier che strizza l’occhio allo sperimentale, ma qui sono esposti solo quei patetici doni di artisti miscredenti alle suorine fiduciose, come nel caso delle vetrate di Matisse per la cappella provenzale di Vence, nient’altro che una curiosità. (L’arte sacra di Gaudì per i modernisti è uno scandalo, meglio ignorarlo.)
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Trecentocinquanta opere, duecento autori, ripetono i comunicati da ogni parte. Tanto «vagabondaggio mentale» è a maggior gloria di Dio? A gloria dell’uomo suo specchio? No, serve casomai per enfatizzare i dubbi, i vacillamenti, la debolezza della fede. Sotto il termine di ‘spirituale’ si nascondono le diffidenze, il rifiuto della bellezza del mondo, la rinuncia a sfiorare commossi le sue superfici, il miracolo sostituito dall’effettaccio da circo, dal ghigno satanico, la impronunciabilità della parola decisiva, l’ineffabile senza mistica e molta impotenza, insomma lo scacco elevato a emblema. In tale esposizione, Nietzsche fa la parte di un padre della Chiesa.

Spirali, fumi, scritte, mandala, mobili psichedelici, il solito armamentario degli ultimi tempi, con titoli delle diverse sezioni: ‘dionisiaco’, ‘invisibile’, ‘dubbio’, ma si parla anche delle ‘risonanze dell’arcaico’ (con le evocazioni dei peggiori anni tedeschi che esso comporta), degli orientalismi arrangiati dalla beat generation, dei misticismi prodotti dalle droghe, insomma «il grande barnum del sacro», come osserva la rivista «Esprit», che se la prende giustamente con chi, in maniera hegeliana, seleziona ciò che si oppone al religioso e lo iscrive di ufficio nella linea del religioso. Ci si potrebbe riferire pure alla negazione freudiana, a quella specie di trappola che vuole inchiodarci a tutti i costi al rimosso, fatto sta che chi si è ribellato furiosamente contro la Chiesa, chi ha posto il Triumphus Nihili in luogo della croce, diviene automaticamente un angelo del sacro, un annunciatore della nuova èra. Si diffonde nel vitreo contenitore parigino l’occultismo tardo ottocentesco, la stregoneria di svariate epoche, la magia fuori del tempo, soprattutto di derivazione africana, in cui Picasso seppe cogliere e rielaborare la sinteticità delle forme senza lasciarsi catturare dalle divinità malvagie, a differenza di molti epigoni che si tuffano nella maledizione del primitivo (ma i pagani dell’Africa che in questi giorni hanno soppresso gli albini per paura della malia saranno da considerare ‘fuori dei recinti ortodossi e dogmatici’ e quindi associabili a questi spiritualissimi araldi dell’arte nuova?).

Avrebbe benissimo potuto far parte della rassegna la Rana crocifissa – che a Bolzano provoca scioperi della fame di chi prende sul serio le faccende estetiche –, sarebbe con tale metro generico del sacro un’ospite d’onore di questa manifestazione di santa blasfemia. Pendant del pupazzo crocefisso alla sua scrivania, prodotto di un goliardico giovanotto che già irrideva Karol Magno con mosse da briccone scolastico e che in questa rassegna è collocato nei piani alti. Qualche tempo fa addirittura i libri vennero crocefissi in un film strampalato di un vecchio regista, mentre da sempre le copertine delle riviste che inseguono lo ‘scandalo’ mettono in croce donnine, ragazze gravide che vogliono abortire, disperati in genere, giocando per mezzo di fotomontaggi sull’effetto ossimorico (ma anche un po’ pornografico). E sarebbe ‘spirituale’ – secondo i teologi della mostra – uscirsene con una ideina già collaudata e ottenere un risultato oltremodo redditizio grazie al ricorso a quel martirio divino? Il crocefiggere altri che il Cristo è l’ultimissima tendenza – direbbero le ladies osservatrici della cresta dell’onda –, mentre il Dio appeso all’albero infamante è tolto dai luoghi pubblici per volontà laica degli islamici. Gli autori di tali imposture in questi casi fanno a gara per mantenere «il monopolio dell’anticonformismo», come osservava scherzosamente in un lontano libro René Girard, passando il tempo «a sfondare delle porte aperte letteralmente da secoli. È la guerra moderna contro le proibizioni, già ridicola al tempo del surrealismo».

I curatori della kermesse invece parlano di fine della secolarizzazione, di tramonto dei Lumi, nutrendosi delle contrapposizioni della moda, degli schemi binari, mentre sembrano ignorare la «dialettica dell’illuminismo» riportata all’attualità anche dal papa tedesco. Quel che è più grave, gli storici dell’arte non mettono in luce che proprio nell’epoca della secolarizzazione e dell’eclissi della religione rivelata furono gli artisti ad autoproclamarsi sacerdoti di una religione sempre meno segreta, anzi vieppiù popolarissima, che ormai richiama masse di fedeli ignoranti nei templi-musei davanti a oggetti insensati: la religione dell’arte. Ma è un’arte disumana, frutto di una religione disumana come quei culti aztechi che esigevano sacrifici di prigionieri, di vittime innocenti, decorate con nastri e colori, che tra musiche assordanti e balletti e pantomime, multimediali si direbbe, placavano le divinità ingorde di sangue con i loro cuori ancora caldi e palpitanti, mentre i fedeli sbranavano braccia e gambe dell’olocausto.

Spira da tempo il vento del Nord, e non solo in campo estetico. Dall’affermazione della Riforma protestante in poi è scomparso il livello oggettivo e ontologico, tutto si svolge sul piano morale, affettivo e sentimentale (mi sentivo peccatore, ora mi sento salvato); la ragione e la volontà restano fuori dal convertito. La salvezza insomma è ridotta a un’esperienza sostanzialmente individuale ed emozionale. «Con il protestantesimo – dice un buon teologo d’oggi – è l'uomo che giudica la fede e non viceversa. La religione diventa un problema moralistico, il problema di fare del bene, che interessa solo chi avverte il problema del proprio peccato. La fede ‘protestante’ non è più un avvenimento che giudica il mondo e lo salva, bensì un messaggio che non mette in discussione il mondo così com'è, ma, anzi, deve trovare il suo posto nel mondo e precisamente nel cuore di coloro che, vivendo il problema del loro peccato, vogliono cambiare. La fede, cioè il sentimento di essere salvati, a cui ci si abbandona senza possibilità di comprendere fino in fondo, coincide con una posizione di assoluta fiducia, che non coglie la totalità dell'uomo come intelligenza e volontà, ma solo il suo aspetto affettivo e sentimentale. Il credente è ridotto a un tipo di uomo che ha il problema di vivere rettamente…». Ormai anche molti cattolici si muovono in questo modo; mezzo Occidente si sente mancare il terreno (oggettivo) sotto i piedi.

«L’arte – scrive il direttore del Pompidou in questa ghiotta occasione – non può essersi liberata della spiritualità o del sacro. Il quale, preso in senso metafisico, è sua parte integrante». Tanto ovvia da apparire sospetta l’affermazione. I motivi cristiani degli espressionisti e, prima ancora, di Gauguin e di van Gogh sono noti anche ai profani. E il sacro dei primitivi nel Novecento è materia di studio della scuola dell’obbligo ormai. Così l’esotismo extraeuropeo, il buddismo zen, lo zen ridotto a ornamento giardiniero, la teosofia degli astrattisti, lo steinerismo che detta consigli su diete e destini da oroscopo, il demonismo dei surrealisti: sappiamo, sappiamo. Del resto, in pochi hanno tentato di tradurre esteticamente lo scetticismo del pensiero liberale o hanno creduto a Wittgenstein quando annunciava che i limiti della nostra lingua sono i limiti del mondo: gli sforzi eroici degli artisti stanno lì a smentire questo iperrealismo positivista. E in pochi, costretti per lo più, hanno celebrato sulle tele o nelle sculture il materialismo dialettico. Anche le dozzinali opere del realismo socialista tradivano una religiosità naïve, una venerazione del popolo di ascendenza russa, tolstoiana.

Del resto, nel carcere della secolarizzazione, cioè senza alcuna piacevolezza trascendente, è difficile soggiornare a lungo. Si tratta di rimasugli di altri secoli. Buffi come i partiti neo-monarchici nel Novecento, quando i migliori artisti e pensatori erano schierati sul fronte della aristocrazia ma non più di sangue bensì dello spirito. Anche i comunismi politici erano già sepolti e casomai andavano letti con Baudelaire, «Avis aux non-communistes: tout est commun, même Dieu...»: soltanto per equivoco sopravvissero in un generico ribellismo. L’arte del positivismo borghese o dell’ateismo bonario invecchiò rapidamente, travolta dagli spiriti inquieti.

I russi del Novecento, innovatori forsennati, prima della rivoluzione operaia fecero quella dell’anima. Kandinskij predicava lo spirituale in arte e praticava lo spiritismo, Malevic profetizzava alquanto. Basta con l’illustrazione degli aneddoti, gridava, ed è la condanna ricorrente che interrompe la narrazione tradizionale composta appunto di aneddoti, di storie, per sostituirla con illuminazioni improvvise e accecanti. «Della mia epoca – dirà – non ho altro che un’icona nuda», cantando «la forza di andare oltre nella nudità del deserto. Poiché là è la trasfigurazione». Pensierini ascetico-mistici onde non riprodurre ma creare una forma nuova. Pretendevano perciò tali innovatori non di essere sicut Deus bensì il medesimo Deus. Solo che al posto dell’universo meraviglioso, dalle mani di questi pietosi demiurghi, escono quadretti malinconici. Si parla di «creazione assoluta»: prima che blasfemo è ridicolo.

La storia dell’arte sotto il segno del sacro sarebbe, a parere degli entusiasti della mostra parigina, l’altra faccia della sequenza trista di avanguardie e sperimentalismi, la smentita dell’ateismo. Ma quel che è accaduto in campo estetico dopo l’avvento della modernità rende questa storia meno semplice. I curatori della mega-esposizione sembrano dimenticare come le avanguardie abbiano trasformato l’artista in sacerdote e, soprattutto con Nietzsche, il filosofo in profeta. Rivadano a leggere la premonitrice intuizione di Novalis: «Poeti e sacerdoti erano in origine una cosa sola, e soltanto i tempi successivi li hanno separati. Il vero poeta però è sempre anche sacerdote, così come il sacerdote autentico è sempre rimasto poeta. Ora perché mai non dovrebbe l’età futura ripristinare questo antico stato di cose?». L’arte come succedaneo della religione: il ritornello risuona negli artisti romantici e in quelli avanguardisti del XX secolo. Colui che al massimo era stato un demiurgo abilissimo pretende di divenire un redentore non sempre amoroso e un Dio onnipotente, a costo di legarsi all’estremo Negativo, Faust docet, ma troppo diffidente per stabilire patti con il Maligno, si lascia andare all’estetica, venera la manifestazione estetica del demoniaco, il deforme, il mostruoso, l’horror. Si vedano gli scritti degli artisti tedeschi che, filosofando assai, finirono per porsi questo problema fin dai primi anni dell’Ottocento, in particolare Philipp Otto Runge, «teologo del colore». Nel suo epistolario con i familiari viene fuori l’appassionata volontà di creare un’«arte nuova», si badi bene non un nuovo stile, una nuova tecnica, bensì una definitiva rottura con la tradizione artistica occidentale, un appello affinché le arti della parola e quelle visive e sonore si intrecciassero per dare vita a un universo estetico mai visto, dove l’umanità avrebbe scorto l’alba della redenzione. Allora, il colore sarebbe stato l’equivalente della nota nelle trombe apocalittiche… Più o meno nel medesimo tempo, Caspar David Friedrich sentenziava: «da un’opera d’arte io esigo elevazione dello spirito e impeto religioso». La religione che viene dannata nelle chiese e nei monasteri deve rispuntare nei musei. Una religione protestante, certo, avversaria della sensualità dei «migliori italiani», che si afferma mentre i pastori del gregge luterano perdono peso intellettuale e morale, contestati dall’illuminismo. Una libera interpretazione della natura che prende il posto di quella del testo sacro, una ricostruzione soggettiva della spiritualità affidata ai pittori. E fuori dalle chiese Friedrich dipinge il suo Crocefisso, icona di un nuovo culto.

Il responsabile della impresa parigina, trafficando con i luoghi comuni, dice che non è Dio che è morto, né la spiritualità a esser stata uccisa bensì i dogmi. Apriamo una parentesi su questa faccenda dei dogmi contrapposti alla fantasia scatenata, alla religione dell’animismo occidentale. Ammonisce George Steiner, che pure è un credente nell’arte della religiosità: «i decreti esplicativi e legislativi pronunciati da Roma e dai custodi dell’ortodossia nella Parigi medioevale, la clausura dottrinaria e metafisica della Summa di Tommaso d’Aquino possono essere compresi come un tentativo di mettere un punto ‘finale’ ermeneutico. Proclamano essenzialmente che il testo primario può significare questo e questo, ma non quello. Le equazioni che collegano la comprensione razionale e l’autorità esplicativa alla rivelazione sono complesse ma alla fine possono essere risolte. È lecito quindi definire il dogma come una punteggiatura ermeneutica, come la promulgazione di un blocco semantico. L’eternità ortodossa è esattamente l’opposto della revisione e del commento di un’interpretazione senza fine. Nella fede, nella logica e nella grammatologia scolastiche (come più tardi in Hegel), l’eternità è una forma ordinata e chiusa. Ciò che non ha fine è caos satanico» (Real Presences, trad. it. Garzanti 1992). Di quel ‘caos satanico’ è intriso il movimento interminabile etico-estetico dei nostri giorni.

Senza dogma, senza Dio, il caos satanico risulta tanto ambiguo da essere scambiato per religiosità. Nel frattempo, l’assenza divina che aveva causato i migliori drammi moderni, anche nei più sarcastici acuti, adesso sembra scatenare soltanto risate e satire sguaiate. Si consacra tutti i giorni la dissacrazione. Il flautista magico trascina il suo pubblico come un presentatore di cabaret, un barzellettiere. La caricatura, «negativo del bello ideale», «equivale a perfetta deformità» (Werner Hofmann), e quante caricature ossessive appaiono nella esposizione parigina. Il grottesco del mondo, la piccola sapienza che si costringe a sogghignare su tutto, è l’unica tonalità accettata. Per far tornare la memoria agli organizzatori della mostra si dovrebbe fornire loro l’intera bibliografia di Hans Sedlmayr su arte e satanismo, o semplicemente – in sede di bilanci – il perspicace rilievo dello storico austriaco sull’enfatizzazione nell’arte novecentesca dell’esprit de géométrie a discapito dell’esprit de finesse, segno inequivocabile della malattia estetica moderna. Se ne troverà poi una specie di sunto nel saggio di Jean Clair, Du surréalisme considéré dans ses rapports au totalitarisme et aux tables tournantes, che affronta, pur senza mai citare Sedlmayr, la spiritualità dei tavolini a tre gambe negli astrattisti, il cristianesimo sospetto dell’Espressionismo, il sacro dei surrealisti cambiato di segno e tendente al demoniaco, frequentando Trotsckij di giorno e Madame Blavatskij di notte (ma tra i libri ancora sui banconi dei negozi, c’è per noi un raccomandabile saggio di Enrico Castelli sul medesimo tema, appena riproposto da Bompiani, Il demoniaco nell’arte: «La nausea non è che il modo di distinguersi, un modo di distinguersi. Si ha la nausea quando buttiamo fuori di noi qualche cosa che non è assimilato. Ci separiamo. La nausea è un separarsi, o il principio di una separazione. Quindi la nausea è un aspetto del demoniaco, nel simbolismo dei pittori-teologi».

Con onestà, Carlo Ossola, in un libro concepito in francese, dunque a disposizione dei teorici del bilancio sacralizzante del Pompidou, chiariva bene: «Après la mort de Dieu, s’ensuit la mort de ses copies: l’art, la poésie, la musique, tout ce qui était ordre et beauté» (L’avenir de nos origines. Le copiste e le prophète). Perché l’ordine e la bellezza non possono essere messi nel calderone del sacro. Perché per l’ortodossia cattolica, «non c’è arte se non c’è incarnazione, e in che cosa del resto si incarnerebbe se non nell’immagine dell’uomo e in quella del mondo quale si è rivelata all’uomo?» (la citazione appartiene al leggendario russo Wladimir Weidlé, Les Abeilles d’Aristée, Paris, 1936, su cui «Almanacco» promette di tornare). Sacramento non è altro che manifestazione di Dio nella carne, non nella astrattezza fantastica. Teodoro Studita sosteneva d’altronde che poiché Cristo è nato da una madre raffigurabile, possiede una immagine rispondente a quella della madre, e se non si potesse rappresentare nell’arte vorrebbe dire che sarebbe nato dal solo Padre e non da Maria. Perché il cristianesimo annuncia che la rivelazione si può «vedere e toccare». Perché, sulla scia di von Balthasar, Ratzinger ripete che l’arte cristiana è fatta di annuncio «nella perfezione della bellezza», tentando di arginare la seduzione del Brutto che, totem dei romantici, sembra stregare lo spettatore attuale.

A Parigi, come in tutti i musei contemporanei del mondo, si rivendica un rapporto individuale con la divinità, ma poi con un cachinno si informa che la divinità è introvabile. Sacro nella sua ambiguità corrente – sottratto cioè alla eccezionalità cristiana che libera dal sacrificio, che riscatta la vittima – è allora una violenza che si abbatte sui deboli, è una forza di morte che puntualmente ritroviamo in quei feticci modernisti che riempiono i musei. Sacro è mescolamento tra vita e morte, mentre per Cristo «la morte non ha più nulla a che vedere con la vita» (ancora Girard ci aiuta), anche per il carattere naturalista della sua morte, nient’affatto simbolico. La demistificazione cristiana, lo strappo con una mitologia che giustifica la violenta repressione della vittima, viene rovesciata nelle nuove mitologie gnostiche, nelle piccole mitologie surrealiste che cedono all’antinomismo di successo, alla facilità del vizio. Se un gestore di bordelli mettesse come insegne delle sue imprese commerciali la frase di san Paolo sulla fine della Legge, lo annovereremmo per questo tra gli eroi spirituali?

In un solo colpo l’aura tanto bistrattata dal povero Benjamin viene reintrodotta con trombe e timpani. L’aureola spirituale brilla intorno a qualsiasi prodotto estetico contemporaneo, a prescindere dalla sua qualità, dai suoi risvolti metafisici, è quasi un marchio per crescere di valore sul mercato. Qui invece tornerebbe saggio l’ammonimento del pensatore ebraico-berlinese che a sua volta riprendeva da Geremia e dai grandi insegnamenti biblici: non fatevi idoli, non mettete loro intorno l’aura dello spirito divino, l’opera d’arte è sempre umana molto umana, può rinviare al Cielo, ma è roba terrena, che parte dai sensi, che non deve saltare la barriera dei sensi, che punta al cuore prima che alla mente. Geremia ridicolizzava il culto delle immagini presente negli altri popoli: «si taglia un albero dalla foresta, opera di chi lo lavora con l’ascia. Lo adorna d’argento e d’oro; lo rafforza con chiodi e con martelli affinché non vacilli. Sono come spauracchi in un campo di cocomeri, non possono parlare. Bisogna portarli, poiché non camminano. Non temeteli poiché non possono nuocere così come non è in loro potere fare del bene». Quel bizzarro oggetto innalzato, un idoletto addobbato, fissato con chiodi al pavimento, rigido da apparire come uno spauracchio: quasi una installazione modernista.

La «Nouvelle Théologie» la chiama Alain Besançon nel suo L’image interdite (Fayard), teologia di impostazione gnostica, per vincere l’attaccamento a questo mondo come avrebbe voluto Schopenhauer: quale migliore addestramento di una visita a un museo contemporaneo per deprimersi in questo modo? Quale luogo più ideale per la demoralizzazione dell’Occidente? L’arte come sedativo, come narcotico. Impressionante la somiglianza degli ospedali con tali musei. Oggi il museo è uno spazio dell'inquietudine esattamente come l'ospedale, dove non si grida più dal dolore ma ci si sente soffocati da una angoscia compressa, un'angoscia farmacologica.

Siamo giunti così alla parola-chiave: gnosticismo. Per gli gnostici tutto è bassezza in questo mondo perfino l’anima, figuriamoci la carne. L’antropologia degli gnostici chiede una disincarnazione dell’uomo, una tendenza verso la distruzione del corpo. L’estetica pretende dunque l’abolizione della figura. Ci voleva la sfrontatezza moderna che corre impassibile il rischio dell’insensato e del ridicolo, per potere mettere a punto un’arte gnostica. Nell’ubriachezza del mondo predicata da tutta la gnosi, l’uomo è dispensato da ogni sforzo morale e l’unica azione valida per lui resta il rifiuto del mondo, della sua bellezza sensuale, un rifiuto così radicale da non escludere l’immoralità libertina, senza piacere: il vizio in sé dei carpocraziani, per esempio. O gli estremismi dell’encratismo che negano la famiglia, il vino, i godimenti materiali, il futuro del mondo. Sulle tracce dello gnosticismo era il titolo veridico per la mostra parigina.

La verità sensuale di Tiepolo

Onde smascherare agli occhi del papa i cortigiani che avevano calunniato la sua arte somma, il pio Gian Lorenzo Bernini ideò e scolpì una giovinetta sorridente, gioconda e interamente nuda per personificare la Verità svelata dal Tempo, secondo quanto insegnavano i Greci, che la chiamavano Aletheia, con il negativo dell’alfa iniziale per catturare quello che c’è di sfuggente e nascosto, da disvelare appunto all’infinito come una cipolla. Senza alcun papa da convincere, anche Tiepolo concepì in una villa veneta una sua Verità pittorica, anzi più di una, ma – come voleva il clima illuminista dell’epoca – piuttosto che drammaticamente nuda, vezzosamente discinta. Trascorsi alcuni secoli, i cortigiani di Palazzo Chigi, trovandovi una copia dell’affresco, poi distaccato e trasportato in un palazzo di Vicenza, collocarono questa copia come immagine dell’eloquio del Primo ministro italiano, in modo che risultasse onesto e verace, sistemata dietro al suo tavolo da cui dialoga con i giornalisti. L’idea dell’allegoria era buona, la scelta di Tiepolo, l’ultimo grande della gloriosissima storia dell’arte italiana, altrettanto sagace. Ma i cortigiani, fini analisti dell’immagine pubblica del loro capo, trovarono che il dettaglio del petto, piccolo e leggiadro, offerto nudo agli spettatori dello schermo domestico, ingrandito e puntinato dalla riproduzione elettronica, risultasse troppo licenzioso o sembrasse alludere alle caratteristiche puttaniere dell’uomo; trattandosi appunto di una copia, non si lasciarono intimidire: commissionarono a un braghettone post-moderno, magari uno scenografo del mondo tv, un velo che coprisse almeno la bianca coppa del seno. Subito la televisione, con il suo alone di fissità mortifera, rese il trucco palese. Tutti si accorsero allora dell’intervento e in molti ne risero come fanno i semplici quando scoprono gli imbrogli del potere. Però quelli che semplici non sono ripeterono come un sol uomo osservazioni che la dicono lunga sullo stato dell’arte (o della sua ricezione). Proprio come sosteneva Jean Clair nelle citazioni riportate dal nostro «Almanacco» (Il vizio nel museo, 8 luglio), «le immagini sono diventate ai nostri occhi inoffensive e insignificanti» al punto che i loro presunti esegeti diventano paradossali: negano anzitutto che una simile nudità possa colpire i telespettatori, l’arte di Tiepolo insomma sarebbe meno lussuriosa di quella delle aspiranti sgambettatrici; anzi, in molti si chiedono perché mai, con tanti corpi svelati che si vedono in giro, dovevano censurare proprio Tiepolo? Si conceda almeno che è più eloquente lui che tutte le immagini correnti. Ma, come ammonisce Clair, non si afferra più il potere dell’arte e quindi neppure il suo pericolo. E infatti, «l’arte evidentemente spaventa», scrivono con rammarico i giornalisti prendendosela con i 'censori'. A loro parere, dovrebbe essere innocua, rassicurante come uno spot pubblicitario. Una agenzia arriva a formulare una frase decisamente comica: «Può uno splendido dipinto settecentesco del Tiepolo, che ritrae una giovane donna che rappresenta la Verità, “toccare la sensibilità di qualche spettatore” solo perché mostra un seno nudo?». E perché no. A che servirebbe allora lo splendore se anzitutto non atterrisse? Ma in un sondaggio online vince al 90% il parere contrario, è ovvio che i paladini della libertà artistica non sanno nulla di chi difendono generosamente. Tutti insensibili si dovrebbe essere ai corpi dipinti? Tutti sublimati dall’arte, come si giustificavano un tempo le attrici di nudo?Non pare vero che qualcuno resti turbato da un seno dipinto e lo consideri eccessivamente godurioso. Da quanto tempo non si sentiva più parlare del possibile godimento fisico prodotto dall’arte pittorica. Scriveva Guido Piovene che, essendo di Vicenza, magari era cresciuto avendo negli occhi l’immagine della Verità dipinta dall’artista veneziano: «La sensualità del Tiepolo è davvero totale, imbeve tutto ciò che appare, arriva per tutte le vie… si dissimula sotto gli involucri più diversi». Si dissimula deliziosamente anche sotto le chiacchiere degli anestesisti dell’arte.