mercoledì 31 luglio 2013

Il sermone del gesuita

~ IL GRANDE SPETTACOLO DEI POVERI E DEI RICCHI
MESSO IN SCENA DA UN INSIGNE SCRITTORE DEL SEICENTO ~

«Uscite da la fossa ceneri sparse ed ossa»
E. de’ Cavalieri, A. Manni, Rappresentatione di Anima e di Corpo, 1600

Chissà se invece di attingere soltanto a giornali e televisioni o addirittura ai cinguettii elettronici per farsi un’idea del mondo, nei seminari della Compagnia ignaziana, se non altro in quelli di lingua italiana, si è usi ancora sfogliare l’opera di Daniello Bartoli (1608-1685), massimo scrittore gesuita e colonna portante della pur maestosa letteratura italiana (al punto che Leopardi annotava nello Zibaldone: «… alle volte disgrada lo stesso Dante»); chissà se qualcuno si sofferma  su La povertà contenta che ha come sottotitolo «descritta e dedicata ’a ricchi non mai contenti» e che fu pubblicata nel 1650 (Google ne offre una copia digitalizzata, invero di non scorrevole lettura; qui la citiamo, nel giorno della festa del santo Cavaliere basco, dall’edizione delle Opere del padre Daniello Bartoli della Compagnia di Gesù, volume XXVIII, Torino, 1834). Questa «opericciuola» discorre «della felicità de’ Poveri contenti», che è un tema essenziale del cristianesimo, rilanciato da Francesco d’Assisi, niente a che fare con le lamentazioni sociali delle filantropie socialiste su cui anche Karl Marx esercitò il suo humour nero luciferino. Voi ricchi – dice l’eccelso prosatore – osservate i poveri e vi riconoscete, terrorizzati, in quello «specchio della umana miseria». Perché mai accade un tale gioco di riflessi e  che cosa atterrisce in quello specchio lor signori? I miseri – sostiene il Bartoli – somigliano impressionantemente a quello che i ricchi saranno (o potrebbero essere) tra poco: dopo la morte. Chi, come il gesuita, ha fatto della povertà un voto, non vuole certo minacciare la ricchezza di coloro che sono mossi esclusivamente dalla cupidigia, appronta piuttosto una «farmacopea» onde guarire da questa febbre dell’avidità, onde tornare alla saggezza cattolica che aborre gli estremi. Solo un ricco assatanato può immaginare che «un povero muoia scontento», dice il Bartoli (speriamo che non lo immagini anche un «Vescovo» gesuita che agita la causa dei poveri) o anche, si potrebbe aggiungere, che i cristiani in genere siano degli infelici fuori di testa (era la convinzione dei pasciuti borghesi ottocenteschi). I beni, la zavorra dell’oro e dei possedimenti, dovrebbero, nella fantasia dei possidenti bloccare o quanto meno rallentare la violenza del tempo che nel «brieve palmo di pochi giorni» tutto vanifica; la ricchezza insomma dovrebbe rendere meno leggera, fragile,vacua e insignificante l’esistenza. Nel cristianesimo, la critica della ricchezza smodata non è mossa dunque dall’invidia, dall’odio dei ricchi mancati che vorrebbero essere come quelli a cui guardano con ammirazione e rabbia. È anzitutto una questione di misura e, in primis, di misura temporale. Non rimandate – incalza il gesuita che fu anche un grande predicatore – le opere di misericordia, investite qui, sulla terra, riscuoterete nell’Aldilà. 

Già nella introduzione, il sagace letterato lascia cadere una perla barocca che tanto preziosa sarebbe anche nel tempo nostro, in specie per l’omiletica: «Dove la verità da sè sola e ignuda, come fosse mendica, sarebbe da’ ricchi avari cacciata (quasi a prender da loro venisse e non a dar del suo), vestita per decoro d’alcuno schietto ornamento, come matrone, più agevolmente troverà chi la ricetti e la senta. Per tal fine andrò io tal volta, framescolando il bello col buono…». Anche i soldati della Compagnia ignaziana, dunque, benché il gesuita «nec rubricat, nec cantat», ricorrono al decoro dell’ornamento, parlano e scrivono con rara finezza, consapevoli che la missione evangelica non può fare a meno delle arti. In tal modo al Bartoli pare di offrire «tesori di sì belle verità», tesori che valgono più dell’oro, che riescono a vincere l’umana natura in una specie di compromesso. «Abbiamo un corpo, non siamo angeli», ripeteva Teresa d’Avila, aprendo l’èra pia della Riforma tridentina.

«Se le ricchezze d’una Povertà contenta fossero conosciute» non regnerebbe la paura su questa terra e le città farebbero le loro mura di cinta «con le siepi di rose». Chi rischierebbe allora per mare e per terra nelle imprese economiche? A questo punto Max Weber sottolineerebbe le righe in cui il Bartoli sembra raffigurare a tinte fosche l’attività dell’homo oeconomicus e magari vi scriverebbe  in margine: «apologia cattolica della pigrizia». Quanto meno, si sarebbe tentati di dire per assonanze facili, anticipa le attuali teorie della «decrescita», in realtà qui la retorica del Bartoli vuol solo mostrare la fatica dell’intrapresa che, oltre una certa misura, diventa una ossessione. C’è una parsimonia anche nell’eccesso barocco: perché non provare «la soavità di qualche stilla di questa celeste ambrosia della Povertà contenta»? I poveri sulla soglia delle chiese, con i loro sgradevolissimi difetti fisici, con le piaghe e le febbri, che paiono sempre sul punto del trapasso, sono un esercito di figuranti nello spettacolo edificante allestito per la regia cattolica. Fuori della chiesa, le folle degli straccioni sono un potente ammonimento su quanto attende l’uomo sano e abbiente; dentro la chiesa, i soffitti che s’aprono alla gloria paradisiaca dipinta mostrano i premi che attendono tutti i partecipanti, sani e malati, ricchi e poveri, di questo universale teatro del mondo e del cielo. Gli accattoni,  «pallidi, scarni, ignudi, mangiati dentro dalla fame, e di fuori congiunti dalla necessità: senza altro patrimonio che la propria miseria [Marx copiò quando reintrodusse il termine latino di ‘proletario’?], senza altro senso di vita che il dolore d’un pensoso morire», sono – agli occhi del Bartoli – dei sublimi predicatori  «sopra la vanità e la manchevolezza delle cose del mondo». Qualsiasi elemosina darete loro, qualsiasi prezzo pagherete un simile sermone, sono i poveri che vi faranno un dono, l’obolo è appena un biglietto scontatissimo per questa sontuosa messa in scena barocca. Perfino la povertà «scontenta», le lacrime, le lamentazioni, i rimbrotti contribuiscono a una tale illustrazione plastica del catechismo cattolico, i cinque sensi sono addestrati, con tanto di  tanfo che rimanda alla putrefazione del cadavere,  per la Rappresentazione di Anima e di Corpo con cui Emilio de’ Cavalieri aprì la fortunatissima storia del teatro musicale, il recitar cantando che in serrata dialettica animò la Riforma tridentina: «Ed io vi concludo che questa miserabil vita altro non è che una pompa funebre di corpi vivi».

Certo, ci sono uomini che vivono in terra felici, per niente attaccati alle cose del mondo, che non hanno bisogno di questo genere di visioni né devono acquistare il biglietto con l’elemosina per ottenere un po’ di sapienza, ma questi uomini son pochi. E per formarne di tal genere la «Filosofia del secolo» serve a poco. A tal proposito le immagini di Seneca inducono a fantasticare come fossero una bevanda che, data a un povero, lo facesse sognare di domini e di gloria per poche ore. Poi c’è il risveglio. Per ottenere allora la povertà contenta non servono i palliativi della filosofia pagana, c’è bisogno d’una sapienza divina. C’è bisogno di giudicare povertà e ricchezza in modo del tutto diverso, opposto alle considerazioni che fa il mondo su tali questioni, allontanandosi dai giri di pensiero dei vari socialismi, abbandonando il peggiore dei luoghi comuni che vuole Gesù un socialista sui generis e ante litteram. Solo il vangelo, ripete il padre Bartoli, dischiude alle gioie della povertà, alla bellezza della povertà. Il vangelo, suggerisce sornione il gesuita, è il ladro che vi deruba di tutto, e così facendo vi fa entrare in un altro regno. L’agitazione per le paghe, per una impossibili giusta redistribuzione, nel libro del dotto ferrarese non compare; lo scopo della vita è accumulare tesori in cielo (Mt. 6, 33), non c’è un solo passo nei quattro vangeli che si occupi di salari se non come di metafore per cose celesti.

Cartagine, allo stesso modo delle altre capitali delle civiltà affondate, offre al Bartoli uno spunto per un «teatro di rovine» che diventa  «un porto di consolazioni» per «i Poveri contenti che non hanno nulla nel mondo». E il prosatore seicentesco ci mette sotto gli occhi «una gran selva di colonne recise e sparse per la incolta campagna co’ dimezzati e laceri tronchi; quivi informi membra di statue smembrate e infrante, e grandi ossature di smisurati colossi […] le torri abbattute, quasi cadaveri di giganti; gli archi una volta trionfali […] con le giunture scommesse, non ancora rovinate perché lungamente rovinino. Per tutto montagne di marmi, cataste di ossa incenerate…» (Manzoni lo riecheggerà nei suoi «Fori cadenti»). È il memento mori della storia, rivolto a popoli e sovrani, che intacca la fiducia nella ricchezza, non i moralismi del sentimentalismo piccolo borghese. Il teatro delle umane vicendevolezze potrà pure stimolare e far approntare degli accorgimenti per stabilizzare il più possibile il mondo, secondo il realismo romano che dall’Impero trasmigrò alla Chiesa, ma al di là di tutte le umane accortezze, resta il fatto che il trionfo del tempo sconfigge ogni bene immobile (il solo chiamarlo così è un eufemismo per esorcizzare ogni forma di terremoto), inflaziona la più aurea delle ricchezze. Questa è saggezza: vanità del mondo, come sta scritto nei conventi, come hanno predicato dai pulpiti. Nulla a che vedere con le utopie della piena occupazione o piena ricchezza, burocraticamente distribuita, secondo i sogni terribili seguiti alle peggiori sbornie della storia. Questa è anche la grande consolazione offerta ai ricchi: saper perdere tutto con l’eleganza di un gentiluomo a un tavolo da gioco, di un monaco superbo della sua tonaca grossolanamente tessuta. La Chiesa ha insegnato ai potenti che la loro fortuna è assai breve, «vede sera, e cade», sicché lo scettro d’oro è «fragile canna» (non c’è proprio bisogno di farlo d’argento per ostentare l’ ‘eretico’ pauperismo), la gerarchia della tradizione non scambiava pareri con quei potenti per «dar lavoro ai giovani» ma per difendere il giorno festivo dal travaglio sempre uguale, dalla circolarità pagana. La predica bartoliana dice della «comune instabilità delle cose». Ritorna possente l’immagine: «Quante città ha consumate il tempo; sì che vecchie decrepite, diroccandosi sopra sé stesse, son divenute sepolcri de’ lor proprj cadaveri? Quante ne ha incenerite il fuoco; nè mai, come Fenici risorte sono dalle infelici reliquie, che al loro distruggimento avanzarono? Quante ne ha inabissate i tremuoti, ingojati i mari, distrutte le guerre? Ora gli armenti pascolano dove un tempo furono Popoli». La morale cattolica pretende qualcosa di stabile di fronte allo spettacolo spaventoso dei crolli di tutte le civiltà, di fronte agli «spettacoli di maraviglia» che diventano «spettacolo di compassione», come i sassi sconnessi che «minacciano [rovina] a chi lor passa vicino». Chi era re oggi è uno schiavo, il diadema reale di un tempo diventa oggi capestro. L’accusa alla Chiesa di Roma d’esser stata al servizio dei potenti è quanto di meno fondato, una voce severa ha invece ricordato a chi aveva in mano il mondo che possedeva solo vaghe ombre, una voce amorevole ha ricordato ai poveri che nel regno cristiano c’è la ricchezza che conta.

Ecco la fonte della contentezza dei poveri: che «niuno è esento del perdere». Non hanno nulla da perdere, delle catene – avrebbe forse obiettato padre Bartoli a Marx – non è possibile liberarsi una volta per tutte; ogni esistenza ha i propri vincoli. E Marx, per far tornare i suoi conti sugli operai in peggior stato degli schiavi, sembrò riprendere un’altra frase del gesuita (che probabilmente mai lesse e di cui neppure seppe del passaggio su questa terra): «Quanto di peggio è, portar le catene dell’anima, che al piè?». Nonostante la casuistica tanto vituperata dagli spiriti più rigidi del Seicento, il sacrificio è al centro del discorso del gesuita: «sapersi volontariamente privar d’un piacere è maggior piacere, che lasciarsi vincere dal suo desiderio e gustarlo». C’era probabilmente anche un sentore di stoicismo, grande infatti era la fortuna di Seneca in quel tempo, non soltanto come autore teatrale. «Povero e libero, cioè padrone di sè medesimo e della sua quiete», contrapposto a «ricco ne’ forzieri e angustiato nel cuore». Così, per secoli, anche il Magistero di Roma.

«Infinita è la turba di quegli che, come gli antichi Romani, secondo il rimprovero di Mitridate, sembrano allevati e cresciuti alle poppe d’una lupa vorace, onde hanno Luporum animos inexplebiles» (Justin, lib. 38); a’ quali tanto cresce la fame, quanto divorano».  Questo incunabolo del consumismo dovrebbe essere esposto dai pulpiti d’oggi invece di eccitare le masse ai riti lavorativi, alla fatica che non ammette tregua e che in tutto si meccanizza per comprarsi vacanze e automobili, villette a schiera e feticci alla moda, o per accedere a discoteche dove dimenarsi come hanno fatto turpemente i vescovi a Rio davanti ai ragazzi (tutte piccole tentazioni del mondo, certo, che Madre Chiesa Romana perdona innumerevoli volte, ma sarebbe stupido se le additasse a modello, confondendole con la dignità della umana persona).  Ce n’è anche per il liberalismo: «… in poco d’ore uno è ricco, e poi mendico; prima ignudo poi con le spoglie di tutti: indi nulla rimane a chi ogni cosa possedeva». Il sermone indica la «disgraziata sorte del lavoro», le insane attività umane per far soldi, da chi si cala in miniera a chi va a cercare oro, dai pescatori agli agricoltori. Si dirà giustamente che la Chiesa non si rivolge a dei monaci, conforta tutti, anche gli uomini carnali sono figli amati: e si conceda infatti molto anche a loro, li si assolva per questi malsani appetiti, ma si spieghi al contempo che cos’è la vera vita, ci si affanni a non ridurre tutto alla «bocca e pancia» più una spruzzata di spirito. «Che vivere è cotesto?», direbbe loro il padre Bartoli. Mostrava inoltre che anche chi è mosso dalla cupidigia vorrebbe godersi «quell’immenso che adunano, quell’infinito che bramano», e che dunque l’anelito è santo ma va guidato dalla sapienza e fermezza.

La Povertà invece, con la maiuscola come la scriveva lui, «è esente dal tormento dell’acquistare, dalla sollecitudine del mantenere, e dalle doglie del perdere». Il capitolo quarto è dedicato all’esposizione del lato positivo della povertà. Il passaggio più difficile. Descrive in realtà, con l’aiuto dei classici e dei Padri della Chiesa, più il filosofo, l’uomo libero e padrone della sua volontà, che il povero in carne e ossa, vittima delle circostanze (ma il povero che accetta pazientemente, cristianamente appunto,  le circostanze avverse diviene eroico e filosofo). Su questa terra il povero e il ricco sono ambedue scontenti e per conquistare un po’ di contentezza i poveri devono comprendere l’aspetto bello della loro parte e i ricchi si devono spogliare delle loro false certezze e accostarsi all’esperienza della povertà, il missionario perciò non si stancherà di indicar loro questo modello ideale.  Come siamo distanti dal pensiero calvinista che fotografa il reale e lo giustifica con una versione teologica atta a confermare il povero nei suoi aspetti peggiori e ‘maledetti’ mentre esalta il ricco nella ascesi vana verso un sempre maggiore arricchimento che non dà acquietamento  alcuno, accentuando anzi l’inquietante dubbio interiore. Trovare del buono in ogni cosa, pure per sorella Morte corporale, è infatti proprio l’essenza del cattolicesimo, la realizzazione dell’idea che il mondo è stato creato da un Dio Amore per cui amabilissima appare la sua creatura. I grandi patrimoni sono comuni: la luce, le stelle, i prati fioriti, ossia i tesori che la natura offre a tutti indistintamente. Sono i «barbari d’Occidente», cioè gli amerindi, che «hanno la fermissima opinione, che la bellezza non sia dono di natura, ma guadagno d’industria, nè si porti seco nascendo, ma si acquisti vivendo e lavorandosi il corpo, come gli scultori le statue. Perciò con varj sughi d’erbe e di fiori, dal capo al piè tutto si dipingono a lunghe strisce il corpo […], si traforano il labbro inferiore, e molte e grosse anella v’appendono, […] si piantano su pel corpo mille penne d’uccello […]. Dunque colà il bello d’un uomo consiste nel non aver punto dell’uomo». Oggi si ricorre ai tatuaggi ritenendo che la natura vada abbellita dal momento che un mediocre demiurgo l’ha creata. Al Bartoli la critica dei barbari che privilegiano le aggiunte, il posticcio, serve a evidenziare la follia di considerare gli umani non per i talenti naturali bensì per l’artificio, per la ricchezza che si possiede. Barocco ben temperato è nel migliore dei casi l’atteggiamento dellacclamato prosatore che si dichiarò contrario a quello «stile che chiamano moderno concettoso». L’artificio comunque valeva soltanto sul piano retorico, la natura avendo un ruolo centrale in tempi di riscoperta del giusnaturalismo.

Guadagnarsi il cielo: è l’imperativo che ricchi e poveri devono rispettare. I primi, che sanno come si guadagna, che son maestri nell’arte degli affari, non si vorranno certo perdere quello che è il maggiore che possa loro capitare; i poveri, pur non possedendo il sapere dell’arricchirsi, possiedono però lo spirito paradisiaco, e privi di ingombranti ornamenti e di trippe, hanno il peso giusto, sono pronti per varcare agilmente la porta stretta.

Dopo aver spogliato i ricchi delle loro boriose vesti, dopo averne messo in risalto il carattere di maschera che nasconde più intima miseria, il predicatore ricorda come la povertà fu fatta «nobile e onorata» da Cristo, È l’originalità del cristianesimo, il suo distanziarsi da tutti i giudizi del mondo che innalzano  sempre la ricchezza. Ma stare dalla parte dei poveri non significa consigliarli affinché si arricchiscano, accarezzando la loro cupidigia nascosta o frustrata, al contrario, esaltare il distacco dalla ricchezza, favorirne la liberazione. Il valore della povertà predicava san Bernardo, non il suo superamento. Se al giorno d’oggi tale predica appare inattuale è perché il cristianesimo è quanto di più lontano dal processo di arricchimento universale e disperato che chiamiamo modernità. A furia di aggiornamenti, al messaggio evangelico, in questi ultimi cinquant’anni, hanno cambiato i connotati. La Chiesa dei poveri sembra sparita, sostituita da un’organizzazione che predica un paradiso prosaico dove tutti abbiano il loro piccolissimo benessere materiale. Il padre Bartoli costruiva una prosa straordinaria per raccontare la soavità della grazia dei poveri, della beatitudine della povertà, della «ricchezza di avere Dio».

Tutti gli uomini aspirano alla felicità, dai re ai contadini, ma tutti trovano l’inquietudine di cui parla Agostino finché non trovano Dio. Dal momento che, secondo il vangelo, i poveri per il loro stato hanno qualche chance in più di vincere tale inquietudine, scilicet di trovare Dio, i cristiani compatiscono i ricchi e non i poveri come invece è invalso fare negli ultimi tempi in ogni parrocchia dell’Occidente. La povertà contenta è qualcosa che sfugge al mondo, al discorso dei media ma, per il sermone d’antan, i poveri con gli occhi fissi al cielo credono di trovare lassù le comodità e i beni che mancano quaggiù. Ancora una volta, la concezione cattolica ha una sua doppia spazialità, il cielo e la terra che si riflettono e che si distinguono, mentre la Chiesa aggiornata conosce soltanto la dimensione temporale. Adesso ogni allusione all’Aldilà è imbarazzata, spoglia in ogni caso di dettagli, men che mai si accenna ai piaceri celestiali, così la morale è confinata sulla terra: si deve operare il bene per kantiana virtù, ove la Chiesa romana aveva sempre insegnato che una tale virtù è quanto meno chimerica… Ma che cosa resta dell’idea di Dio se la si separa dalla contemplazione della bellezza e la si confina nell’oscurità interiore? E come si può riflettere cristianamente sulla morte – e sulla povertà che ne è fenomeno, come andava dicendo l’ingegnoso gesuita – se la si separa dal trionfo celeste di Dio e dei suoi?

Procede quindi il Bartoli a un «esame delle ribalderie, e processo de’ misfatti dell’Oro». L’esame si apre con l’immagine dell’oro che pesa più della verità sulla bilancia della giustizia. In questo decimo capitolo si elencano i mali dell’oro in contrasto con il suo fulgore, l’immane dislivello che produce nella vita degli umani. Ma non sciorina i luoghi comuni degli invidiosi. Riconosce anzi che il martirologio della carne, i morti per il denaro sono forse più di quelli per il Cristo. Non ci offre spiegazioni facili. Non è semplice scrutare il cuore occupato dall’oro. Perché la felicità non segue mai l’arricchimento? – si chiede il sacerdote che appartiene all’ordine dei confessori dei re. Se il denaro spegnesse la sete…

Come per ogni buon predicatore, arriva il momento di deprecare il lusso. Dietro il suo luccichio è lo scheletro a risplendere, l’immagine barocca sinistra che svela il fondo macabro, che smonta ogni trionfo della carne. Lo sfarzo rinascimentale va confinato alla liturgia, tutto il resto è segnato da una specie di lutto, e gli umani prendono a vestirsi di nero, laici e preti. Vanità del fasto, o meglio rivelazione del trionfo della morte.

I ricchi sono «emendatori della natura», schiavi dell’artificio, i poveri al contrario si attengono al dato naturale, alla veste senza orpello, al talento che Dio distribuì misteriosamente. Uno splendore nascosto, una sprezzatura, difficile da cogliere, simile al bianco dei gigli di campo. Negli ultimi secoli c’è la pubblicità a tentare i poveri, astuta come un serpente e semplice come una colomba.

Colpo di scena al capitolo XIV, ovvero «chi sa esser Ricco e Povero, può esser Ricco e Santo». La religione cattolica non va confusa con l’ufficio delle tasse e men che mai con un soviet, non somiglia neppure a un surrogato addolcito e moderato di questi due uffici. L’oro infatti non è nocivo per natura, di esso non si faccia né idolo né demonio. Trasformato dal vangelo che ogni cosa rovescia, può divenire «strumento efficacissimo per l’acquisto di non ordinarie virtù». E si può essere «tanto più Santo quanto più Ricco». A cominciare dall’Arca santa e dai candelabri biblici che risplendevano d’oro finissimo, gli aurei rivestimenti e le pietre preziose non sono in contraddizione con la povertà cristiana, anzi diamanti e zaffiri e rubini rappresentano il simbolo delle migliori virtù. Le pietre preziose decorano il manto sacerdotale ed è meglio ricorrere ad esse per sì alto compito che «a più vile materia»: «tale è l’onore che a Cristo rende la santità dei ricchi». Molti «carati di bontà» possiede allora l’oro. Talvolta un «un abito vile», con portamenti «senza alterigia né fasto», più che «elezione di virtù» indica «necessità di impotenza». È facile del resto apparire miseri quando si è davvero miseri. Ben più impegnativo – secondo l’elegante gesuita – è «nascondere il ciliccio sotto le sete e la porpora» e «nelle pompe, nella copia d’un patrimonio reale mantenere un animo umile e dimesso; questa è virtù da gigante». Con la ricchezza dunque ci si può «comprare il cielo». Così dicendo, precisa tuttavia il Bartoli, «non vorrei aver tolto a’ Poveri l’animo, mentre l’ho dato a’ Ricchi». Tra i beati sono alla pari sia chi, essendo ricco, volle farsi povero, sia chi, essendo povero, non volle farsi ricco. Si può abbondare d’oro e non avere altro che Dio così come si può essere stoltamente poveri e non pensare ad altro che alle ricchezze mancanti e struggersi dal desiderio di esse. I ricchi possono essere i «Limosinieri di Dio» anche se la santità sarà più a portata di mano dei poveri. Infatti si è più liberi nella povertà mentre i ricchi devono fare grandi sforzi per raggiungere tale libertà.

Di ricchi  si parla anche nel capitolo successivo ma piuttosto come di «coloro che in questo teatro del mondo faceste il personaggio del ricco». Giunge poi la morte e  bisogna lasciare per forza gli abiti di scena, l’oro e i possedimenti. Non restano che lacrime per quelle cose che si è costretti a lasciare: tale è la sventura dei ricchi poco avveduti nella conclusione della vita. Qualcuno, come per esempio Enrico VIII re d’Inghilterra – racconta il gesuita – si ubriacò perché non riusciva a sopportare questa scena finale degli addii. Spesso chi visse da beato morì impoverito, dopo aver perduto cioè tutte le sue illusioni.

Più simili ai giusti sono i poveri, la loro morte appare dunque «consolata» per dover lasciare questa valle di lacrime, «non è perdita ma guadagno». Come il sole che si tuffa lieto nelle acque, sicuro di «risorgere a più bello orizzonte», i poveri conoscono un felice tramonto per «risorgere in un altro più beato emispero», dove il tempo si perde nell’eternità.

Resta il sepolcro, quello monumentale e la fossa. Ma tutta la gloria delle belle tombe non vale la speranza che aleggia sulle più umili sepolture dei poveri. Fino alla riforma liturgica prodotta dal Vaticano II, durante i funerali le bare degli aristocratici venivano poste sul nudo pavimento, mentre quelle dei comuni mortali salivano sul palco solenne, quel catafalco che rinvia alla gloria degli umani che vissero anonimamente. Un solo dettaglio liturgico del rito tradizionale compendiava il volume del nostro grandissimo prosatore, libro che dedicò nell’ultima pagina a coloro che sono straziati dal bisogno, alla milizia dei poveri cui era promesso il Regno, non un banalissimo stato garantito dai diritti sindacali.  

In tempi di inflazione della parola ‘povero’, va ricordato che la Chiesa esalta la frugalità, l’ha sempre esaltata sulla terra, anche quando esibiva le più preziose vesti liturgiche, perché la liturgia introduce al cielo, ne è un abbagliante specchio quaggiù. I ricchi non si criticano per partito preso e tantomeno per invidia che è «carie delle ossa» (Pr, 14, 30), «peccato diabolico per eccellenza», dice Agostino, vizio capitale. Né la Chiesa si cambia mai in un sindacato, attenta alle regolette dello scambio. Resistette anzi per lungo tempo al mercato e pareva un miracolo. Il lavoro è una conseguenza del peccato, una pena secondo biblica spiegazione. Misericordia invoca la sposa di Cristo, generosità reciproca nel mondo dei mortali. La Caritas sovraintende alla Catholica, e Caritas è virtù teologale: si spinge fino al sacrificio di sé. I diritti proclamati dalla Rivoluzione borghese non contemplano simili estremi; ma il rispetto per la vita, per la dignità dei non abbienti erano stati affermati da Paolo III di fonte agli spagnoli laici che consideravano gli indios dei non umani in modo da poterli fare schiavi. La Chiesa anticipava la sensibilità laica, faceva salvi gli schiavi, fa salvi i feti.  
    
Anche un pensatore che accreditano come marxista parla in modo meno sociologico di qualche successore di Pietro. Walter Benjamin in Erfahrung und Armut (Esperienza e povertà) accennerà a «un nuovo positivo concetto di barbarie». E se è talvolta ambiguo nello strizzare l’occhio alla tabula rasa delle avanguardie (e terribile risulta  nel salutare con gaudio gli arcaismi di ritorno nell’anno fatale del 1933), è toccante quando  dietro l’ambiguità della parola ‘barbarie’ vuole richiamarsi soprattutto alla povertà che titola il saggio. Vi si cita anche il Bertold Brecht ideologico che precisava come il comunismo «non sia la giusta ripartizione della ricchezza ma della povertà» (la risata cinica del drammaturgo d’Augusta suona però sinistra sugli effetti spaventosi di una tale ripartizione: carestie, antropofagia…). Benjamin in quelle quattro paginette voleva elogiare la rinuncia, pur rischiando strada facendo di sottomettersi al nichilismo, alla disumanizzazione completa: senza la promessa del Paradiso simili discorsi conducono tutti alla Einbahnstraße, alla strada a senso unico in fondo alla quale non c’è che il bianco ossario.

Abbiamo letto del diadema reale che si tramuta in capestro. Questo per bocca di un rappresentante dell’ordine più ‘cortigiano’ che ci sia mai stato (nel senso che ai gesuiti fu affidato il compito di educare i prìncipi destinati al trono e i nobili in genere), questo ripetevano gli educatori dei sovrani, finché gli stessi sovrani nei tempi moderni li allontanarono dal trono, dalle loro corti e dai loro cuori,  chiedendo a un papa debole lo scioglimento della Compagnia. Allora, scrisse Dostoevskij, i gesuiti si sarebbero schierati, come per vendetta storica, con i popoli ribelli, e in qualche modo vide giusto. Forse sulla sua scia, Thomas Mann, nella Montagna incantata, schizzò la figura di Leo Naphta, gesuita e rivoluzionario invaghito del terrorismo, con le fattezze di Lukács.  E il filosofo ungherese, del resto, il giovane Lukács, aveva parlato – prima di farsi apostolo della ‘scienza’ staliniana –  di «povertà nuovamente ricca e beata».