venerdì 29 gennaio 2010

minima / Sudiciume politico

Mani sporchissime sulla città. Inquinamento visivo. Umiliazione di chi cammina guardandosi intorno. Ricominciano i mesi strazianti in cui gli orribili faccioni elettorali vengono appiccicati senza alcuna remora sui muri della città eterna. Insudiciare i palazzi rinascimentali o gli edifici Novecento, le fontane o le chiese, per presentarsi ai potenziali votanti, è pratica assai impudente. I mandanti di simile carognata sono rintracciabili nei partiti d’ogni coalizione e firmano con nome e cognome, riducendo la democrazia a un inguacchiamento. Nessuno li arresta. Tentano magari di nascondere così l’inverosimiglianza delle due candidate per la carica suprema. Agli elettori di sinistra propongono infatti una signora Thatcher de’ noantri, una liberista spietata, una privatizzatrice da far paura; ai cattolici una patita di aborto ed eutanasia, un’anticlericale d’altri tempi; al popolo del centro-destra una sindacalista che recentemente stava per esser candidata nel massimo partito di sinistra, nella fattispecie poi quella che imbratta maggiormente. Un testa a testa per occupare la poltrona di un governatore cocainomane dichiarato e dimissionario.
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mercoledì 27 gennaio 2010

minima / La memoria eterna

La fragilità umana è tale che basta un ‘irrefrenabile’ desiderio per inventare le migliori giustificazioni alle peggiori scelleratezze, fino a far male alla carne della propria carne e imporre per un qualche incapricciamento lacerazioni e frantumazioni nella famiglia che si è creata, o addirittura a sopprimere quel che una madre porta dentro di sé, solo per mantenere una mediocre felicità. Figuriamoci che cosa si può escogitare per gli altri, per gli estranei che si intromettono nella nostra vita. Temiamo perciò che nessuna ‘giornata della memoria’ si sottragga all’oblio che tutto cancella nel corso del tempo; che nessuna lezione di etica laica, impartita a scuola o in televisione, impedisca che la nostra mente metta a punto una teoria perversa per occultare ancora una volta gli egoismi sempre ribollenti.
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Chi difende oggi Israele dalle minacce del tiranno iraniano? Forse i discorsi untuosi dei molti rètori sugli ebrei morti mezzo secolo fa? Rimettere in scena l’«indicibile», e con i mezzi più corrivi dell’entertainment, risarcirà una sola vittima? Il luogo comune mediatico, pur con le migliori intenzioni, è forse capace di cambiare miracolosamente la natura umana?

Certa è oggi e fino alla fine dei tempi la parola divina del Libro degli ebrei e dei cristiani. La memoria vivente al di là della storia. La stupidità delle creature ha complicato le relazioni tra i figli di uno stesso Creatore, con non poco odio e altre ignominie umane molto umane tra i parenti di Abramo, ma è difficile sostenere un antisemitismo sensato tra i cristiani che hanno scelto per loro liberatore un figlio di Israele e credono che un ebreo sia addirittura il loro Dio, tra lo scandalo dei fedeli alle antiche scritture che gridano alla bestemmia.
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Nella messa di oggi, le letture sono centrate sul secondo Libro di Samuele (8-17), nel cuore della liturgia resta il mistero di Israele: «Ora dunque riferirai al mio servo Davide: ‘Così dice il Signore degli eserciti: Io ti presi dai pascoli, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi il capo d’Israele mio popolo; sono stato con te dovunque sei andato; anche per il futuro distruggerò davanti a te tutti i tuoi nemici e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo a Israele mio popolo e ve lo pianterò perché abiti in casa sua e non sia più agitato e gli iniqui non lo opprimano come in passato, al tempo in cui avevo stabilito i Giudici sul mio popolo Israele e gli darò riposo liberandolo da tutti i suoi nemici. Te poi il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio. Se farà il male, lo castigherò con verga d’uomo e con i colpi che danno i figli d’uomo, ma non ritirerò da lui il mio favore, come l’ho ritirato da Saul, che ho rimosso dal trono dinanzi a te. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre’. Natan parlò a Davide con tutte queste parole e secondo questa visione».

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sabato 23 gennaio 2010

L'odio del bello

~ UN ALTRO FRANCESE CHE PRESE MOLTO SUL SERIO LA STUPIDITÀ DEL «CONTEMPORANEO», ATTACCANDO LA DISINTEGRAZIONE DEL SENSO. ~ CORNELIUS CASTORIADIS, MILITANTE DI SINISTRA, ATEO, EPPURE TURBATO DAL MARCHIO DEL BRUTTO SUL NOSTRO MONDO ~

Si apre un libro di un pensatore già dimenticato, Cornelius Castoriadis (greco di Costantinopoli, trapiantato a Parigi, 1922-1995), attratti da un suo titolo: La montée de l’insignifiance, saggi sparsi che meditano sul «letargo del contemporaneo», e si ritrova un altro pezzo della critica francese agli idoletti del nostro tempo, una corrente quasi segreta ormai, messa in ombra da quelle star mediatiche che avevano fatto morire l’uomo, il soggetto, il significato, la storia, i vari Barthes, Foucault, Derrida, Althusser. Quest’ultimo, invece di studiare quel che accadeva in Russia, si rintanava a leggere il Capitale, scriveva il Costantinopolitano beffardo. Veleni diffusi all’interno della sinistra?

Eccentrico militante politico, filosofo, psicoanalista, marxista sui generis, e già negli anni Quaranta contro il ‘socialismo realizzato’ dei sovietici, Castoriadis si distinse ben presto anche dai comunisti trotzkisti, assimilati agli altri nelle intenzioni benché senza potere. Ma ancora più singolare fu la sua decisione di sciogliere la rivista e omonima micro-organizzazione, «Socialisme ou Barbarie», antesignana di tutte le sette eretiche del gauchisme, nel 1967, alla vigilia dell’anno fatale, con la motivazione che l’epoca della sinistra volgeva al termine. Errore risibile di fronte alla marea della politicizzazione forzata degli ultimi Sessanta? O intuizione che quel gran vociare un po’ coatto era già il frutto di un sistema economico-tecnologico occidentale? Fin dagli anni Cinquanta aveva affermato: «nelle società del capitalismo moderno, l’attività politica propriamente detta tende a scomparire».

Su un punto lui e i suoi compagni ammettevano di «essersi ingannati»: aver creduto che le lotte operaie in Occidente, per usare i termini di allora, potessero andare oltre il conflitto salariale e incidere sui rapporti capitalistici, cambiando dunque il sistema sociale. Si accorse invece che la «privatizzazione delle masse» – interessante espressione – presentava un nuovo fenomeno: i giovani che si erano avvicinati alla loro rivista speravano soprattutto di «uscire dall’isolamento» al quale il sistema sociale «condanna gli individui». Una faccenda esistenziale. I movimenti impetuosi dell’anno seguente potevano perciò essere considerati come l’esplosione delle masse «privatizzate», della comunità infranta, della solitudine estrema, che faceva accorrere festanti folle di giovani convinti di aver dato vita a una comunità su scala parigina, immensa e attiva nei giorni del Maggio, a una tumultuosa parasceve. Lo psicoanalista che si distaccherà via via da Freud scriveva di «ossessione settaria, delirio isterico pseudo-attivista, delirio di interpretazione» dei primi «gruppi di estrema sinistra».

Lasciò da parte il marxismo mentre i Sartre affermavano essere la «filosofia insuperabile del nostro tempo». Quindi fu la volta del freudismo. Andando indietro con la memoria, mostrava ancora stupore per il fatto che venissero considerati «rivoluzionari» gli anni e i movimenti che si rifacevano al «potere totalitario dei Mao». Neppure quell’imbarazzo, quel pudore che si riscontrò negli ex-fascisti, bensì un allegro vanto, un’innocenza perennemente puerile.

Sul «folclore» della trasgressione politico-sociale parlava vedendo molto lontano, il nostro presente, il linguaggio della letteratura trendy e vittimista: «la devianza non è mai stata rivoluzionaria, oggi non è più neppure devianza, semplicemente negativo che serve alla ‘pubblicità’ culturale». Con minore burbanza del discorso francese, Arbasino metteva in scena la Casalinga di Voghera che, raggiunta da questa ‘pubblicità culturale’, «si scatena nelle frasi più fatte della provocazione e della trasgressione: controcorrente e fuori dal coro – come tutti – irriverente e dissacrante…».

Nel testo con cui «Socialisme ou Barbarie» si autodissolse (rintracciabile nel web come molti scritti di Castoriadis) si parlava dei saperi marxiani e freudiani che […] ridiventano ogni giorno fonte di nuove mistificazioni». Perciò lui e i suoi mettevano da parte la prassi e si dedicavano allo studio, aspettando tempi più favorevoli alle loro credenza rivoluzionarie. Ma attese a parte, quel che conta sono le analisi, peraltro incredibilmente sintetiche rispetto ai verbosi intellettuali normaliens del tempo.

Tra le macerie del museismo

«Il progresso è un significato immaginario essenzialmente capitalistico, dal quale lo stesso Marx si è lasciato prendere», notava. La centralità del Logos ebraico-cristiano si era intanto trasformata in fede progressista, progresso monetizzato nell’espressione «innalzamento del livello di vita». Per mantenere ardente questa credenza si dovette velare il dettaglio storico non piccolo che la vittoria sul nazismo era stata accompagnata dalla conquista di mezza Europa da parte delle truppe staliniane, pronte a imporre una nuova schiavitù. Così andava dicendo, pressoché isolato nell’entusiasmo parigino per le magnifiche sorti dell’umanità, lontano vieppiù dal marxismo e da ogni forma di progressismo. Un conservatore di sinistra? Un rivoluzionario conservatore?

Ammetteva che i movimenti – giovanili, femminili, etnici, ambientali – hanno «cambiato il mondo occidentale» ma, aggiungeva subito, «lo hanno reso meno vivibile ancora». La litania di sinistra dovrebbe tener sempre presente un simile controcanto. Questi movimenti – spiegava – si limitarono alla distruzione, mai offrendo un progetto in positivo. Ne derivarono la disintegrazione dei ruoli tradizionali nella famiglia, l’impoverimento della istituzione scolastica. Uscendo allora da un famiglia debole e da una scuola che non sa più che cosa insegnare, il giovane individuo si trova davanti, in luogo delle norme, l’imperante consumo.«Né religione, né idee ‘politiche’, né solidarietà sociale con una comunità locale o di lavoro, con i ‘compagni di classe’». Se non si marginalizza per droga o delinquenza, «gli resta la via regale della privatizzazione» nella società delle lobbies e degli hobbies. Disorientato dunque da tanta anomia, l’individuo che ne deriva è «perpetuamente distratto, costretto a fare zapping da un ‘piacere’ all’altro, senza memoria e senza progetto, pronto a rispondere a ogni sollecitazione della macchina economica».

«Il sistema educativo classico si nutriva dell’‘alto’, della cultura viva della sua epoca. Per sua disgrazia, è anche il caso del sistema educativo contemporaneo. Così questa cultura è sempre più un mescolamento di impostura ‘modernista’ e di museismo». Già, perché «è un bel pezzo che il ‘modernismo’ è divenuto un vecchiume». Sono ammessi plagi delle prime avanguardie grazie al neo-analfabetismo del pubblico. Mentre «la cultura del passato non vive più in una tradizione, diventa oggetto di sapere museale e di curiosità mondane e turistiche regolate dalle mode». Pian piano, la storia, il commento e l’interpretazione prendono il posto del pensiero che crea, nonostante l’abuso di termini come creativo e artista. Basta sfogliare i mastodontici cataloghi delle mostre o le didascalie dei musei: acidi appunti di maestrine senza fantasia.

Quantomeno la società attuale non sa autorappresentarsi, sono entrati in crisi i «significati immaginari sociali», non c’è più un equilibrio che renda vivibile l’esistenza degli individui. Le società del passato – precisava – non rendevano felici i propri membri, ma possedevano almeno un senso. Oggi dalle «masse privatizzate» la società viene vissuta come una imposizione alla quale imputare tutti i mali del mondo chiedendole al contempo tutti gli aiuti possibili.

Una volta, di fronte alle solite recensioni acclamanti per un qualche vezzo i libri di sprovveduti, scrisse una lettera al «Nouvel Observateur» dove tra l’altro affermava: «Nella ‘Repubblica delle Lettere’, vi sono – vi erano prima dell’ascesa degli impostori – dei costumi, delle regole e degli standards. Se qualcuno non li rispetta, spetta agli altri di richiamarli all’ordine e di mettere in guardia il pubblico. Se questo non avviene, lo si sa da lunga data, la demagogia incontrollata conduce alla tirannide. Essa genera la distruzione – che progredisce davanti ai nostri occhi – delle norme e dei comportamenti». Proviamo a sostituire ‘Repubblica delle Lettere’ con ‘Repubblica delle Arti’: c’è qualcosa che vi suona familiare? E nell’‘innocente’ gioco delle parodie e dello scherzo, come non trovarvi i rischi verso cui mette in guardia l’austero Greco: «Non levarsi contro l’impostura, non denunciarla, significa rendersi corresponsabile della sua eventuale vittoria. Più insidiosa, l’impostura pubblicitaria non è, sul lungo periodo, meno pericolosa dell’impostura totalitaria. Con mezzi differenti, l’una e l’altra distruggono l’esistenza di uno spazio pubblico del pensiero, del confronto, della critica reciproca…». La censura tanto paventata è sempre in vigore, prepotente quanto più subdola: perché viene avvolto nel silenzio tutto ciò che non si piega alla moda imperante e alla divulgazione, alla faciloneria. «Il pudore è un’evidente virtù sociale e politica: senza pudore non c’è democrazia. (Nelle Leggi, Platone vedeva molto giustamente che la democrazia ateniese aveva fatto meraviglie per tutto il tempo in cui il pudore, l’aidôs, vi regnava). In queste materie, l’assenza di pudore è ipso facto disprezzo dell’altro e del pubblico». D’accordo, qua e là si affaccia il vecchio spirito giacobino, ma un Robespierre pudico nelle proprie virtù non è minaccioso.

Sapeva pure rendersi conto che se un Breznev sembrava avere un’autorità per forza di inerzia, Reagan possedeva di nuovo l’autorità carismatica di cui parlava Weber, benché ridotto a un «talento particolare di una specie di attore che gioca il ruolo di ‘capo’ e di ‘uomo di Stato’». Scopriva insomma che in Occidente, magari in forma quasi mimetica del grande carisma, il politico tentava di uscire dalla routine burocratica. Erano gli anni in cui la tragica definizione schmittiana «Sovrano è chi decide lo stato di emergenza», la kierkegaardiana Grenzsituation, il caso limite, diventavano qui da noi slogan per la mitologia del fantasioso socialismo lombardo (senza maggioranza e senza popolo) e teoria confusa per tardo-operaisti machiavellici, che dovevano aver dimenticato le insolenze di Schmitt per il «romanticismo politico». Di quel ‘decisionismo’ nell’epoca della fine della politica, Castoriadis riusciva almeno a cogliere l’aspetto parodistico.

Nell’Ottantanove, poco prima del crollo del Muro, sposterà sempre più l’attenzione dall’Est all’Ovest, alla crisi profonda dell’Occidente. Di nuovo un errore di prospettiva? Piuttosto che ridurlo a un teorico fuori orario, sarà meglio considerarlo un pensatore che avverte le novità del mondo in maniera meno piatta dell’opinione pubblica e della intelligencija francese. Il Greco conosce bene la parola densa della sua lingua, Kairos, il tempo opportuno, il tempo cruciale, con una valenza teologica quindi, il tempo della manifestazione divina, la benjaminiana Jetztzeit, il tempo-ora, il qui e subito. Fu forse la sua unica concessione esplicita all’aspetto religioso.

Chi è il critico contemporaneo?

Provò ad abbozzare un’analisi della cultura dei quasi analfabeti, ovvero quella contemporanea, alla moda: molto chiasso, frizzi e lazzi, polemiche misere, totale ignoranza del passato, ripetizione ad libitum di frasi fatte, incapacità di scrivere con una sintassi aguzza, organizzazione capillare del proprio lavoretto in modo che i lettori ripetano a loro volta le piccolissime verità o non-verità con un discreto entusiasmo…

Nonostante tanto civettare con gli echi della storia dei post d’ogni sorta, si registra la «più perfetta estraneità verso il passato»: questa la vera novità dei nostri giorni.

Il saccheggio del passato a opera del post-moderno lo tratteggiava così: «l’avanzata dell’eclettismo, del collage, del sincretismo invertebrato, e soprattutto la perdita dell’oggetto, la perdita del senso» procedono «di pari passo con l’abbandono della ricerca delle forme» (questa e le successive citazioni sono tratte da una raccolta di saggi di Castoriadis tradotta in italiano: Finestra sul caos, Elèuthera, Milano, 2007).

Di fronte all’«apparente esaurimento della creatività occidentale», lui non si arrendeva. Il ridicolo di certi salottinetti, tinelli anche virtuali, dove un po’ sgomenti si dibatte a vuoto sulla crisi dell’arte senza rinunciare ai cliché sul contemporaneo, la resa alla non-arte, l’odio per la bellezza comunque mascherato o la deformazione della bellezza comunque giustificata: Castoriadis insiste all’opposto sull’assurdità di porre limiti storici alla vis formandi, ovvero sull'assurdità dei precetti ideati dagli addetti al business culturale: non si può più dipingere, scolpire, ecc. (E guai se un politico cerca di arginare con buone intenzioni lo strapotere del mercato – tanto per scivolare nelle piccole vicende di casa – , incaricando un pubblico funzionario di mettere un qualche confine: subito gli si chiederanno le credenziali, i titoli, le specializzazioni negli inganni che il mercato stesso ha inventato e teso.)

Quanto ai vituperi che si usa lanciare contro la nostra civiltà, questo strano militante di sinistra si tenne lontano dalla pratica corrente della lapidazione concettuale. La cultura occidentale sarà stata pure quella capitalistica, imperialistica, colonialistica, ma – Castoriadis si diceva convinto – era pure molto altro. René Girard – che comunque non si trovò granché d’accordo con lui nei rari incontri pubblici – ha insistito sul fatto che noi occidentali, noi europei siamo etnocentrici come tutti gli altri ma attraverso «una passione per l’autocritica» riusciamo a essere anche il nostro opposto, anche il nostro nemico. Unici. Per merito della cultura ebraico-cristiana. Da quella stessa cultura, però, può derivare un «conformismo in negativo», la genuflessione verso tutti gli altri, il rifiuto dell’eredità, l’abbandono della nostra eleganza di pensiero. Del resto, si osservi un esempio ricorrente: se ho nostalgia delle formule liturgiche in latino sono un reazionario, un bieco codino; se gli zingari vivono e vogliono far vivere i loro figli in un nomadismo del peggior medioevo (almeno secondo quanto se lo immaginano i progressisti), vanno rispettati come una nobile cultura dissenziente.

In un mondo così, difficile creare arte, non «prodotti culturali» – diceva – che sempre si accumulano nei depositi delle industrie operanti in tale settore; difficile fare libri e non «oggetti a perdere». Nel supplemento del «Sole-24 Ore», omelie domenicali della sinistra imprenditoriale, il 17 gennaio scorso, si poteva leggere a pagina 2, un colonnino insolito, quasi un’eco di questa condanna della produzione industriale di libri spacciata per ‘cultura’: ««uno degli equivoci più diffusi sulla nozione di cultura è che sia di per sé un valore garantito». Invece, «ciò che troviamo e ci viene offerto in una mostra, in una libreria, in un concerto, non è cultura se non quando pronunciamo un giudizio compiendo delle scelte». Ma per i più basta la parola: cultura, il feticcio agitato, custodito nei musei come in un tempio della magia povera, simile a quella che turlupina i vecchi in televisione. «Non c’è cultura se non c’è critica. Nei casi in cui la capacità valutativa si indebolisce oltre un certo limite, la cultura si trasforma in un puro settore merceologico».

La critica ha la sua responsabilità. La stampa, a sua volta, «si inventa genî fittizi» e «ha distrutto la funzione critica». «A una prima approssimazione, la critica contemporanea è nulla». Articolando quindi il giudizio sprezzante: «quella che viene fatta passare per critica è promozione commerciale, cosa del resto assolutamente giustificata, data la natura del prodotto che si tratta di vendere». Ma per pudore, invece di promozione e pubblicità la si chiama con l’anodino termine di informazione. E già nel 1979 spiegava il meccanismo che, certo, a Parigi doveva risultare più chiaro che a Roma: la critica/réclame «porta alle stelle qualsiasi prodotto di moda nella stagione e per il resto non disapprova niente, tace, seppellisce sotto il silenzio». Perché è convinta che «all’inizio le grandi opere sono quasi sempre incomprensibili e inaccettabili», e quindi «non osa mai criticare». Maledetto presupposto di una teologia animistica che blocca la reazione normale del pubblico, che fa battere il petto ai vescovi, ai professori, a tutti. Perciò i critici sono incerti per scarso sapere, intimiditi, mediocri insomma. Perciò Castoriadis conclude con una battuta diventata famosa tra i suoi lettori: «il mestiere di critico contemporaneo è identico a quello di operatore di Borsa: indovinare ciò che l’opinione media pensa che l’opinione media penserà».

Ancora l’eco nell’articolo sul «Sole-24 Ore»: «il punto di maggiore debolezza nella cultura occidentale negli ultimi due o tre decenni è il declino della critica, sia letteraria sia artistica». Senza i limiti del giudizio si arriva al punto in cui «fare arte appare come un diritto aprioristico degli autori, come un valore da riconoscere a posteriori». Pare inopportuno «esprimere valutazioni». Anche per la filosofia, piuttosto che dibattiti, i festival in cui si sfila in passerella.

Si evoca Baudrillard, e al suo seguito si accorgono in molti che le forme avanguardistiche sono la migliore réclame delle merci. Castoriadis va oltre, mette in evidenza «la massimizzazione avanguardistica del consumo». Quello che chiamiamo il «contemporaneo» è un’arte di vendere il nulla o quasi, una tecnica spesso abilissima di vendere qualsiasi cosa, anche la più irritante. «Quanto tempo questa umanità resterà ossessionata dalle inanità e le illusioni chiamate merce?» si chiedeva sconsolato Castoriadis.

Da queste poche citazioni si capisce bene come egli fosse un filosofo assai severo, che non sembrava possedere quelle qualità mediterranee di «lusso, calma, voluttà», forse anche per il dressage marxista e freudiano, e come si presentasse alla ricerca di senso quasi si trattasse della ricerca di Dio, benché ateo convinto, con il gusto stoico dell’eroismo. Se l’opera non dura, non ci sopravvive, non resta che ricorrere ai sonniferi per vivere, concludeva.

L’arte atea

La domanda essenziale se la ripeteva spesso: «può esistere la creazione di un’opera in una società che non crede a niente?». Un bel problema. Hegel aveva già detto: « è Dio, è l’ideale che costituisce il centro. Non esiste bello o vera arte che non si caratterizzi per l’adeguamento del sensibile alla verità divina. E quando ciò non è più possibile, come accade oggi, non esiste più arte». Perfino questo annuncio della ‘morte dell’arte’ era stato camuffato da questioni soggettive, da capricciose scelte dell’artista.

Quello che Castoriadis chiama la vis formandi, pur nascendo dal caos assoluto, dalla mancanza di fondamenti, dalla sua visione ‘atea’, dà poi vita alla creatività umana, non si crogiola nell’informe, bensì appunto organizza la forma, con qualche apparentamento divino.

La sublimazione, diceva, correggendo a suo modo Freud, è la rinuncia al piacere organico, perfino al piacere della rappresentazione privata, per investire in qualcosa che abbia un significato sociale, sosteneva il vecchio militante in modo da salvare così l’agire dell’uomo religioso e dell’artista che si spingono a ricostituire l’unità dell’essere. Il simbolico e l’immaginario non si limitano, come riteneva Marx, a «rivestire» il funzionale, hanno invece un ruolo specifico nel dare senso al nostro mondo. Ecco la fulminante definizione: «La grande arte mentre dà forma al caos lo disvela e, nello stesso tempo, crea un cosmo»

Si cancella la memoria del passato, si realizza la tabula rasa invocata dagli avanguardisti. Ma poi, in luogo della «memoria viva», si allestisce una «memoria morta ipertrofica», le biblioteche, i musei, le banche-dati, ecc. Ne valeva la pena?

Come può esserci nuovo se non c’è tradizione viva alla quale reagire in modo dialettico? Come non finire nell’orpello se appunto l’arte non trova nella società alcun valore su cui appoggiarsi? Si ripiega sul denaro, si potrebbe rispondere.

«Dove non c’è presente – sosteneva – non c’è neppure passato. Il giornalismo contemporaneo inventa ogni trimestre un nuovo genio o una nuova ‘rivoluzione’ in questo o quel campo. Sono espedienti commerciali efficaci per far funzionare l’industria culturale, ma non sono in grado di nascondere un fatto lampante»: la cultura contemporanea non esiste. Naturalmente a una simile affermazione si scateneranno i luogocomunisti: il fatto di denominarla così è già una prova dell’esistenza di una tale cultura anche se non somiglia a quella che il nostalgico vorrebbe; hic Rhodus hic salta, dice il solito bonario di sinistra travestito per l’occasione da cinico splengleriano. Sofismi smentiti dal nostro cattivo umore: non esiste, non esiste.

«La maggior parte della letteratura attuale si contorce su se stessa per inventare nuove forme quando non ha più niente da dire, né di nuovo né di vecchio; quando il pubblico l’applaude, bisogna capire che sta applaudendo a un numero di contorsionisti». Se così fosse sarebbe tutto sommato uno sforzo lodevole, circense magari, ma degno di un plauso. Si può battere le mani però a un esercizio annoiato e vagamente aggressivo?

Tutte le arti di oggi gli apparivano insopportabili: «Quando si osservano le realizzazioni dell’architettura contemporanea, una soddisfazione c’è: si può pensare che se non cadranno in rovina nel giro di trent’anni, saranno comunque demolite in quanto obsolete».

«Società che non hanno creato niente di bello»: i peggiori regimi lasciavano trapelare anche nell’arte ufficiale qualche barlume di bello. Perciò il marchio del brutto, così diffuso nel nostro mondo, appare inquietante. E non è vero – diceva acutamente – che la faccenda nei sistemi totalitari riguardi la mancanza di libertà. In Stati del passato assai poco costituzionali si ebbero dei capolavori cui ci inchiniamo. Erano i tiranni a rivestire i panni dei committenti, con richieste precise, in onore dell’ordine stabilito e del suo sovrano. Perché oggi nel liberissimo Occidente mancano allora i capolavori? Perché l’artista creava per la credenza della società e lui stesso vi credeva, sostiene Castoriadis. Ma al cretinismo imperante nell’Urss nessuno sembrava prestare fede. Così come nel laicismo approntato dai nostri dottorini sottili nessuno può credere davvero, trattasi di uno sciocchezzaio scettico e basta. Infatti non c’è più arte o quasi. Purché non si confonda la «forma perfetta per il caos» con la feticizzazione del caos, con la sua celebrazione disordinata.

La malinconia degli atei

Di tanto in tanto conservatore con un animo anarchico, con una memoria di frequentazioni sovversive, lasciandosi andare alle frasi fatte su immigrati e poveri del mondo, riuscendo peraltro in altri momenti a distinguere egregiamente. Espone bene il vuoto della società occidentale, mascherato male dalla «mistificazione scientista», si rende conto della necessità di un controllo («stavolta non ecclesiastico») della ricerca scientifica onde tenere a bada la disumana hybris, scorge la fede nella tecnologia, nella sua onnipotenza, e la attribuisce alla paura della morte, ma poi ostile alla religione, meglio, convinto dei suoi presunti inganni, cui l’essere umano e l’intera società dovrebbero emanciparsi, è costretto ad accettare la morte. Più coerentemente di certi atei giulivi, predica che «un essere non può vantare la propria autonomia se non ha accettato la propria mortalità». All’insegna della morte si afferma la lunga e radicale emancipazione umana. Senza illusioni e senza religione, questi piccoli atleti dello stoicismo di sinistra si rivolgono a un’umanità che non può seguirli. Vediamo allora il Franco-Bizantino che seppe dir di no agli stalinismi di varia natura, che non si lasciò abbagliare dalle ideologie e dalle mode, né dagli inganni ottici della storia, ripiegare su un’arte che rimpiazza la religione e consola di una vita nella speranza, sempre frustrata, di cambiamenti politici del mondo: «la grande arte – dirà in una celebre intervista – è sia una finestra della società sul caos, sia la forma data a questo caos (laddove la religione è la finestra verso questo caos, e la maschera posta sul caos)». Affannate metafore, sempre una maschera o quantomeno un velo sarà pure l’arte di fronte alla flagranza esistenziale. Ma l’onesto pensatore arriva a credere che «l’arte è una forma che non maschera nulla». L’arte sarà un discorso veritiero, un monito severo che rimette in discussione il mondo, una terribile lezione in forma di seminario dal quale si esce cambiati e pronti a cambiare il mondo. Difficile concezione dell’arte per poterla coniugare ancora con la democrazia, anzi per trasformarla nella coscienza pubblica, invocando un Shakespeare che si fa «garante del senso» senza mai, a suo dire, ricorrere a Dio. Torna all’orecchio Mensonge romantique et vérité romanesque di René Girard, che pur accettando la verità (nascosta) dei romanzieri mostra altresì le menzogne romantiche.

La parola d’ordine conclusiva di Castoriadis sembra essere «autolimitazione», frutto di un’etica frugrale. Il vecchio rivoluzionario arriva a una conclusione che evita ormai ogni insubordinazione: l’ordine, la disciplina, la regola sono gli antidoti dell’hybris. L’anarchico si fa anarca, senza le jüngeriane virtù però, e immagina una comunità planetaria di autarchici, poco realistica. Ateismo e sobrietà. Oppure, in altri momenti, concepisce «una immensa istituzione educativa o autoeducativa», che fa pensare all’ormai lontano socialismo dei maestri di scuola. Se sa destreggiarsi senza scivolare nelle trivialità di un mondo dove sono tutti artisti, che è quello iperconsumistico delle false scelte nelle voghe imperanti, costretto dal suo ultrademocraticismo, approda a una comunità dove son tutti ‘creativi’, dove «tutti gli individui siano aperti alla creazione», si spera senza per questo ricadere nel ‘museismo’ di cui altrove Castoriadis lamentava l’onnipotenza nella cultura di oggi. Eppure sarebbe fare un torto al suo rigore se si riducesse alla farsa degli artistoidi di massa, dei corsi di creatività, dell’arte-terapia, le sue aspettative in questo campo. In realtà, quello che sottolinea con forza è l’esigenza delle grandi opere, proprio quelle negate dalla vulgata contemporanea. Giustamente relega la questione del «genio misconosciuto» nel solo periodo della fine Ottocento, un fenomeno limitato che viene agitato terroristicamente per tutto il secolo passato e per il nostro in modo da garantire a ogni sfizio la sua legittimità, temendo uomini e istituzioni di commettere il peccato mortale della società moderna: non accorgersi della genialità di qualcuno, come dire, nei secoli passati, della grazia e della santità. Castoriadis tende invece a limitare le figure di ‘geni nascosti’ a causa della sua concezione dell’opera come riflesso collettivo, espressione della società. Così l’avanguardia è il segno di una società divisa, malata, tra una cultura «pompiere», borghese, e una che si risolve nell’épater le bourgeois. E contrappone un po’ ingenuamente tale scissione proprio alla musica di Bach che avrebbe ottenuto il consenso del «popolo» addirittura. Gratta tra i fondamentali della sinistra onesta e generosa: rispunteranno le vecchie credenze romantiche.

Per quanto riguarda questa insistenza sulla necessità di accettare la propria finitudine – la malinconia degli atei, avrebbe detto Lorenzo Magalotti – Castoriadis teneva a precisare che la differenza con il pessimismo lugubre degli heideggeriani e dei decostruzionisti sarebbe stata nella «passività» di questi versus l’attivismo predicato dall’ex marxista. Nulla si può dire del nostro oggi, secondo questi filosofi, perché tutto è stato detto, quindi – insinuava il loro critico – non si possono esigere spiegazioni, né della società né dei suoi prodotti. Se un racconto vale un altro, insisteva contro il relativismo di Derrida e dei suoi esegeti, «in nome di cosa condannare il ‘racconto’ hitleriano e quel che esso comporta?». Il post-modernismo, concludeva, era «l’espressione più cinica del rifiuto (o dell’incapacità) di mettere in questione la società attuale». E pensare che quel che resta della sinistra italiana si genuflette davanti alla parolina che ci separa dal passato, forse sperando di cancellare sogni e colpe che a quel passato appartengono; lei l’apriti-sesamo delle sue pagine culturali, dei suoi abbozzi di teoria, del suo pensiero, lei che sparge un funereo velo sull’intera realtà: post.
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lunedì 18 gennaio 2010

minima / La morte delle palme

La «peste rossa» viene dalla Sicilia. Le prime palme si ammalarono laggiù, morendo a migliaia già qualche anno fa. Ma l’allarme non ha avuto alcuna particolare risonanza. Risalendo la penisola, il punteruolo rosso, il micidiale parassita asiatico frutto della globalizzazione selvaggia, è sbarcato nel Lazio, cambiando i connotati ai paesaggi marini raffigurati da pittori e incisori dell’Ottocento. La scorsa estate si vedevano gli effetti delle stragi al Circeo. Si sperava che l’intervento pubblico bloccasse l’epidemia prima che raggiungesse la capitale. Ma le istituzioni regionali son rimaste pressoché indifferenti, denunciava il «Corriere della Sera». Così adesso anche nella città eterna si presenta la scena desolante delle chiome afflosciate, dei rami secchi, dei tronchi decapitati. Tra poco, annunciano autorevoli esperti, spariranno le palme di Trinità dei Monti e di Villa Torlonia. Nel giro di pochi anni anzi le palme saranno cancellate dalla città. È impressionante il fatto che l’opinione pubblica discuta ossessivamente della bufala sul clima e non si spaventi all’idea che il panorama di Roma stia cambiando davanti ai nostri occhi. È bastata una passeggiata domenicale per accorgersi che l’epidemia ha toccato il centro storico e uccide al Colle Oppio, nella piranesiana piazza dei Cavalieri di Malta, a Villa Celimontana e a piazza Cavour dove il palmeto era già stato decimato dai lavori per la metropolitana. Nulla sarà più come prima, almeno per quanto riguarda la vita nostra e dei nostri figli; qualcuno già scatta le foto per i posteri. Questo sì è un vero evento culturale benché negativo. La politica però discute d’altro, anche quella che si pretende ‘verde’. Nessuno si scompone per l’immagine della città straziata (l’iconoclastia corrompe i cuori). Forse la proposta avanzata dal rabbino capo nell’incontro di ieri con il papa, tra linguaggi invero più da funzionari Onu che da religiosi, è una delle poche considerazioni che suona opportuna, anche perché ricorre a espressioni profetiche: «Bisogna ricordare che nella Bibbia ebraica non compare mai la parola natura, come cosa indipendente, ma solo il concetto di creato e creatura. Siamo tutte creature, dalle pietre agli esseri umani. […]Possiamo per questo condividere un progetto di ecologia non idolatrica».
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domenica 17 gennaio 2010

minima / Circondati dai pagani

Ma ci pensate, una buona parte dei figlietti della cosiddetta borghesia italiana si addormenta e si sveglia senza conforto alcuno di fronte all’enigma della vita e della morte, senza mai fantasticare sui giardini paradisiaci, con l’unica compagnia dei mostrini televisivi ancora negli occhi, con i tabù di padri e madri pur loquaci e amiconi, au pair nei trastulli e passatempi, che tacciono però sull’essenziale, così severi in etiche immotivate impartite anche ai più piccini, duramente insensate nel loro cinico fair play. La solitudine dei bambini. Oggi si incontrano il successore di Pietro e il capo religioso di quella comunità da cui i cristiani derivano. Il primo conosce bene i fallimenti della missione evangelica tra grandi e piccoli, il secondo si accontenta dei suoi ma sa che i suoi diminuiscono ogni giorno che passa mentre crescono gli ignari del Tempio e delle leggi mosaiche. In tali circostanze, parlare di interpretazioni storiche e di archivi, benché riguardino fatti luttuosi, è fuori luogo. Perfino un dialogo teologico suonerebbero accademico. In quel ghetto dove gli ebrei e i cristiani, confusi dagli storici romani, se ne stavano attorniati dai pagani, perseguitati dal mondo, le due guide preghino il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù, spiazzando gli esperti in giochi diplomatici e gli occhiuti giornalisti di periodici ‘laici’. Preghino per i morti e per chi, ancora vivo, non conosce la consolazione di Dio.
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mercoledì 13 gennaio 2010


minima / «Conosce Ratzinger?»

Lo straordinario spirito critico – non necessariamente la Kulturkritik – che ha da sempre caratterizzato il popolo ebraico fa sperare che nell’incontro di domenica con il papa i luoghi comuni su Pio XII siano evitati. Li si lasci ai cristiani (protestanti) progressisti come quel Rof Hochhuth, sceneggiatore televisivo che cercò la notorietà gettando fango sul Pastor Angelicus. Ci si ricordi invece dei più illustri figli di Israele, dallo scrittore Joseph Roth, che vedeva in papa Pacelli l’unico difensore del popolo ebraico, alla condottiera Golda Meir che seppe testimoniare: «Durante il decennio del terrore nazista, il nostro popolo ha subito un martirio terribile. La voce del papa si è alzata per condannare i persecutori e per invocare pietà per le vittime». Che risuonino le parole del «Messaggio di Natale» del 1942 – nel primo anno dello sterminio degli ebrei –, dove Pio XII osò denunciare il fatto che: «centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento». Chi altro nel mondo provò a pronunciare simili condanne, e in maniera inequivocabile, a un qualche microfono?

Ma Ratzinger e i suoi ospiti devono scansare anche i pregiudizi giornalistici che da anni avvolgono la figura del «pastore tedesco». Li abbiamo ritrovati casualmente in un libro di René Girard dell’inizio del terzo millennio,
La pietra dello scandalo (Adelphi), in cui dialogando con Maria Stella Barberi, e proprio a proposito delle falsità su Pio XII, Girard affermava: «Del resto si tratta delle stesse motivazioni che guidano le polemiche scatenate contro il cardinale Ratzinger. La terribile dittatura del cardinale Ratzinger! Per caso lei l’ha mai incontrato? M. S. B. – Credo di averlo incontrato nelle condizioni ideali. Aveva appena dato una conferenza alla Sorbona, e quello che ricordo di lui è soprattutto la sua forza intellettuale. R. G.– È un uomo dotato, e di modi estremamente piacevoli, ma per certi Americani è peggio di Eichmann, Goebbels e Stalin messi insieme. Si rende conto del coraggio che devono avere uomini nella sua posizione per opporsi al mondo intero, e rendersi impopolari ricordando ai teologi cattolici che ci sono dei limiti oltrepassati i quali non ci si può più dire legittimamente cattolici. Ratzinger non è nelle condizioni di imporre nulla a nessuno, dal momento che nessuno può essere costretto a restare nella Chiesa contro la sua volontà. Il cardinale non fa che ripetere ciò che la Chiesa ha sempre detto. Egli esprime anche la sua inquietudine rispetto a quello che vede ovunque, e questo meriterebbe qualche riflessione…». L’omaggio del massimo pensatore francese della nostra epoca al garbo del professor Ratzinger è una buona epigrafe all’incontro nella sinagoga romana. Un profeta impopolare nel ghetto si dovrebbe trovare a casa.
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domenica 10 gennaio 2010

minima / La denuncia di un umanista

Per chi si fosse perso l’intervista sul «Corriere della Sera» di oggi a Ezio Raimondi, rubiamo due citazioni preziose delle sue risposte. Il titolo è forte: «La modernità uccide la letteratura», ma il tono non è minaccioso, livido, come molti discorsi dei contemporanei. Con la probità dei figli dell’Appennino emiliano, Raimondi dice: «La letteratura è in una condizione difficile, ha subìto una sorta di lesione che si traduce quasi in una disfida contro la vita contemporanea, un’epoca che non favorisce la meditazione. Per questo, oggi più che mai è chiamata a trovare un senso in un mondo che vuole un accumulo di esperienze istantanee, mentre la letteratura utilizza la memoria e diventa forte quando l’uomo torna a chiedersi: chi sono? L’invocazione della letteratura è una sola: facci essere umani, per citare Wittgenstein». Un mondo in preda all’impressionismo «non favorisce la meditazione». Non solo in campo letterario.

«Carlos Fuentes ha detto che alla letteratura spetta di parlare di ciò che è invisibile dentro il visibile. La parola della letteratura è a suo modo una rivelazione di noi stessi a noi stessi, una sorta di epifania, una prova a cui si è chiamati: creare un universo che prima non esisteva e in cui le risposte sono interrogativi. Ed è da lì, dagli interrogativi, che comincia la dimensione religiosa». All’arte, si potrebbe aggiungere, spetta invece di parlare proprio del visibile. Una epifania del visibile? Quante domande attuali discendono dalle parole di un umanista demodé.
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venerdì 8 gennaio 2010

minima / L’esempio dei fratelli maggiori

Il giorno dopo l’Epifania, in un ‘salotto’ televisivo alquanto pop, ospiti un porporato, una principessa e giornalisti vari, si discuteva tra l’altro di liturgia e si vedevano ahimè immagini sconcertanti di riti nelle chiese italiane, con canzonette dementi e movimenti ritmati delle mani come all’asilo d’infanzia, una autentica offesa alla dignità della persona adulta. Si ascoltavano quindi alcuni dei medesimi fedeli ripetere nelle interviste argomenti da reality pezzente: espressione era la parola chiave; la talpa avanguardistica ha ben scavato lungo un secolo nella mentalità umana. Dallo studio televisivo, con molti distinguo e senso cristiano della comprensione, si cercava di salvare la liturgia informale del post-concilio, discettando di estetica musicale a proposito di nenie abbrutenti, facendone una questione di gusto, senza dire neppure una volta che qualsiasi persona civile non si metterebbe mai a fare coretti del genere, e soprattutto che la messa non è lo sfogo del cuore umano bensì il sacrificio del Dio fatto uomo. Ma a un certo punto, un ospite in collegamento da Gerusalemme ha evocato gli ebrei, il loro culto millenario. Appena una citazione, e subito veniva da riflettere che i «fratelli maggiori» continuano a pregare in ebraico e restano fedelissimi a cerimonie che hanno talvolta mille anni in più di quelle cattoliche. Nessuno pensa di ‘aggiornarle’, di renderle più armoniche al moderno. Nessuno per esempio si sognerebbe di introdurre un quadro o una statua nel tempio, capovolgendo quella cultura iconoclasta, con la scusa che la nostra epoca è ‘dominata dalle immagini’, anzi una ragione in più per tenersene lontani. Si obietterà subito che la Sinagoga non vuole far proseliti e i cattolici sì. Tutto questo trash serve allora alla Chiesa di Roma per conquistare l’anima dei moderni? Gli uomini di buona volontà, anche se corrotti dalle peggiori pacchianerie televisive, di fronte al rito sempiterno, alle parole e ai canti fuori del tempo, proveranno come minimo un senso di stupore e di rispetto, che saranno pertanto l’introibo al senso del sacro.
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giovedì 7 gennaio 2010

minima / Presepi

Se ne sono visti molti quest’anno, nelle chiese e nelle case, presepi improntati alla migliore tradizione iconografica. Ma quello che impressionava in quasi tutte queste messe in scena della natività era la più elementare mancanza di proporzioni: si alernava magari il ‘giorno e la notte’, con luci ad alta tecnologia che rendevano in maniera teatrale le sfumature delle albe e dei crepuscoli, si ammiravano ricostruzioni filologiche di Spaccanapoli o di villaggi della Palestina, panorami veritieri degli Appennini e della Campagna romana, però qua e là si stagliavano dei giganti che colpivano a morte ogni verosimiglianza. Gli anonimi autori capovolgendo l’ordine, collocavano in primo piano i personaggi di dimensioni ridotte e, dietro, quelli più grandi, con l’effetto di tanti colossi di Rodi disseminati. Come mai anche in artigiani periti questa mancanza di interesse per la corretta collocazione delle figure nello spazio? La mimesi non conta più niente? La restituzione illusionistica della realtà non è cosa dei mastri presepiari? Le leggi della prospettiva non fanno più parte del modo di comporre un’immagine? Un secolo di dissonanze espressioniste e di ‘informale’ ha modificato la nostra percezione, quanto meno il nostro gusto? A sentire chi insegna nelle scuole d’arte, sì.
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martedì 5 gennaio 2010

«Aperti gli scrigni…»

~ DAL VANGELO DI MATTEO AL SERMONE DI MARSILIO FICINO, ALLE LEGGENDE POPOLARI SUGLI ANIMALI CHE PARLANO: COME IL MERAVIGLIOSO SI INTRODUCE NELLA DODICESIMA NOTTE, LA MAGICA VIGILIA DELL’EPIFANIA ~
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Nella XII notte si introduce il magico. Addirittura il testo più avverso alla magia, il Vangelo, parla di Magi, li chiama in greco con un termine estraneo alla lingua ebraica, magoi, ne parla con rispetto, cosicché i misteriosi visitatori saranno poi santificati dalla tradizione, venerati in vari angoli d’Europa, celebrati nei diversi Orienti religiosi. Santi Maghi? O dobbiamo pensare che non si trattasse di maghi? Già, maghi o re? Prefigurazione degli scienziati o dei sovrani, ciarlatani o sapienti?

La teofania regale del «re dei Giudei» negli altri Vangeli sinottici avviene alla presenza dei pastori, davanti agli ultimi nella dignità sociale, inattendibili come testimoni, al pari delle donne. In quello di Matteo la teofania ha come pubblico l’enigmatico trio.

Magoi, e si evocavano i sacerdoti mazdei, gli indovini, i negromanti, gli esorcisti, le etimologie indo-iraniche; risuona la parola sanscrita maghà (che allude all’idea di dono), confonde con le ascendenze mitraiche, con l’altra nascita di un infante divino nella grotta, con tutti i terribili concorrenti mediorientali del Dio ebraico.

Eraclito – riportano i tanti libri dotti sull’argomento (una buona sintesi di vari autori: Tre saggi e la stella, Rimini 1999) – cita i magoi e li associa ai «vaganti di notte» e ai «posseduti da Dioniso». Nietzsche sorriderebbe. Ma sicuramente Matteo nulla sapeva della filosofia ‘presocratica’, anzi neppure del greco, e chissà come sarebbe stupito delle esercitazioni di lingue tanto nobili a proposito di una parola tradotta dal misero aramaico.

Magi che come il pharmakos rinvia a guaritori e avvelenatori, essendo la pozione salvifica estremamente delicata. La magia nera e quella bianca, gli incantesimi e gli incanti. La duplicità, nella variante profana e bassa, della Befana strega e nonnina. Ed avanzano anche riferimenti alle concezione tanatologiche zoroastriane. In modo che meglio si capisce quel dono inquietante della mirra che sta lì, nella logica del Vangelo, ad annunciare il sacrificio messianico iscritto già nella nascita pur ammantata di grazia e di gioia.

I tre Magi sono emblema della confusione ellenistica, dei sincretismi di quella zona, delle incerte frontiere. Alcune leggende vogliono che loro stessi arrivino allo scontro davanti alle porte di Gerusalemme, rappresentando così il conflitto prima e la pace ritrovata alla fine davanti alla grotta. In quella caotica «saggezza straniera» era successo che addirittura gli ebrei venissero considerati dai greci dell’ellenismo i «discendenti dei filosofi indiani», chiamati kalanoi, «i quali erano a loro volta discendenti dai magi persiani» (Momigliano). Un albero genealogico che somiglia alla Torre di Babele.

In questi giorni ci è capitato di vedere un originale presepio che metteva in scena un deserto fatto di carta argentata dove i Magi sui cammelli sembravano perdersi, tra i riflessi incandescenti della enorme piana, persi benché sapienti, conoscitori delle vie terrene e di quelle del cielo. Una noche oscura del alma a dorso di cammello. Solo grazie all’astro trovano l’orientamento, vengono guidati alla rivelazione cristiana, al messaggio semplice che si fa beffa degli intellettualismi gnostici.

De stella magorum è il titolo di un sermone che Marsilio Ficino scrisse in occasione dell’Epifania. Vi si parlava di una stella-angelo. Ribaltando infatti la concezione degli irreligiosi, non era il racconto evangelico a nascere in occasione del fenomeno astrofisico, alla vicenda siderale ricostruita dagli scienziati dei secoli a venire, bensì una stella portentosa si faceva segno dell’evento divino.

Che le attese dei secoli confluissero negli anni augustei può essere considerato uno Zeitgeist ma può essere ricondotto anche a questo incontro tra il «vero Dio» e le ricerche di tutti i gentili che davanti a lui, il puer, confluiscono nel sontuoso corteo. La scena dei Magi anticipa quella degli apostoli che tornano indietro delusi perché gli ebrei come loro hanno respinto il messaggio messianico di rabbi Gesù e allora il Maestro li manda a con-vertire i Gentili che non attendono alcun messia. L’universalismo del Vangelo è testimoniato da quel corteo delle Genti, l’universalismo cattolico (con l’aggettivo che suona ridondante) si richiama a quell’esempio e la cappella berniniana e poi borrominiana del Collegio Urbano, della seicentesca centrale delle missioni nel mondo a Roma, si intitola non a caso ai tre santificati: Cappella dei Magi. Perciò l’indicazione evangelica sulla provenienza da Est si cambia, strada facendo, in una convergenza da i tre punti del mondo, figli dei figli di Noè, a significare le razze umane, cosicché quando fu scoperto un quarto continente la fantasia ideò anche un quarto Magio, in modo che ciascuno avesse una sua rappresentanza nella scena primaria. L’Occidente si misurò con l’ambigua sapienza orientale, questa l’infinita ermeneutica europea alla storia dei Magi; il Logos si espone al mondo dei colti che non lo conosceva.

Vi erano inoltre i riflessi luministici del platonismo, del neoplatonismo rivisitato dalla Chiesa bizantina, che fa della liturgia epifanica una festa della luce metafisica. La dottrina di Platone, tradotta nelle pratiche popolari diviene non ancora favola ma quantomeno una cornice fiabesca. I tre simbolici visitatori risplenderanno dell’oro che orna vesti e acconciature, qua e là a impreziosire il corteo, il viaggio, alludendo pittoricamente all'iperuranio, fin nelle bardature di cavalli e cammelli, come furono raffigurati dagli artisti toscani e in generale dell’Italia centrale, nell’epoca in cui Platone tornava al centro della nostra cultura. Fino a che il tema dei Magi nella Firenze del Quattrocento trovò un’accoglienza speciale alla corte dei Medici e in una Natività di Botticelli i maggiori rappresentanti della ricca famiglia prestarono le loro facce ai tre re del presepio.

Nonostante tutto, nonostante cioè questa presenza dei Magi, su cui si è ricamato assai, il racconto evangelico vuole essere storico, come le scienze bibliche hanno cercato di dimostrare. Ancora una volta, dunque, «il Natale non è una favola», spiega il papa-teologo.

Ma tanto pareva una invenzione letteraria che, al contrario, su questo elegante mistero si cimentarono due tra i sommi poeti del Novecento, Eliot e Yeats. Se il primo virò la storia dei Magi in chiave attuale, in un affollato e travagliato journey, l’irlandese trasse stille del suo «avvento del nuovo» vagamente teosofico e occultistico (ma la grandezza della sua poesia – diceva Giorgio Melchiori – penetrava «la fitta nebbia esoterica e mistica in cui sembrava perduto»), un gioco di occhi dei tre re che confusi (e respinti) dal «tumulto del Calvario» fissano i loro sguardi sul «pavimento bestiale» della mangiatoia, non solo il bue e l’asinello ma la violenza animalesca della nuova èra, la violenza cosmica della bestia apocalittica. Senza le pesanti armature teoriche, ben più natalizie risuonano i suoi versi per la povera Mabel Beardsley, sorella del raffinatissimo Aubrey, dove il poeta rivolgendosi alla Morte dice: «Perdona, grande nemica, / Senza pensieri iracondi / Abbiamo recato il nostro albero, / E abbiamo fatto acquisti qua e là / Finché ogni ramo ne fosse gaio, / Ed ella potesse vedere dal letto / Cose graziose tali da piacere / Ad una testolina fantasiosa / Concedile una breve dilazione, / Che conta se un occhio ridente / Ti ha guardato in faccia? Sta per morire».

Ancora del magico dalla notte epifanica. In queste ore, folle immense bloccano la parte rinascimentale della città di Roma per portarsi, senza alcuna convocazione, pubblicità, cartello indicativo, a piazza Navona, all’antico mercato natalizio, nei pressi del quale, secondo la leggenda, nei solai oscuri di case fuori del tempo si nasconderebbe nel resto dell’anno la Befana e i suoi Befanini, personaggi che comporrebbero il corteo volante, una specie di brigata dionisiaca cui è stato somministrato il battesimo (non c’è l’edera ma certamente gira il vino per riscaldare le notti fredde). Una tradizione sotterranea che non ha bisogno di proclami. Si va nella piazza dove si vendono cose dimesse che potrebbero essere acquistate in qualsiasi bottega della città, e ormai le bancarelle diminuiscono, crescono gli spazi vuoti tra una e l’altra sulla linea che riprende la forma pressappoco ellittica della piazza, con al centro il tripudio marmoreo di Bernini. Però i ragazzi sbandati delle periferie vi si recano in pellegrinaggio non imposto da una qualche moda. Ebbene questa festa tanto popolare, profondamente radicata nell’immaginario, sulla fine degli anni Settanta, fu abolita. Estirpata con un decreto governativo dal cuore delle famiglie. La cosa impressionante è che nessuno si ribellò. Molti mugugni, naturalmente, tristezza soffusa, ma non si fa la rivoluzione per una festa cancellata. Forse anche se decidessero da un giorno all’altro che il Natale è abolito, tutti soffrirebbero in silenzio ma nient’altro. La cancellazione della festa millenaria si volle soltanto per copiare male il resto d’Europa che non festeggiava.

La stampa aveva tormentato l’opinione pubblica sul fatto che nella penisola i giorni feriali fossero troppo pochi. Bisognava aumentare il tempo lavorativo, somigliare maggiormente ai paesi nordici, dimenticare il mondo mediterraneo. Nessuno o quasi ricordò con orgoglio il nostro modo di vivere, la nostra dolce vita; ci si batteva il petto con foga per i peccati di mancata omologazione. Del resto lo Stato unitario era nato circa centocinquant’anni fa proprio per spirito di imitazione. Una mini-Francia sembrava l’Italietta agli occhi di Dostoevskij che la derideva. Per imitazione della Francia si era perduto una particolarità, l’esser la penisola una specie di paradiso in terra, giardino che era patria a tutta l’umanità. Ma gli ultra-provinciali volevano sembrare nordici, si travestivano da weberiani e dimezzavano le festività, i santi popolarissimi nei paesi a loro dedicati, le piazze allegre, le luminarie, le processioni, le girandole, gli ozi. I burocrati presero una mannaia e colpirono con poco riguardo. Buttarono via l’Epifania senza magari far caso che anche la nordica e severa nonché protestante Germania, almeno per metà, manteneva nel calendario la celebrazione dei Magi. Così la terza festa, quella che le completa tutte, veniva a mancare. Recita l’adagio malinconico: «l’Epifania tutte le feste si porta via», sigillo della celebrazione invernale, della consolazione della morta natura, della speranza nella resurrezione che le vili decorazioni, gli scintillii infantili vogliono testimoniare. Una trentina di anni fa, quelle feste furono mozzate. Eppure non si trattava soltanto di Roma.

Si pensi per esempio a Firenze dove a Casa Medici venne istituita la Compagnia dei Magi, di cui facevano parte i migliori umanisti che, in eccelsa confraternita, organizzavano un grande corteo per le vie della città in una rievocazione del viaggio dei Magi, quello che Benozzo Gozzoli dipinse aggiungendo le scene di caccia, le gioie terrene, gli splendori della corte fiorentina.

Milano addirittura vantava le reliquie dei presunti corpi dei Magi che considerava protettori della città. Barbarossa mise a ferro e fuoco il Comune ribelle, si impadronì delle reliquie e se le portò a Colonia. Il culto tedesco restò fedele ai tre e l’arca che li contiene continua a essere mèta di pellegrinaggi. Ma all’inizio del Novecento, grazie all’amicizia tra l’arcivescovo di Milano e quello di Colonia, tornarono nella capitale lombarda delle reliquie ossee dei vecchi patroni. Nel dopoguerra riprese anche la tradizione del corteo dei Magi per le vie della città.

Né soltanto le capitali ricordavano il 6 gennaio, anzi soprattutto nel mondo contadino, nelle migliaia di paesi memori che costellano tutte le regioni d’Italia, si ebbero sempre in quella notte dei prodigi i fuochi e le sorprese gastronomiche e i doni e le tradizioni di eccentrici riti. Riti apotropaici, dicono gli antropologi, e delle superstizioni dei pronostici. Festa nelle case contadine davanti ai camini e festa soprattutto nelle stalle. Si voleva perfino che gli animali parlassero dei loro padroni nella notte di veglia. Intelligente fu l’idea della Rai novella di istituire la più grande lotteria dell’anno nel giorno dell’Epifania.

In un codice senese del XIV secolo si trova forse per la prima volta la menzione di una «festa de’ Magi», con «divota rappresentazione», ovvero corteo regale. Ma sicuramente a più lontano nel tempo doveva risalire queste usanze che continuano ancora oggi. Cortei paesani di reucci per un giorno, canti, poesie (quanto verseggiare sulla Befana!).

Per tutte, una filastrocca ubriaca, tanto che i saccenti la direbbero surrealista: «O Befana, mia Befana esci fuori dalla tana / con le calze color di rosa / buttaci giù qualche cosa!». Strampalata: la vecchia chiusa in una tana, come un animale, che si innalza cavalcando una scopa, montata in senso contrario a quello delle streghe dannate, per lasciar cadere dunque i doni dall’alto. Befana povera: non un dono specifico le si chiede bensì una qualunque cosa, una elemosina, una mercè. La donna carica di secoli non ha una divisa, veste di stracci raccogliticci, di improbabili colori, «con le scarpe tutte rotte», recita un’altra cantilena rimeggiata, addirittura delle calze rosa per la bizzarra e talvolta bisbetica maga.

Volando sulla penisola appaiono innumerevoli falò nella notte santa e magica: la vecchia viene bruciata, la vecchia viene invocata per i doni. Come in ogni rito importante, ecco il capro espiatorio nascosto ma non troppo, ammonirebbe René Girard.

Ma il cinismo degli anni Settanta buttò tutto all’aria. Si abolì la Befana e si abolì il latino nella liturgia romana. Son scelte diversissime, è chiaro, ma furono compiute con la medesima crudeltà. E santi veneratissimi dal popolo, nel medesimo tempo, vennero depennati da arcigni filologi che confondevano la Chiesa con una istituzione accademica; o semplicemente per l’acrimonia di parvenus della cultura che volevano rivalersi sui più semplici e far vedere ai parenti contadini che ormai padroneggiavano il latinorum.

A quel tempo i giovani scendevano in piazza per dileggiare i padri e i nonni. Si imponeva la gioventù, un nuovo soggetto del consumo, i vecchi dovevano essere eliminati dal mercato. Non erano i bonari sfottò, il perenne contrasto tra chi si pensa eterno e vede gli altri al lumicino ed esorcizza perciò quel giorno lontano, oppure l’orgoglio di chi ha capito qualcosa ma solo quando il tempo scarseggia. Si trattava di una inusitata battaglia politica. La generazione dei ribelli di allora, adusa oggi a esser coccolata dal plauso generale, dal rispetto dei più giovani che affabulano narrando delle loro gesta, non riescono neppure a immaginare una processione di garzoncelli che marciando con passo militare e grida orribili prenda a insultare in tono greve i loro simboli, il loro sacro, la loro persona. La vecchiaia come colpa, l’avvizzimento quale obiettivo ‘politico’ da colpire, lo squadrismo di ‘Giovinezza’ in opposto estremismo: si fa fatica a pensarlo ormai. E difficilmente potrebbe darsi uno spettacolo di tal fatta perché tutti si è imbrigliati oggidì nella cosiddetta ‘correttezza politica’ che vieta ogni pensiero non approvato dai potenti del momento, una dogmatica imposizione che non va violata neanche per quegli stupidi scherzi che sono le invenzioni del «contemporaneo». Ci si lasci andare, infatti, a uno sfottò sulla Costituzione, gli idolatri della Carta quarantottesca grideranno unanimamente allo scandalo. Allora vigevano o meglio sopravvivevano invece le buone maniere, che sono cosa ben diversa dalla correttezza politica, regole formali – quindi che non presuppongono alcun contenuto – per evitare la violenza fisica e verbale. La loro fragilità le mise in balia degli scarponi dei violenti. Attaccarono il passato come il male assoluto, distrussero ogni sorta di tradizione, di buona forma. La Befana fu tra i vinti. Ma in Russia non bastarono settant’anni di duro dominio degli atei, di uno Stato poliziesco degli atei, con polizie assai manesche, stanze di tortura diffuse, articoli del codice che comminavano anni nei Lager per gli spiriti religiosi, distruzione di chiese e conventi, scioglimento di ordini, vescovi e preti in catene: appena l’Urss venne giù tornò a galla il cristianesimo che non possedeva neppure più i libri sacri. A maggior ragione, appena la nostra festa dell’Epifania fu riammessa, tornarono le folle ai riti misteriosi della notte magica. Sempre più inconsapevoli tuttavia, sfumato vieppiù il significato religioso, gestita ormai la festa principalmente dai mercanti.

La notte dei doni però, almeno la notte, si sottrae, nei limiti di questo nostro mondo, a quello scambio forsennato. Non c’è il cinema e il sistema mediatico made in Usa a metterla in scena. Resta pur sempre una occasione in ombra, una riserva europea, una magia comunque segreta. Il racconto è affidato al conciso Matteo: «E aperti gli scrigni offrirono in dono oro, argento e mirra».
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