lunedì 24 dicembre 2012

Natale 2012

In una lettera abbastanza nota di Ivan Illic al suo amico Helmut Becker, direttore dell’Istituto Max Planck di Berlino, il pensatore viennese scriveva queste belle parole: «nell’occasione del tuo settantesimo compleanno celebriamo l’ amicizia che ci permette di lodare Dio per la realtà sensibile del mondo». L’astrattismo d’ogni sorta, non solo l’arte senza figura, i corpi senza più genere, il pensiero svolazzante sul nulla, la religione svuota mente, la morale senza Inferno e Paradiso, il virtuale onnipresente, insomma tutti gli idoli del nostro tempo sono immiseriti dalla superba scena dei presepi: la nascita del divino nell’umano che si riflette nel povero mondo, che lo illumina, lo nobilita, lo rende attraente. Ai giorni nostri poveri d’arte anche queste messe in scena ingenue, ‘balocchi liturgici’ come si diceva un tempo, testimoniano di una rappresentazione possibile: il mistero si fa visibile attraverso il terrestre, il contadino, il comico, come attraverso il sublime degli angeli, lo spirituale celeste, e in mezzo c’è il puer divino, la scena del parto, la coppia dei genitori viandanti, l’animalità della stalla, lo splendore dell’astro speciale. Niente è più sensuale del cattolicesimo, e il Natale, la festa dell’incarnazione, lo è per eccellenza.

Ricordava Giovanni Pozzi: «L’incarnazione del Verbo è il fondamento teologico sul quale l’immagine trova la sua legittimazione accanto alla parola. San Giovanni Damasceno, interrogandosi sulla possibilità di raffigurare Dio invisibile, argomenta che, da quando l’incorporeo è diventato uomo e l’invisibile s’è fatto vedere nella carne, raffigurando questa si raffigura l’invisibile, l’incorporeo; Teodoro Studita vi aggiunge una nota mariana quando prospetta che dal momento che Cristo è nato da una madre raffigurabile, possiede una immagine rispondente a quella della madre; perciò se non si potesse rappresentare nell’arte vorrebbe dire che sarebbe nato dal solo Padre e non dalla madre. […] La parola descrive il Verbo, l’arte figurativa il ‘factum est’ della carne».

Se nella nostra epoca manca l’arte ci dovremo accontentare del presepio. Lì comunque splende quella luce che non ha niente a che vedere con gli isterici scintillii venduti nei negozi cinesi, prossima piuttosto alla lux perpetua che auguriamo ai nostri morti.

domenica 16 dicembre 2012

Florilegio

~ GLI SCRITTI DI DON DE LUCA ~
~ ULTIMA PUNTATA ~

E per finire il ricordo di Giuseppe De Luca in cinque puntate, un florilegio di frasi e di raccontini: la passeggiata al Gianicolo che sfiora la felicità, facendo venire in mente una pagina di Stendhal che in quel medesimo luogo scoprì la luce romana che quietava il tempo; l’insistenza sul punto essenziale che la salvezza non viene dalle soluzioni della questione sociale, come si ingannavano invece molti preti del suo tempo; le poche righe in cui riassume la letteratura e le arti di fronte alla modernità; e le singole battute che restano impresse. Abbiamo rubato, anche nelle puntate precedenti, tante citazioni al libro della Morcelliana ma siamo sicuri che la casa editrice non se ne adonterà. Capisce bene che questo antipasto di un volume peraltro fuori catalogo fa venire voglia casomai di leggerlo tutto e stimola curiosità per la figura del prete lucano che, a cinquant’anni dalla morte, è così presente tra noi.

«Meglio sempre parlare che scrivere; se non che, via via che ci s’invecchia, anche a voler discorrere, non si trova più con chi farlo. Non ti dà retta nessuno».

«Una volta, la poesia portò il nome di ‘gaia scienza’, nome inventato per essa. Altro che gaiezza, oggi! oggi i tossici della disperazione più nefasta, più nefanda, li si vende in quei barattoli che si chiamano volgarmente romanzi, novelle, poesie».

«Fa caldo. Il medico mi ha detto che mi ci vuole del moto. Debbo fare del moto; non ci credo, son certo anzi che non mi serve a nulla; faccio tuttavia del moto. Non è che disistimi il medico, no; disistimo, piuttosto, la medicina. Meglio, non ci credo. Credo in Dio, Padre onnipotente, ecc. ecc., tutto il credo; ma a credere nel resto, ci vado piuttosto cauto, cum juicio. Non credo che il sole faccia bene, che il mare giovi a nulla, che la montagna aiuti, e così via. Sarà, io non ci credo. Per me, sono ubbie. Come girano gli astri, così girano le pazzie degli uomini., che hanno anch’esse un loro corso, un loro zenit, un loro nadir. Debbo fare del moto. E lo faccio. Mi sono accorto che, a mia piena disposizione, è per esempio il tratto che va dal Fontanone del Gianicolo sino al Faro. Un piacere da sovrano. C’è chi spazza i prati, chi bagna i viali. Ci sono le guardie, ci sono i bambini, ci sono gli innamorati, ci sono dei busti di gente per bene. Ahimè, come son brutti, quei busti! e pensare che i busti di ignoti al Museo Capitolino hanno l’altezza, la potenza, il volto nell’aria dei monumenti equestri più celebri. Sembra un quadro animatissimo e un po’ frenetico del Breughel. Ci sono le variazioni inesauste dei verdi innumerevoli, le gradazioni morbidissime delle ombre e delle luci, le fisionomie staccate e dolci dei singoli alberi, tanto più affabili delle fisionomie nostre di uomini, macchiate tutte e intaccate dalla lebbra lieve ma visibile del peccato comune. Quando ci si incontra, noi uomini, non ci si vuole nessun bene; certamente, non ci si fa nessuna festa. C’è un’aria dolce, che ha qualche mutamento in sé e a volte scompiglia la tonaca e la sopportazione. C’è un cielo, un cielo, che in ogni momento è uno spettacolo nuovo; cambia di scena, di personaggi, di voci. E c’è, tutta per me, come Dio e come il cielo, come la Grazia, la poesia, c’è, soltanto ad affacciarsi, e per affacciarsi basta volgere un poco il capo, c’è Roma».

«Annientarci, per lo meno di rossore, soprattutto quando, di fronte alla nostra improntitudine, potesse sorgere, non dico il pianto della Chiesa, ma il turbamento anche di un’anima sola. La Chiesa è la Chiesa, non piange per così poco; purtuttavia sant’Ignazio si faceva scrupolo, quando si parlasse della Chiesa, persino di pronunziare la parola ‘riforma’, pur nel migliore dei sensi, col migliore dei sentimenti. E sant’Ignazio ci è stato ed è, coi suoi figli, più intrepidi e perciò più trepidi, un maestro del ‘sentir con la Chiesa’, un maestro dell’amare come dev’essere amato colui che tien le veci tra noi del Signore».

«La gente di poco comprendonio spirituale fa consistere tutti i peccati in quello contra sextum».

«L’economia è una bella cosa, una cosa grandissima nella nostra vita; si ebbe un torto pazzo a non accorgersene tanto prima, ma è e non può essere tutto. Non dico una passione d’amore, non dico un momento di poesia; ancor meno voglio nominare Iddio, la sua grazia, la sua gloria. Non dico un piacere, un dolore, la morte. Dico il sorriso subitaneo di un bambino, il rannuvolarsi doloroso d’un volto d’uomo, una voce smarrita in una sera deserta. Son tutte cose, codeste povere cose, le quali colpiscono più a fondo il cuore dell’uomo che non tutta la sua stessa fame. Aver ridotto per intero (ripeto, per intero) la nostra vita a una faccenda essenzialmente economica, è proprio la risultante che ci meritavamo, di un’epoca intesa soprattutto all’industria e ai commerci. La rivoluzione contro il capitale è la ribellione di una figlia al padre».

«Roma come paradiso terrestre delle anime».

«Non la Chiesa e la fede cristiana se ne andava, se ne andava la civiltà. Una barbarie apocalittica si ammassava alle porte, progrediva lenta ma certa come un’ardente lava. Gli scrittori più vivi sembravano altrettanti centauri impazziti erravano ora muti ora urlanti per la foresta: foresta, so bene, di cattedrali, di palazzi regali e patrizi, di torri campanarie o del comune, di biblioteche, di città intere che sono tutte un museo, di paesi che sono altrettanti gioielli: foresta, dico, invasa da sciami d’insetti, vale a dire dalle torme e masse vive di ideucce balorde e brillanti, disperate e spiritose, che negavano tutto, sporcavano tutto, ferivano tutti, abbrutivano ogni momento dell’uomo, facendone a sua volta un sudicio insetto, un verme lugubre, una bestia insomma, bestiola o bestione che fosse. Quegli immani e inumani centauri che riempivano della loro voce l’Ottocento, non si tacquero un istante, e la loro voce ancora oggi è a volta a volta un incanto o uno sgomento».

«L’autorità politica di regola vien sostenuta in teoria da chi non riesce in pratica ad esercitarla, e nemmeno ad ottenerla; viene invece negata in teoria da chi, in qualsiasi modo, riesce sempre a impadronirsene, e la esercita, e come la esercita!».

martedì 11 dicembre 2012

Sorella Falciatrice

~ PICCOLE VOLGARITÀ
IN UN CONCORSO MINISTERIALE ~

L’acculturazione forzata («obbligatoria») delle masse produce tra gli altri danni la diminuzione degli artigiani, di coloro che conoscono l’arte di usare le mani, a vantaggio di milioni di laureati, e in discipline che mal si conciliano con la massificazione, specialisti in chiacchiere mediocri che, per forza di cose, finiscono con il nutrire e ampliare a dismisura la burocrazia. Quanti lavori si inventano per far contenti i dottorini senz’arte, quanti uffici e consulenze generati da fantasie barocche e di cui la ragione umana non si capacita neppure. A governo supremo di simili elucubrazioni ‘per mangiare’, c’è un ministero denominato, a seconda del narcisismo dei politici regnanti, della Cultura o dei Beni e Attività Culturali, come si chiama adesso in un trionfo di maiuscole. E parte da questo ministero un concorso, bandito insieme alla «Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio, la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Lazio» (per ogni ridicola maiuscola chissà quanti impiegati e consulenti e fondi e uffici e pause caffè e viziosi ghiribizzi finalizzati a partorire eventi), onde ricordare Francesco d’Assisi. Un «concorso artistico» riservato agli studenti d’arte che invita i ragazzi a cimentarsi con Giotto per mettere in scena – «con ogni mezzo espressivo», naturalmente, in primis le installazioni – la figura del frate medioevale. Una lodevole iniziativa per esaltare la santità dell’imitatore di Cristo? No, una sciocchezza. Il ministero, indirettamente il ministro già rettore dell’Università cattolica, chiede agli studenti d’arte di celebrare la gloria di Francesco come «primo pacifista ed ecologista, attuatore di un’esperienza di vita basata sui principi di estrema semplicità e sostenibilità, il primo trekker moderno». Testuale. Una siffatta banalità non nasce nelle chiacchiere di ragazzotti sul tram ma in un ufficio apposito dove si affinerebbe il miglior spirito italico.

Si sbagliavano, dunque, santi e papi nel corso dei secoli, non si trattava di uno che voleva incarnare il Vangelo radicalmente ma di un ‘pacifista’, un politicante senza princìpi intimorito dalla violenza; si sbagliava Dante, che faceva intervenire Tommaso d’Aquino a prescrivere per tutto quanto riguarda questo santo speciale - se qualcuno «proprio dir vole» - che si ricorra a termini preziosi. Il sommo domenicano, da parte sua, nel canto XI del Paradiso dantesco, canto che un tempo si mandava a memoria nei licei della penisola, lo chiama «patriarca», «santo archimandrita», l’amante della Povertà cristiana atteso da «millecent’anni e più», «la cui mirabil vita meglio in gloria del ciel si canterebbe». Non sapevano quei poveri ingegni, quasi contemporanei suoi, che l’esperienza francescana si basava sulla sostenibilità ambientale, sul business dell’ecologia, magari anche nella versione ante litteram di paladino del global warming piuttosto che di araldo della croce. Non sapeva il poeta che il Serafico era semplicemente uno che faceva trekking, un escursionista, uno che pensava «modernamente» al benessere corporale dunque, magari con adeguato equipaggiamento (peccato che lordasse ogni cosa con quel sangue colante da mani, piedi e petto, un trekker che lasciava dietro di sé una rossa scia). Così, la natura per il Poverello era – secondo i burocrati compilatori del concorso – una disneyana armonia, leggermente diversa dalla fondamentale concezione cattolica che vede nel creato il suggello di Dio, ragion per cui anche «sorella morte corporale» è da lodare. I promotori del concorso su un Francesco un po’ zen capiranno forse il paradosso francescano solo quando a contatto con la terribile Falciatrice proveranno a chiamarla sorella, a considerarla pia, e vedranno che non è facile senza il Vangelo, certamente più arduo di un’arrampicata in montagna.