sabato 16 luglio 2011

Cerimonia funebre

~ PREZIOSI FRAMMENTI LETTERARI
NEL GIORNO DELLE ESEQUIE DI OTTO D’ASBURGO ~

Gabriella Bemporad con signorile sottotono le chiamava «note», senza alcun titolo, e le apponeva in guisa di postfazione a testi bellissimi che traduceva dal tedesco; vi concentrava le ultime stille di un’eleganza ormai introvabile nella consuetudine editoriale. In una di queste, che accompagnava l’hofmannsthaliano romanzo Andrea o I ricongiunti (Andreas oder die Vereinigten), a proposito della geografia culturale che aveva come poli Vienna e Venezia scriveva: «il più singolare luogo geometrico dei congedi e delle nuove partenze». Oggi a Vienna, dopo tredici giorni di lutto, ci si accomiata dall’ultimo imperatore, riconosciuto nella sua maestà solo dagli esuli, nobili ed ebrei.

La nobiltà è una maschera – spiegava la eccelsa germanista – evita la rude socievolezza dell’homo homini lupus. L’ingenuità dei repubblicani dal volto nudo, dell’uomo senza passato che perciò deve rinunciare anche alle meraviglie sperimentate nell’infanzia, conduce al puritanesimo triste, senza ornamenti (o con ornamenti rubati ai re spodestati). I riconciliati con il passato, con la tradizione, con il mondo aureo, possono credere alla sapienza delle fiabe.

Della scrittura del Maestro delle maschere diceva: «la pagina – che pure narra incertezze e angosce esistenziali e le intuizioni confuse […] – appare difesa da una superficie liscia come uno specchio, priva di crepe o spiragli, da un fluire ininterrotto ma mai turbinoso […]. La materia appare pacificata…». La forma – politica, imperiale, e letteraria – rappacifica. La signora fiorentina parlava con garbo di «quel felice componimento delle dissonanze che è il fine della narrazione». Estraneo adesso ai più che trafficano con la scrittura e con il pensiero.

E celebrando la «sobrietà del ricco», la «semplicità del raffinato», l’amica di Cristina Campo sempre in quella stessa Nota citava una frase di Hofmannsthal nella parte incompiuta dell’Andreas, riferita al Cavaliere di Malta: «Mania di perfezione: immaginare splendide feste conduce a non trovare perfetta alcuna festa, salvo le esequie di un monaco certosino».

Avvolta nella bandiera imperiale giallo-nera, la salma dell’ultimo imperatore senza impero, di un fantasma imperiale, è tornata a Vienna. Il corteo funebre si snoderà nel centro storico della città per portare Otto nella cripta imperiale dei Cappuccini, dove dal 1633 sono sepolti più di cento suoi antenati. Al termine del tragitto – raccontano i cronisti – l’araldo busserà con la mazza alla porta della chiesa. Dall’interno, come è sempre avvenuto nei secoli, un cappuccino chiederà: «Chi vuole entrare?». L’araldo risponderà: «Otto d’Asburgo, erede al trono d’Austria e d’Ungheria, dei regni di Boemia, Croazia, Dalmazia, Slavonia, Galizia, delle contee di Gorizia e Gradisca...». «Non lo conosco» dirà il frate. L’araldo ci proverà di nuovo annunciando «l’erede al trono di Austria e Ungheria». E riceverà un altro rifiuto. Alla fine annuncerà semplicemente: «Otto, un povero peccatore». E la porta della chiesa si aprirà all’ultimo Asburgo, che ha vissuto la fine dell’impero. Barocco asburgico, particolarmente funereo.

A pochi passi dalla Cripta, c’è la chiesa di Sant’Agostino, l’imperiale Augustinerkirche, il tempio che conserva i cuori asburgici e dove si celebrarono le nozze di Sissi con Francesco Giuseppe e quelle di Maria Luisa con Napoleone Bonaparte nemico dei re. Lì Antonio Canova, in un’èra rivoluzionaria, senza fondamento, innalzò una sepoltura tragica, tradusse in scabro moderno il barocco lugubre degli Asburgo. La giovane Maria Cristina si avvia sola, patetica, verso il mistero cupo del tenebrosissimo Ade. La si vorrebbe abbracciare e confortarla con la «lux perpetua» che invochiamo nel Requiem. La piramide del mondo pre-cristiano però accenna a morti pagane. Forse Canova vi ha messo in scena il contrappasso per l’egoismo moderno.

In un balenio di spirito aristocratico, di irriproducibile, di unico, Sacramozo, personaggio dell’Andreas che «conosce la potenza dell’azione creatrice» dice: «il rapporto più sacro è quello tra apparenza e sostanza – e come viene incessantemente ferito! si può pensare che Dio l’abbia nascosto tra aculei e spine –. Noi possediamo un arsenale di verità, forte abbastanza da ritrasformare il mondo in un pulviscolo di stelle, ma ogni arcanum è chiuso in un crogiolo di ferro, per colpa della nostra durezza e della nostra stolidità, dei nostri pregiudizi, della nostra incapacità di concepire l’irripetibile».