martedì 15 marzo 2011

Lo straniero ci guarda

~ DISCORSI POLITICI SU UN AUTOBUS AFFOLLATO
E IL PARTITO PRESO DELLA TRISTEZZA ~

Oggi sull’autobus una coppia mesta di adulti, un uomo e una donna borghesi, si andava raccontando le disgrazie d’Italia a voce piuttosto alta e con una faccia di circostanza. L’un l’altra si rimpallavano i mali del mondo nello spioncino della politica interna, quasi gravassero tutti sulle loro spalle. Non mostravano pietà per i giapponesi ma rabbia per le nostre scelte nucleari, non dolore per il terremoto bensì calcolo strategico sulla riuscita del referendum italiano, sì e no da strappare con le immagini della paura atomica, quindi parlavano dei libici come avrebbe fatto una dama voltairiana dei selvaggi, quel che stava loro a cuore era la nostra alleanza già sepolta con il colonnello pagliaccesco. Apparivano terrorizzati dal ridicolo, «che cosa diranno di noi all’estero» era il ritornello da vecchie zie di provincia. Il male universale si riassumeva nel governo in carica, e il lutto che portavano si stampava in volto. «Facite ‘a faccia feroce!», un ordine che sembravano imporsi come compito morale. Volti atteggiati a sdegno, partito preso della tristezza, una nuova forza politica, anzi, ancora in cerca di un simbolo elettorale: il Partito della Tristezza. Nulla distraeva la conversazione senza speranza. Dai finestrini scorreva una prova generale della primavera romana, pèschi e mandorli improvvisamente fioriti, nuvole dei migliori paesaggisti, luce post-illuminista di François Marius Granet, maestro di squarci marzolini in questa città: nessun compiacimento, nessun sorriso, nessun ringraziamento al Cielo per il dono dello spettacolo circostante, soltanto un ringhio come basso continuo. Neppure i tricolori che sventolavano buffi dalle finestre di coloro che a sinistra hanno ritrovato la patria, l’aria di festa invero un po’ inventata, rallegravano il giorno appena cominciato dei due castigamatti.

Grande lo stupore quando, entrati poco dopo in un vagone della metropolitana, ci si trovava davanti a tre signore che conversavano animatamente sui medesimi temi della coppia austera. Stavolta il tono era più basso, l’aria più cameratesca e più francamente polemica, ma identica la gravità, il tragico che parla con il linguaggio sciatto di «Repubblica» e che provocherebbe pure qualche riso se non si fosse animati da una vera compassione per tanto dolore esibito sui mezzi pubblici. Donne e uomini che invecchiano senza fede alcuna, a parte una battaglia ad personam contro il politico-miliardario di cui si riempiono la testa. Convincendosi vicendevolmente che il loro paese è un pessimo posto, dove le mafie impazzano, il disordine è sommo, la politica laida. Gli ultimi decenni sono trascorsi all’insegna del male, esistenze sprecate, gioventù bruciata, maturità bruciata. In che vuoto si ritroveranno questi disgraziati savonaroliani senza Paradiso quando il capo del governo lascerà il suo trono?

Si consolavano appena le tre donne disperate con il Leitmotiv che loro sono la cultura in lotta contro la maggioranza ignorante e villana. La democrazia corretta con gli esami scolastici, il socialismo delle maestre con la penna rossa per sottolineare gli errori di gusto. Allevate sicuramente con la canzone di Dylan, With God On our Side, non hanno mai pensato che basterebbe sostituire il loro idolo Cultura alla divinità per rispecchiarsi in quel che raccontava il bardo ebreo.

Facendoci sussultare, una delle tre, la più inviperita, riprendeva ad agitare il tema delle «figuracce all’estero». Nonostante fossero le dame patronesse del sapere, ignoravano che gli stranieri hanno sempre irriso alle italiche faccende, anzitutto perché irriducibili alla misura di tutti gli altri paesi europei. Non ricordavano la sorpresa di Filippo Tommaso Marinetti a Parigi, dopo una prima gioventù trascorsa ad Alessandria d’Egitto a sentir nel liceo dei padri gesuiti vantare la patria lontana, quando si accorse che in ogni caffè di artisti e letterati si rideva di noi, dell’Italietta, dei parenti poveri (molti dei nostri erano emigrati laggiù a servire negli alberghi e nei ristoranti), mescolando invidie, ripicche, contrasti tra cugini di diverso patrimonio. Né le tre donne avrebbero voluto sapere di quei giovanotti ex combattenti della Prima guerra mondiale che, pur sedendo tra i vincitori, si vedevano messi da parte, ancora a Parigi come in tante altre capitali europee, sempre parenti poveri, e anche per questo motivo i giovani arrabbiatissimi aderivano al fascismo o addirittura fondavano i fasci all’estero, qualcuno con pseudonimo scriveva sull’«Action française», sciovinisti per troppe frustrazioni, fascisti anche per eccessiva sensibilità a quanto si diceva all'estero. Alle viaggiatrici in metro non era sicuramente mai capitato sotto gli occhi un qualche epistolario o altri scritti di lettori di italiano nelle università europee tra le due guerre, quanti sfottò, umiliazioni, amarezze, e non sempre per il governo in carica che tanto piaceva ai Churchill e Roosevelt, piuttosto per antichissimi pregiudizi, per sempiterna estraneità. Così andò anche nel dopoguerra, con i centro-destra e i centro-sinistra, ci si sentì domandare in uno sciocco sorriso: «ma da voi comanda ancora il papa?». Però adesso quel dileggio plurisecolare dei forestieri diventa giudizio di Dio, sommo tribunale della nostra politica, metro di paragone del grado di incivilimento della penisola, dell’accostamento italiano agli standard globali, all’appiattimento di questo trimillenario paese i cui ultimi centocinquant’anni potrebbero essere considerati una momentanea parentesi di decadenza.

Che succedeva allora stamattina su tram e autobus, un borbottio che precede la sommossa popolare dei neo-savonaroliani? No, il Partito dei Tristi ci cresce accanto ormai da anni, parolaio ma bonario, colpito da avversa sorte, soprattutto negli ultimi mesi, costruisce una visione del mondo sempre più dolorosa. L’opposizione diffonde depressione politica. Non promette più sogni fantasiosissimi, come in decenni ormai lontani, mostra soltanto il lato brutto della vita. Gli ex desideranti, giunti in età matura, dopo una esistenza trascorsa nel calore delle sezioni e dei raduni, degli ideali e del lavoro collettivo, soffrono come cani una volta risucchiati nel vuoto del post-moderno o comunque lo si voglia chiamare, e se la prendono con il capo del governo. Hanno trovato un bersaglio, un oggetto di conversazione ossessiva. Nel frattempo, privi di eroi politici e poetici, si devono accontentare dei comici. Ma più si riempiono di battutacce e più si incupiscono.

L’attesa di un loro Godot in negativo dura ormai da vent’anni, da allora si fissano giorno e notte sul tycoon prestato alla politica, ben diversi da Jünger che affermava di non aver mai concesso il suo tempo ai tiranni che si trovò di fronte, dedicandosi a ben più nobili imprese, non consentendo che gli rubassero i giorni assegnati dal fato per idolatrie sia pure al contrario. A maggior ragione per un nemico assoluto che somiglia a uno chansonnier d’altri tempi. Ma il fatto più patetico è che da tempo ormai immemorabile qualcuno, i furbi della «Repubblica» in primis, promette loro innumerevoli volte che la fine è prossima e subito dopo la si procrastina alla data successiva, un po’ come le profezie escatologiche dei Testimoni di Geova.

Una parte notevole di italiani si lascia abbindolare dai suoi giornali, il quotidiano-partito ha risolto anche i propri guai finanziari con un tale genere di annunci, e per decine e decine di volte crede di trovarsi al momento decisivo dell’uscita di scena di questo personaggio che ha scombussolato gli schemi della tradizione politica. Un giorno fidando nei giudici, un giorno negli alleati del Cavaliere, un giorno nella Provvidenza, talvolta addirittura nell’opera di Madama Morte, naturale o procurata da qualche volontario. E sempre quegli impostori a garantire coi titoli giganti, con le parole appropriate, con le vibrazioni moralistiche, che è una questione di ore, che il mondo, ossia di volta in volta l’«Economist» o un sito tedesco non si fidano più, pensa un po’, di un italiano, che i giudici interverranno, il capo dello Stato anche, e ormai è fatta, l’esilio o la galera attendono il vecchio corruttore. Ogni volta, la fine viene rinviata, e intanto il tempo passa, i figli crescono, loro invecchiano, invecchiano male, malinconici per stupidi motivi, depressi per un ameno personaggio, per le sue gaffes, per l’onore dell’Italia calpestato, per l’onore delle donne offeso, l’avvenire delle figlie minacciato dai modelli scollacciati della tv. Motivazioni di cui vergognarsi da morire, semmai rinsavissero per un istante. Misericordia allora per i nostri connazionali che viaggiano con noi sui bus, afflitti in una mattinata di primavera in anticipo.