giovedì 2 aprile 2009

minima / Protettori senza porpora
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Si è aperta a Villa Medici una mostra di opere di François Marius Granet (1777-1849), decine di immagini di Roma rifratte in altrettanto luminosi olî su carta – frutto di studi quotidiani e rigorosi – che a loro volta risultavano specchi della caotica situazione delle nubi nel cielo marzolino del giorno di inaugurazione, con improvvisi passaggi verso trasparenze sorprendenti. Questo amico e sodale di Ingres si ingegnò soprattutto a carpire la luce della città e dei suoi dintorni quando si posava sulle chiese e sui resti della civiltà classica, una luce che aveva perduto il nitore celebrato da Winckelmann, come la messa a fuoco dell’illuminismo, per tingersi di auree tonalità metafisiche. Granet, lontano dagli strascichi culturali della Rivoluzione, considerava una vera fortuna il soggiorno nella capitale pontificia durato un quarto di secolo. Insomma, un programma di lavoro lungo una vita. Nel frattempo, faceva i suoi quadri di genere ‘storico’ che gli procuravano pane e fama. Ebbe almeno un cardinale come protettore, un committente che gli acquistò le opere solenni, mentre molte delle sue istantanee, che oggi più stimiamo (e che meritano una visita), non uscivano dall’atelier, costituivano un diario pittorico, oggetti personali dell’autore. Quasi sempre così è andata nella storia dell’arte, tante opere minori rimaste nell’ombra e fuori del mercato, che saranno apprezzate dai posteri.
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Ben due fiere del contemporaneo si aprono in queste ore a Roma, una invade addirittura il centro storico e viola la gravità dei luoghi di dolore, penetrando nel Santo Spirito (v. «Almanacco»,
Ospedali trasformati in museo). Sagre affollate di venditori, compratori, mediatori, committenti, e soprattutto critici, imbonitori, commentatori, collezionisti, divulgatori, e magari saltimbanchi, ladri e prostitute, come si conviene a simili kermesse di medioevale gusto. Mancano naturalmente le opere d’arte. Perfino nell’accezione minimalista che si dà oramai a questo termine, sono molti quelli dello staff e pochi gli oggetti. Ciascuno di essi è stato costruito con intenti commerciali, preparato apposta per essere collocato sul mercato. Niente di nuovo sotto il sole, già negli anni Venti Carl Schmitt diceva con sarcasmo: «a chiunque si avvicinasse all’arte era assicurata una fondazione o una dissertazione seminariale». Però il progresso di tali procedimenti assai grami è impressionante: tutte le stitiche operine che escono dalla fantasia dei loro autori sono messe in mostra con «un senso del risparmio tirato a lucido», quel po’ di estetico che riescono a ricavare serve solo a far denaro; nessuna scoperta riservata ai figli dei figli, semmai si interessassero alla faccenda. «Poche epoche – scriveva Jean Clair – hanno conosciuto come la nostra un tale divorzio fra la povertà delle opere prodotte e l’inflazione dei commenti che anche la più insignificante di esse riesce a suscitare». Un fracasso che, per esempio, fu risparmiato ai piccoli capolavori di Granet, sfiorati appena dallo sguardo elegante di un porporato. Ma con l’inflazione (da crisi weimeriana) di committenti e di commenti, la moneta (l’arte) perde ogni residuo valore. Ovvero, l’oro diventa denaro, biglietti di carta.