domenica 29 aprile 2012

L'armonia cattolica

~ PICCOLE CHIOSE AL «SAGGIO»
DI JUAN DONOSO CORTÉS.~
E MOLTE CITAZIONI DEI SUOI PENSIERI ~

La perfetta armonia, la bellezza, fu lacerata dal peccato. E bastò quella lacerazione, uno strappo, una ferita, perché l’armonia venisse meno e nell’Eden si introducesse la morte fino ad allora sconosciuta. Solo con la crocifissione divina, con il sacrificio messianico che cancellava l’antico peccato, il mondo tornava a risplendere. È quello il segreto intravisto nella luce di Piero a Sansepolcro come nel saggio di un diplomatico spagnolo dopo la grande macelleria napoleonica. «Deificazione» dell’uomo era un termine che l’ambasciatore di Madrid non temeva di impiegare, sottraendolo alla confusione dei moderni. Il concetto era familiare anche ai nostri artisti del Rinascimento. Gli umani cercavano una falsa via per uscire dai loro limiti, per modellarsi sul divino, quella suggerita da Lucifero; la Chiesa di Roma proponeva un percorso opposto. Michelangelo pose sotto gli occhi dei fedeli nella cappella papale la scintilla soprannaturale che si accende tra il Creatore e Adamo, ridotti in pittura a due grandi corpi, secondo le parole bibliche, simili.

Il maestro di tutti i tradizionalisti, il terzo della triade – a parere di Barbey d’Aurevilly – dopo de Maistre e de Bonald, la guida di Carl Schmitt, colui che insegna a chi si inorgoglisce della modernità e del laicismo come questi concetti siano la pallida traduzione della teologia (anche Nietzsche se ne renderà conto più tardi: «così profondamente siamo indebitati verso la vita religiosa»), Juan Francisco María Donoso Cortés, primo marchese di Valdegamas (1809-1853), ammonirebbe anche i nostri contemporanei se non fossero tanto fatui da far finta di niente (però, un secolo e mezzo dopo quei discorsi, un pensatore che raccoglie dispersi frammenti della sinistra politica si produce in studi intricati e in vari tomi sull’homo sacer, sia pure attraverso la lezione del sommo giurista tedesco che a Donoso dedicò quattro saggi devoti).

Donoso partiva da Roma. La ‘questione romana’ aveva nella sua opera principale, l’Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo un carattere universale, ben lontano dalle meschinerie nazionalistiche che assumerà nel cosiddetto Risorgimento. Roma è il centro. La Chiesa cattolica è romana come l’impero che accoglieva i popoli. Usa il latino che con il suo rigore tiene insieme questi popoli nella civiltà non umiliata da troppi confini, dagli arcaismi del sangue e del suolo che il romanticismo agitava in quegli anni all’orizzonte.

Il Saggio apparve nel 1851, Metternich lo salutava in questa maniera: «Nel mirabile Saggio tutto è severo come il vostro pensiero e luminoso come la vostra intelligenza». Anche al papa piaceva e la «Civiltà Cattolica» lo recensiva difendendolo di fronte a tutte le critiche. A Roma si pensò a lui per una risposta dura al liberalismo montante e da una sua Lettera che riassumeva i principali errori della modernità nacque il «Sillabo»: nell’epoca superliberista suona più che mai scandaloso un simile elenco. Le prime pagine dell’Ensayo erano, come si diceva, dedicate a Roma.

«Quel possente impero [romano] prese dall’Oriente il senso della legittimità che gli faceva amare la vastità dei confini e la forza, e dall’Occidente una legittimità che si manifestava nell’intelligenza e nella disciplina. Per questo, Roma soggioga tutti e nulla può resisterle, tutto assoggetta e nessuno osa lamentarsene. Come la teologia romana ha qualcosa di diverso e qualcosa di comune con tutte le altre, Roma ha qualcosa che le è peculiare e molto che la fa simile a tutte le nazioni vinte dalle sue armi e offuscate dalla sua gloria: di Sparta ha il rigore, di Atene la cultura, di Menfi lo splendore, di Babilonia e di Ninive la grandezza. In altri termini, l’Oriente è la tesi, l’Occidente l’antitesi, Roma la sintesi. L’impero romano sta a significare che la tesi orientale e l’antitesi occidentale sono confluite nella sintesi romana. Si scomponga ora codesta mirabile sintesi e sarà evidente che essa non è solo il risultato di armonie politiche e sociali ma anche il frutto di una unità nell’ordine religioso». (Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, a cura di Giovanni Allegra, Rusconi, 1972, p. 56). Viene subito da chiedersi: avrà letto Notti romane di Alessandro Verri? In quel tempo, mentre la capitale delle arti mondiali si trasferiva a Parigi, il ruolo di Roma era l’asse portante di ogni riflessione sul Génie du Christianisme: anche nella superbia di un visconte francese al centro dell’Europa di allora e sebbene il tema sia nascosto negli ultimi capitoli del suo libro a gloria della cultura cattolica, all’ombra delle rovine, Chateaubriand ammette: «Rome chrétienne a été pour le monde moderne ce que Rome païenne fut pour le monde antique, le lien universel; cette capitale des nations remplit toutes les conditions de sa destinée, et semble véritablement la Ville éternelle». A noi fa pure venire in mente certi pensieri di Leo Strauss in una «Nota» sull’autore del De rerum natura: «essere romano [al tempo di Lucrezio] significa avere un’affinità, negata agli altri uomini, con chi guida e governa il tutto».

Ma a differenza di Chateaubriand, Donoso non è devoto del rovinismo, non si inebria per la desertificazione della Campagna romana. Nei tempi seguiti alla morte di Cristo – scriverà –, non solo Gerusalemme paga il fio del deicidio, «Gerusalemme spopolata, le sue mura al suolo, il suo popolo disperso per il mondo, e il mondo in guerra», anche Roma, soprattutto la Roma rappresentata da Pilato, la Roma che sempre si accompagna e si intreccia con Gerusalemme, «vide cose mai viste da occhio umano». «Roma senza imperatori e senza dèi, le città spopolate e pieni di gente i deserti; barbari analfabeti, vestiti di rozze pelli, governare le nazioni, le folle obbedire alla voce di colui che diceva sulle rive del Giordano: ‘Fate penitenza’ […]. Perché questi vasti cambiamenti, queste perturbazioni? Perché simili desolazioni e cataclismi? Che cosa significa tutto ciò? Che cosa succede? Nulla: nuovi teologi vanno annunziando per il mondo una nuova teologia» (pp. 62-63).

Il capitolo successivo si apre con tali parole: «Questa nuova teologia si chiama cattolicesimo». E articola la spiegazione: «Il cattolicesimo è un sistema completo di civiltà, giacché, nella sua immensità tutto comprende: la scienza di Dio, la scienza degli angeli, la scienza dell’universo, la scienza dell’uomo. L’incredulo è colpito dalla ‘inconcepibile stravaganza’ di questo sistema, il credente dalla sua ‘straordinaria grandezza’. […] L’umanità intera ha frequentato per diciannove secoli le scuole dei suoi teologi e dei suoi dottori; e dopo aver tanto imparato, dopo aver così a lungo frequentato, ancora non è arrivato a sondare completamente l’abisso della sua scienza» (p. 65). L’umanità insomma ha appreso una «teologia universale» che abbraccia ogni verità e abbraccia «tutto ciò che è contenuto in tutte le verità». Qua e là Donoso traduce in chiave romana certo hegelismo.

L’infallibilità del Vicario

«Il cattolicesimo si impadronì dell’uomo intero, carne, sensi e anima». L’ordine religioso si trasferì all’ordine morale e da questo al mondo politico. L’autorità concepita dai cattolici non solo viene da Dio ma ritiene coerentemente con tale principio che i governanti non siano nulla, appena dei «ministri di Dio e servitori dei popoli». Per l’universalismo cattolico inoltre i popoli stanno su un piano di parità (ma qui chiude un occhio su vescovi ed eminenze francesi che furono meno universali): «Per la Chiesa non esistono né barbari né greci, né giudei né pagani. Vi trovano posto lo scita e il romano, il persiano e il macedone, chi viene dall’Oriente e chi viene dall’Occidente, chi dalle parti del Settentrione e chi dal Mezzogiorno […]. Suoi cittadini sono re e imperatori, i suoi eroi sono i martiri e i santi. Il suo invincibile esercito è formato da quei valorosi che vinsero in se stessi tutti gli appetiti della carne […]. Quando i suoi pontefici parlano alla terra, la loro parola infallibile è stata già trascritta da Dio stesso nel cielo» (p. 80). Donoso sta anticipando il Vaticano I, la proclamazione del dogma che più sconcerta i moderni, l’infallibilità della cattedra petrina.

L’infallibilità della Chiesa gli sembra derivare dalla sua immortalità nella storia umana: «la Chiesa rappresenta la natura umana senza peccato, così come uscì dalle mani di Dio», una creatura dunque senza peccato originale e non condannata alla mortalità. Ma che direbbe adesso lo Spagnolo, quando le massime autorità cattoliche ripetono ogni giorno dei peccati della Chiesa in quanto costituita da uomini? La Chiesa infallibile può indicare la verità e affermare che fuori di essa non c’è salvezza, ma i moderni si rivolgono ad altri: «il giorno in cui la società, dimentica delle sue decisioni dottrinali, ha domandato che cosa sia verità ed errore alla stampa e ai parlamenti, ai giornalisti e alle assemblee, in quel giorno errore e verità si sono confusi in tutti gli intelletti e la società è caduta nella regione delle ombre e sotto l’imperio dei sofismi. Sentendo in sé, da una parte, un’imperiosa necessità a sottomettersi alla verità e a sottrarsi all’errore, ed essendogli d’altra parte impossibile verificare che cosa sia l’errore e che cosa la verità, il nostro tempo ha compilato un catalogo di verità convenzionali ed arbitrarie e un altro di supposti errori, e si è detto: ‘Adorerò le prime e condannerò i secondi’, ignorando, tale è la sua cecità, che mentre adora e condanna gli altri esso non adora né condanna nulla, o che condannando o adorando qualcosa, adora e condanna se stesso» (pp. 85-86). La verità senza rivelazione è ridotta all’opinione, al giornalismo, il quale a sua volta addestra i propri lettori fedeli allo «scetticismo assoluto». Forse neppure l’acuto Donoso poteva prevedere teologi ed ecclesiastici nutrirsi di quel medesimo verbo giornalistico, senza fondamento, e predicare l’incertezza, il dubbio come virtù. L’ossimorico predicare il vangelo del dubbio. E intanto le biblioteche sprofondano sotto il peso di questi cataloghi di «verità convenzionali e arbitrarie», più o meno urlate con gusto espressionista.

La democrazia cattolica

«Nel cattolicesimo l’uomo non è mai solo» diceva Donoso e già spiegava in negativo la nostra epoca acattolica, le alienazioni d’ogni tipo, le solitudini più o meno disperate, l’atomizzazione dell’Occidente. La letteratura e il cinema polizieschi dei mondi protestanti ne sono oggi la conferma.

La figura del papa unisce quella del monarca assoluto con la scelta elettiva che elimina appunto il sangue, l’aristocrazia per diritto di sangue. Anche il pastore abruzzese può salire sul trono di Pietro è l’eterno Leitmotiv cattolico che riprende Schmitt nel suo Cattolicesimo romano e forma politica, e questa possibilità unisce i vantaggi delle due forme di potere, afferma Donoso. Un’altra caratteristica di universalità, monarchia e democrazia fuse insieme. Se la monarchia simboleggerà quel Dio unico di cui il pontefice è il vicario in terra, la democrazia cattolica apparirà, agli occhi di Donoso, «immensa». «Nulla in questa società prodigiosa è stabilito in favore di chi comanda ma tutto è per la salvezza di chi obbedisce […]; il buon pastore deve morire per le sue pecore» (p. 94). In un certo qual senso una simile democrazia è anche la «potentissima oligarchia» che costituisce la gerarchia e ha come «prerogativa altissima» non quella dell’esercizio del governo bensì di «rendere il Figlio di Dio schiavo della sua voce». L’espressione forte di Donoso è una parafrasi di quella che il Vangelo riporta come parola di Cristo a Pietro: ciò che scioglierai su questa terra sarà sciolto nei Cieli. Quindi la loro alta prerogativa è quella del «diritto di perdonare».

Una soprannaturale deificazione dell’uomo

La fede in una «trasformazione radicale» che cambi le creature, anzi che modifichi la natura umana, è presente in varie culture e «non c’è erudito che non ne scopra le tracce in ogni religione per poco che se ne occupi» (p. 100). Il comparativismo dei Lumi può volgersi nella glorificazione del cattolicesimo: quelle sparse e vaghe nozioni presenti anche se più o meno nascoste in tutta l’umanità rifulgono nella chiarezza esemplare dei dogmi della Chiesa di Roma. Satana «non ingannò del tutto i nostri progenitori quando disse loro che sarebbero diventati simili agli dèi […], l’errore della teologia pagana non è tanto nell’affermare che l’umano e il divino sono destinati a congiungersi, ma piuttosto nella loro totale confusione fra natura divina e natura umana, laddove il cattolicesimo, considerando le due nature del tutto separate, giunge alla unità attraverso la soprannaturale deificazione dell’uomo» (pp. 100-101). Quel Rinascimento che vedeva Roma affermarsi sui residui bizantini e sulle teologie germaniche – e che non a caso produceva in poco tempo la scissione eretica dell’Europa resistente alla latinizzazione – aveva al centro proprio il miracolo della «soprannaturale deificazione dell’uomo», qui era il punto-chiave dell’identità cattolica, qui nasceva il duro contrasto con l’uomo visto solo come peccatore, ovvero l’angosciosa visione luterana. È merito di Donoso averlo riconosciuto. Satana comunque è speciale nel copiare, Simia Dei, scimmia di Dio,che dice apparentemente le stesse cose: sarete come Dio, non precisa – manca il Logos – che, pur somigliando, resterete umani divinizzati, non vi trasformerete mai in dèi, come avviene nei miracoli gnostici. Questo l’antico imbroglio. Perciò la Chiesa ha sempre dovuto fissare dei dogmi, facile essendo lo scivolamento di senso, da cui deriva quel carattere «indistinto» che, secondo Donoso, caratterizza il moderno.

Il «Dio della verità» nei cieli e il «Dio dell’assurdo», l’uomo, sulla terra, in una specie di parodia. Molta teologia dell’assurdo, disperata o quantomeno inquieta, celebra forse senza saperlo soltanto l’uomo. Continui capovolgimenti di senso, i paradossi dei «figli di Caino» fanno sì che la saggezza dei secoli diventi superstiziosa ignoranza, che il governo appaia come una tirannia, l’obbedienza schiavitù, «che il bello è brutto e il brutto bellissimo». Siamo con quest’ultima inversione nel cuore dei problemi contemporanei. Negli anni di Donoso, un convertito al cattolicesimo, un apostolo del Romanticismo, Friedrich Schlegel predicava il «bello del brutto» senza l’ironia di Chesterton. Contro questo continuo prendersi gioco della logica, Donoso ribadisce «l’incomparabile bellezza delle soluzioni cattoliche».

L’uguaglianza nel dolore

L’«uguaglianza nel dolore»: ecco il principio che annichilisce tutto l’affannarsi per le questioni sociali. Che cosa sono i piccoli privilegi materiali di fronte alle malattie e alla morte? Questa l’essenza del pensiero conservatore. Nient’altro che invidia sociale pare quello scrutare la ricchezza altrui e chiederne una manciata mettendo tra parentesi l’ingiustizia profonda dei malanni fisici. In alto o in basso, «non esiste carne che non abbia conosciuto il dolore e spirito che non abbia conosciuto l’angoscia». Una volta placata la fame, come ai nostri giorni, l’attivismo progressista per enfatizzare i segni di classe viene meno. Resta l’offesa alla dignità dell’uomo fatto a somiglianza di Dio nel lavoro di fabbrica che pare inventato per negare la sua immagine divina, così come avviene in molte stanze del museo contemporaneo dove un ossessivo caricaturizzare, una sempiterno ridacchiare – quale quello che secondo i Padri della Chiesa caratterizza l’Inferno – tentano ugualmente di cancellare, e con violenza, le tracce di ogni metafisica. Alla ricerca di un equilibrio su questo mondo, Donoso lo scorge anche nel modo maldestro cui son dannati gli impostori e nei limiti messi «alle stesse virtù di coloro che sono mirabilmente sagaci». È il demonio ad avere «la sagacia senza la virtù» e «la malizia senza la goffaggine», con tutto lo «smisurato potere» che ne consegue.

C’è un termine che ricorre nelle conversazioni progressiste, soprattutto in tempi recenti: quando si tratta di scegliere, di affermare se una cosa è bianca o nera, se si sta con Gesù o con Barabba, esce il magico aggettivo, la questione è complessa. La complessità impedirebbe di scegliere. Donoso spiega questo arrotolarsi nei distinguo dicendo che «principale interesse del liberalismo è di non arrivare mai al giorno delle negazioni radicali o delle affermazioni sovrane», il liberalismo annega nell’eterna discussione – la borghesia clasa discutidora – «perché sa bene che un popolo che ascolta continuamente dalla bocca dei suoi sofisti il pro e il contro di tutto, finisce col non saper più a che cosa credere e col domandarsi se la verità e l’errore, il giusto e l’ingiusto, l’onestà e l’infamia siano cose fra loro contrarie o siano una stessa cosa osservata da diversi punti di vista» (p. 233). La critica al liberalismo d’antan è quella che oggi si può rivolgere alla sinistra in voga. Il socialismo con la sua tragica possanza è sparito di scena. Resta lo scetticismo, il radicalismo nient’affatto chic, la discussione futile e lo spazio salottiero che presuppone. Oggi la vittoria dei socialismi su tutti i liberalismi prevista da Donoso – e che i cattolici in genere sempre diedero per scontata quando non l’auspicarono – è già superata. Un liberalismo di ritorno, incongruo, ancor più sfuggente, impalpabile, ha spazzato via ogni idea socialista. Nonostante i moralismi e i puritanesimi diffusi come non mai, anche nel mondo latino, non si fa più caso al fatto che la corruzione appare «il dio del liberalismo», tutte le società finite nel liberalismo muoiono di una stessa morte, la «cancrena» della corruzione. «Tutti insieme corrompono le masse con le promesse, e le masse corrompono tutti con il loro minaccioso muggire» (p. 243). Ecco spiegata in due parole la democrazia e la demagogia, anche quella massmediatica, un «minaccioso muggire».

C’è un mistero irrisolvibile per il socialismo: le origini del male. Non, naturalmente, le cause più vicine, lo sfruttamento da parte dei capitalisti, ma il perché che ne è alla base. Ovvero, c’è una cattiveria intrinseca nel cuore dei ‘padroni’? c’è forse un male endemico nel sistema capitalistico per cui gli umani sono costretti a sottomettersi a un siffatto sistema? Lo si fa per i soldi? Allora la natura umana è attratta dalle ricchezze, è forse questo il guaio? La risposta, le risposte sono cruciali. Il cattolicesimo sostiene la realtà del male e della redenzione; lo stesso pensa il socialismo. C’è però una differenza di non poco conto: i cattolici credono nel male dell’uomo e nella redenzione operata da Dio; i socialisti credono nel male della società e nella redenzione operata dall’uomo (dalla ‘classe’ dirà il socialismo marxista che ancora non è così plastico davanti a Donoso). Si torna quindi alla solita confusione per cui l’uomo viene divinizzato senza che una tale trasformazione sia considerata un fatto miracoloso, che richiede un intervento divino. Ancora una volta, Donoso mostra come la discussione rimandi alle origini teologiche.

Essendo le scuole socialiste «essenzialmente teologiche» anche quando lo negano, a differenza di quelle liberali, è chiaro che sedussero gli umani più sensibili alle questioni religiose. Una tale tragica coscienza poteva sembrare una modernizzazione del cristianesimo. Niente a che vedere con quello che avvenne dopo, negli ultimi decenni quando, liberatosi per coerenza antimetafisica, delle costruzioni spirituali, rimase un materialismo che riduceva assai l’orizzonte: tutta una questione di soldi, una versione speculare del liberalismo, benché più misera. Questioni salariali (quattro soldi) vs. liberi arricchimenti. In tempi più recenti poi, nella nostra attualità, peggiora lo spirito di invidia che si formò a quella scuola e si occupa il giorno interessandosi alle tasche altrui, confrontando, contando quanto guadagnano, quanto spendono, quanto rubano, quanto son corrotti gli altri, quasi si fosse dei confessori di massa, responsabili delle anime dei più, senza le tecniche ascetiche per uscire indenni da tanto marciume quotidiano.

Anche lo scandalo della bruttezza e della vecchiaia avevano in Donoso delle spiegazioni teologiche. Nonostante la «guasta natura» dovuta ad Adamo – il più grande peccatore, secondo lui, mentre nel dibattito d’oggi appare quasi innocente, al più vagamente stolto – , la bellezza risiede qui tra noi, «un po’ di bellezza», e nella sua ricerca continua dell’armonia Donoso ritiene che anche le bruttezze, ben mescolate, producano qualcosa di bello, di armonico appunto. Ma il guaio nasce nel contrasto violento, ragion per cui, per chi fu bello da giovane, a contatto con i peggioramenti della vecchiaia, produrrà una maggiore angoscia: «la bruttezza fisica sembra diminuire man mano che passano gli anni; la vecchiaia non disdice alla bruttezza […]. Nulla è invece più triste e più orrendo alla vista e all’immaginazione della vecchiezza sul volto di un angelo o della bruttezza unita alla primavera della vita. Le donne che, essendo state belle, conservano nella vecchiaia tracce della loro antica grazia, mi sono sembrate sempre orribili; qualcosa dentro di me grida: ‘Chi è stato il grande colpevole che per la prima volta unì quelle cose che Iddio fece distinte?» (p. 292). Evidentemente le alchimie romantiche di tipo estetico gli erano proprio estranee. Paura avrebbe provato l’ambasciatore spagnolo in Prussia se avesse visto le opere dell’espressionismo tedesco che di quella disarmonia saziavano la loro fame spirituale.

Più profondo il discorso sul senso del dolore, più scandaloso agli occhi dei moderni. Terribile appare infatti a lui la sofferenza che non è sentita come una punizione: insensata, inspiegabile, casuale, scuote la nostra mente e intensifica l’acutezza del male. «Il castigo fu il nuovo vincolo di unione fra Creatore e creatura, e in esso si associano misteriosamente misericordia e giustizia […]. Privando la sofferenza e il dolore del loro carattere di castigo, non li si priva soltanto del loro carattere di vincolo tra Creatore e uomo, ma soprattutto della loro azione espiatoria e purificatrice sull’uomo. Se il dolore non è un castigo è un male senza mescolanza di bene» (p. 296). Il ‘progressismo’ può esser letto come il più grande tentativo di distrazione da questo passaggio obbligato nel dolore. Donoso è invece convinto che per trasformare «in santa allegria la propria torbida tristezza» sia necessario il riferimento alla purificazione cristiana. Il dolore «accettato volontariamente è la misura di ogni grandezza; ché non può esservi grandezza senza sacrificio, e il sacrificio altro non è che dolore volontariamente accettato» (p. 298). Vi si risente l’eco di de Maistre.

«Il mondo, fino a oggi, è stato salvato dalla potenza della Chiesa nello sradicare le eresie, le quali, consistendo principalmente nell’insegnare una dottrina diversa da quella della Chiesa con le stesse parole che questa adopera, avrebbe trascinato il mondo già da molto tempo verso la catastrofe, se non fossero state estirpate» (p. 336). Aveva visto il messianismo della Rivoluzione francese, poteva profetizzare i totalitarismi del Novecento che volevano redimere l’umanità. La «grande eresia del secolo XVI», il protestantesimo del sacerdozio universale, era secondo lui il motore di tutte le eresie, di tutte le rivoluzioni. E «non si può non vedere nelle moderne rivoluzioni, paragonate alle antiche agitazioni, una forza invincibile di distruzione, la quale, non potendo essere divina, è satanica» (p. 338). Ma tutte le eresie somigliando all’ortodossia, come le opere di Satana, scimmia di Dio, Donoso può concludere che «il socialismo è oggi un semicattolicesimo e niente più» (p. 360), un cattolicesimo assurdo, irragionevole.

Delle pene

Un’altra imperdonabile affermazione di Donoso è quella sulla pena di morte. Senza gli ‘estetismi’ sul boia di de Maistre, lo Spagnolo arriva a considerare minutaglia i reati che tanto inorridiscono i nostri contemporanei e a irridere alle pene smisurate che sono previste in tali casi. Il termine di paragone resta il patibolo, agitato, va detto, non in chiave di isterica difesa, come aveva fatto Lutero e dietro di lui i puritani negli Stati Uniti che invitano ad abbattere il cane rabbioso affinché non si diffonda la ribellione pericolosa per la proprietà e il benessere civile, Donoso piuttosto ne fa un motivo di giustizia. Se abolite la pena di morte – dice – «è evidente la dissoluzione di qualsiasi sistema penale». Ma l’interrogazione va oltre, mette in crisi il boia americano che difende la gente quieta: in nome di che cosa lo Stato infligge la pena di morte? Come può esistere un delitto, un reato da pagare con la vita – si domanda il cattolico –, che non sia un peccato? La «secolarizzazione totale dello Stato […] è una teoria inconciliabile con quella che giustifica la pena». All’orizzonte intravedeva le «languide teorie dei criminalisti moderni». Ma comprendeva anche i pericoli di un mondo di fiabe promesso con faciloneria ai popoli. «Gli stessi che hanno fatto credere ai popoli che la terra può essere un paradiso, ancor più facilmente hanno fatto loro credere che dovrà essere un paradiso senza sangue. Il male non è nell’illusione ma nel fatto che se a tale illusione dovesse un giorno prestar fede il mondo, il sangue sgorgherebbe persino dalle dure rocce, e la terra diventerebbe un inferno. In questo oscuro e basso mondo l’uomo non può aspirare a una fortuna impossibile senza incorrere in una sfortuna tale da fargli perdere la poca felicità che gli è stata data» (p. 379). Così il pragmatico cattolico verso la fine del suo tomo. Forse non immaginava quanti irenici frati e suore del suo cattolicesimo predicano quella illusione e collaborano ai vari inferni in terra.
La Chiesa di Roma che ha attraversato negli ultimi decenni il versante protestante del cristianesimo, quasi un periodo penitenziale, con il purgatorio atroce dell’iconoclasmo, con la fase autopunitiva della liturgia di gusto borghese, ha perciò difficoltà a parlare di armonia, a ricordare l’armonia del suo pensiero dogmatico.

domenica 22 aprile 2012

Una parola fatidica

~ LA PAURA DELL’«ARTE DEGENERATA» ~

Sul supplemento domenicale del «Corriere della Sera» di oggi, un recensore ci introduce all’ultima opera di Jean Clair, Hubris. La fabrique du monstre dans l’art moderne, con devoti elogi e una critica di fondo: «i mostri non esistono», come recita il titolo dell’articolo, ammonimento rivolto al saggista francese che apparirebbe troppo ossessionato dalle nequizie moderne. Invece a metà dello scritto s’incontra subito uno di questi mostri, che fa molta paura all’articolista. Si tratta di uno spaventapasseri con la svastica che, a distanza di quasi un secolo, ancora impedirebbe di parlare. Leggiamo infatti che Clair non si dovrebbe permettere di pronunciare la parola fatidica, «entartete kunst (sic, senza neppure la dovuta maiuscola tedesca, forse per tentare di spregiarla vieppiù, ndA) o ‘arte degenerata’. Quando s’intraprende una critica del mondo moderno abbinando figurazioni mostruose e malattie mentali, è fatale evocare lo spettro di quella mostra itinerante inaugurata da Joseph Goebbels, dove i capolavori dell’arte moderna, dall’espressionismo al cubismo erano messi fianco a fianco delle immagini degli storpi, degli schizofrenici e di altri esemplari razzialmente ‘impuri’». Il destino dunque prescriverebbe che, avendo i nazisti parlato per primi di «arte degenerata», ci si astenesse dal pensare una simile definizione e tantomeno dal pronunciarla in un pubblico discorso. Come dire che, avendo i bolscevichi inventori dei gulag o gli ultrasanguinari khmer rossi parlato delle nefandezze della forma capitalista, ci si dovrebbe proibire ogni appunto al sistema della mercificazione universale. Semplicemente delirante. Scandalizza anche che una persona colta creda ancora alla favola dell’invenzione nazista dell’espressione «arte degenerata». Ormai pure su Wikipedia riportano il titolo dei due densi volumi dell’ebreo Max Nordau, Entartung (Degenerazione), pubblicati a Berlino nel 1892, «la cui prima mira era mostrare come l’incombente fin de siècle fosse minacciata da un dilagante stato morboso nelle arti e nella cultura in genere, che andava considerato sintomo di degenerazione» (Calasso). E a sua volta, Nordau riprendeva questo convincimento da Cesare Lombroso, anch’esso ebreo, i nazisti non c’entrano niente. Erano dunque tali temi «ampiamente discussi da decenni fra gli europei beneducati» (ancora Calasso). L’accoppiata con l’arte nacque negli ambienti della psichiatria. Ne parla diffusamente Starobinski a proposito della Collezione Prinzhorn, una raccolta dell’omonimo medico, costituita da opere di malati di mente ricoverati in manicomio: a sfogliare i cataloghi, si resta stupefatti dalla somiglianza impressionante con le varie scuole ‘artistiche’ di quei tempi. Ci sono gli espressionisti e gli astrattisti – lo stesso Klee riconobbe in alcune di quelle tele «i migliori Klee» –, i surrealisti, perfino certi collage cubisti. Per degli psichiatri volenterosi si trattava di un dato positivo, un punto di incontro estetico tra ‘sani’ e ‘malati’ (anche se uno di loro mise subito in chiaro che «la malattia non dà talento»), per i surrealisti rappresentava la prova che l’arte non era una faccenda di artisti. Militanze contrapposte. Restava un forte dubbio: che ne è di un mondo in cui la produzione estetica sia interamente consonante con quella uscita dal dolore e dalle allucinazioni delle menti travolte dalla malattia? Nel 1921, comunque, un gruppo di psichiatri della Clinica universitaria di Amburgo, dopo un esame dell’arte in circolazione, all’interno di ricerche sull’idiotismo e il cretinismo, assimilano le opere di van Gogh e di Kandisky a quelle dei folli. Si parla tuttavia ancora di arte. Un’arte malata, analizzata con gli strumenti sempre limitati e poveri della psichiatria. Solo nel 1937 Goebbels rimesterà nel dibattito e copierà la formula, sottolineando l’aggettivo, colorandolo di valore morale, come spesso fanno i politici che trescano con l’etica, e allestirà una mostra demagogica con il medesimo titolo dei medici amburghesi. Ma anche qui, per favore, nessuno schieramento scontato, gli avanguardisti iscritti al partito protestarono con forti argomenti, il dottor Gottfried Benn, sifilopatologo e massimo poeta della Germania dell’epoca, trovava ignobile che il nazismo – in cui ancora credeva – attaccasse le avanguardie che, a sentir lui, erano l’anima del Terzo Reich, in particolare l’espressionismo. Ogni volta che si cita quella mostra itinerante c’è sempre chi gonfia il petto nel parlare di espressionismo perseguitato dalle camicie brune. Si rilegga il discorso in cui Benn lo celebra quale arte veramente germanica, così come difenderà il futurismo marinettiano, «destino della razza italiana», o si scorra l’elenco degli artisti che appoggiano il cancelliere del 1933 e si vedrà quanti pittori espressionisti vi figurano, la maschera libertaria degli avanguardisti sarà allora più confusa, rimbomberà soltanto il nichilismo di fondo. Ricordato questo, si concederà a Jean Clair di parlare dei mostri moderni senza timore delle parole?

Qualche riga più sotto, il bravo recensore insiste con i tabù stesi intorno al nazismo e mette in guardia Clair dall’accostarsi a «Hans Sedlmayr, lo storico dell’arte austriaco, cattolico di simpatie naziste, autore nel 1948 del famigerato Perdita del centro dove l’elemento mostruoso e demoniaco dell’arte moderna era letto come il segno del ‘tramonto dell’Occidente’ e dell’inabissarsi di una civiltà senza Dio». Perdita del centro sarebbe accompagnato da una cattiva fama, tradirebbe simpatie naziste, mostrerebbe assonanze splengleriane, risulterebbe addirittura incline «alla monomania e alla paranoia», tanto che il semiologo nazionale e autore di romanzetti neomedioevali colloca il povero Sedlmayr tra i pazzi, e questo dovrebbe suonare per l’articolista del «Corriere» come un definitivo verdetto. Probabilmente si è fidato del romanziere della rosa senza possedere alcuna conoscenza del libro in questione. Peccato che il pazzo di simpatie nazi fosse un rispettato interlocutore di Adorno, che Verlust der Mitte sia un’opera ‘goethiana’ che doveva segnare la guarigione dagli incubi politici. In Italia colpì a tal punto uno storico dell’arte come Cesare Brandi che in pochi mesi, quasi un'abiura, scrisse La fine della avanguardia, una specie di parafrasi dell’opera di Sedlmayr. Anche il leggendario Enrico Castelli, suggestionato dalle ricerche di Sedlmayr, pubblicò negli anni Cinquanta  Il demoniaco nell’arte, un volume recentemente riedito da Bollati Boringhieri con il plauso generale. Tutti pazzi? Ci si vergogna a tirare fuori le tessere nazional-socialiste nel caso degli Heidegger o degli Jung, ma torna utile l'adesione politica infetta per esorcizzare chi fissa lo sguardo severo nelle produzioni di immagini contemporanee, in quell’apparente gioco.

lunedì 9 aprile 2012

Il mattino di Pasqua

~ LA VITTORIA SULLA MORTE MESSA IN SCENA DA PIERO
E CONTEMPLATA DA ANDRÉ SUARÈS ~

Prima che Roberto Longhi ‘scoprisse’ Piero della Francesca, uno scrittore francese ormai dimenticato, André Suarès (1868-1948) celebrava «il più intelligente dei pittori», l’artista che mostrava «una mescolanza profondissima e intimissima tra intelligenza e fede». Adesso, nelle poche righe dedicate a Suarès dalle enciclopedie non si menzionano neppure i volumi del Voyage du Condottière ambientati nell’Italia dei primi decenni del Novecento. Lo scrittore marsigliese percorreva a piedi la nostra penisola, come il suo confratello tedesco Rudolf Borchardt che batteva palmo a palmo la Toscana, fuori dalle limitate rotte ferroviarie. Anche Suarès prediligeva la Toscana, Siena in particolare, ma si spinse fino a Roma, che non amò mai, nei suoi tanti viaggi in Italia. Si considerava un condottiero spirituale, «un cavaliere errante, che ho visto partire dalla Bretagna per conquistare l’Italia. Perché ormai, in un mondo in preda al carnaio e alla plebe, la più alta conquista è l’opera d’arte». Era la fine dell’Ottocento quando cominciò quella «conquista d’Italia». Si considerava un resistente, un artista «in un’epoca in cui nessuno lo è più» e si specchiava così nel suo personaggio: incapace di guadagnare denaro, «preso pertanto da ogni cosa della terra, amante di ogni seduzione, avido soprattutto di dare, cogliendo un piacere che nessuno ha saputo assaporare meglio. […] sempre povero, talvolta mendicante», collerico, «sembrava straniero dappertutto». «Lo si è creduto anarchico, era la gerarchia fatta uomo» «con un amore per la creazione che nessuno eguaglia…». Proust si convinse a visitare Venezia grazie alle prose seducenti di Suarès. Ogni tanto qualcuno in Francia si ricorda che il suo Voyage è «guida incomparabile» (Jean d’Ormesson) per capire l’Italia e la sua arte. Il poeta Yves Bonnefoy sulle tracce di Suarès ha ripreso il culto per Arezzo come luogo dell’anima e per Piero. Agli occhi del Condottiero della Bellezza, diviso tra la passione per i santi e quella per gli eroi, il pittore della Croce fu subito il suo eroe e divenne «Piero il grande» nel capitolo aretino che apre il volume del Voyage titolato Sienne la bien aimée da cui traiamo queste poche righe sul mattino di Pasqua. Paradossalmente ma non troppo, l’opera francese in cui si magnificavano con sapienza le città del Belpaese come mai avevano fatto i nostri cugini d’Oltralpe sempre affetti da un certo sciovinismo, non ha visto ancora una traduzione italiana (salvo una pubblicazione locale limitata alle pagine senesi).

«Piero ha dipinto la Resurrezione, o per meglio dire Gesù che esce dal Sepolcro. Così Borgo sembra derivare il suo nome proprio dall’ammirevole opera del suo pittore. Questo affresco è senza dubbio l’ultimo cui Piero abbia messo mano. Doveva avere allora dai settant’anni in su. Non c’è dipinto che non sappia meno di vecchiaia. Una forza intatta e una altrettanta sicurezza. Una indomabile energia che si possiede e nessuna debolezza da temere. Il genio è più vigoroso, addirittura più insolente che mai; e il pensiero magnifico. Un tale capolavoro non ha altri equivalenti che la Crocifissione sublime di Grünewald a Colmar: vi si contrappone, polo a polo, come il mezzogiorno al nord, e il giorno alla notte. Piero è proprio il figlio nobile della città del Sepolcro. Crede alla resurrezione e all’immortalità. La sua fede sembra certa, piena di autorità e di calma violenza. Il Salvatore è un guerriero. Al termine della notte, scaturisce dalla tomba, la croce in pugno, come uno stendardo, come una lancia. Il suo gesto è quello di un atleta, la sua taglia quella di un gigante. Sotto il sepolcro aperto, i soldati di guardia dormono. Il più vigilante di tutti, che dovette cedere alla fatica per ultimo, il torso dritto, addossato alla tomba, si è assopito con la guancia a contatto con la sua lunga lancia, che serra tra le mani. E il piede del Cristo, che sale a questo primo grado della resurrezione, tocca quasi la barbetta all’angolo del legionario addormentato. Il loro Dio resuscita, e questi non vedono niente, non intendono niente. Veri fedeli, veri soldati.

Potente e sofferente, Gesù è terribile. Nel Giudizio universale, Michelangelo se ne è ricordato. Il suo sudario è un’armatura, il furore gonfia le pieghe di questa toga. Il piede sinistro in aria, che preme il bordo del sarcofago, il ginocchio a squadra, egli sta per salire in cielo con un solo slancio, rischiando di schiacciarsi prima sulla terra; il medesimo slancio anima il suo braccio armato dello stendardo. Il volto ha visto la morte, mantiene le tracce del supplizio. Che vittoria dolorosa. Ma il movimento totale della forma cancella ogni sentimento di dolore: il corpo di questo atleta è quello di un vincitore infallibile. Egli occupa il centro del dipinto. La figura parte dal suolo, ove il piede destro preme ancora la pietra del sepolcro, per andare fino al cielo tempestoso, che tocca la croce dello stendardo. L’intero paese, alberi, cielo e montagne, corre dietro al Cristo. I giochi d’ombra e di luce, forse per la prima volta nell’arte del dipingere, danno un’anima e un canto all’ora dell’alba, tra la notte e il giorno, che è l’ora più da brividi tra tutte, quella irreale e tragica della resurrezione».

domenica 8 aprile 2012

Exultet

~ IMBRUTTIMENTO DELLA LITURGIA
E LUCE PASQUALE~

Il Venerdì santo, in una chiesa di Roma, a Monteverde, nella canonica ora nona, nel momento supremo, «et inclinato capite tradidit spiritum», due o tre fiammelle sospese in un ‘sepolcro’ che sembra un quadro astratto; dall’altro lato, nella cappella analoga un presepio ultrarealistico con tanto di rumorosissimo scroscio d’acqua sembra uno scherzo sinistro, forse è soltanto disprezzo della liturgia. La notte scorsa il canto del preconio pasquale, che è una pagina eccezionale della cultura occidentale – pare che Mozart abbia detto: «rinuncerei a tutta la mia musica pur di aver composto l’Exultet» – era ridotto in molte chiese a una melodia canzonettistica, tradotto in italiano approssimativo, eseguito ancor peggio (si veda sul canale «you tube» gli imbarazzanti esempi di come viene trattato l’annuncio più importante della storia, e si è lieti per la grazia di averlo ascoltato alla Trinità dei Pellegrini, secondo il rito romano tradizionale, nella sua sonorità senza microfoni, nella massima solennità, scandito, irruento, davvero gioioso). D’altronde anche la Cappella Sistina strepita da tempo e nubi si addensano sull’istituto pontificio che dovrebbe salvare la musica sacra. Questa mattina poi, nella piazza berniniana, sull’altare papale, faceva la sua comparsa ancora una volta quella atroce pensilina bianca che neppure un concerto rock ammetterebbe. La desolazione attuale della civiltà cattolica immalinconisce anche il giorno di Pasqua. Viene però in soccorso la parola di Paolo letta nella Missa in Coena Domini: succedeva di peggio all’epoca delle origini – tanto idolatrata dai cultori della filologia –, anche nei riti catacombali se ne vedevano di tutti i colori. «Fratelli, nelle nostre riunioni non si commemora più la Cena del Signore. Infatti ciascuno pretende mangiare i suoi cibi: così, mentre c’è chi patisce la fame un altro è ubriaco. Ma non avete casa vostra per mangiare e per bere, o volete mortificare la santa assemblea e far arrossire i poveri? Che devo dirvi? Lodarvi? Niente affatto» (I Cor, 11, 18-22). Ci vollero secoli per far risplendere la liturgia romana, per limitare la «mortificazione della santa assemblea». Che in un sol colpo si siano rinnegati i secoli non è certo da lodare, direbbe con franchezza l’apostolo, ma l’epistola paolina ci informa così che la Chiesa di Roma è sopravvissuta a ben altre disgrazie. «Si allieti pure la madre Chiesa ornata dal trionfo di tanta luce», recita appunto l’Exultet della notte di Pasqua.

giovedì 5 aprile 2012

Una predica bizantina

~ LA MEDITAZIONE DI UN PROFESSORE RUSSO
SUL VENERDÌ SANTO DELLA STORIA ~

Durante la Settimana santa, in quasi tutte le nuove chiese – gli hangar in cemento armato, i contenitori per masse anonime, i templi della mistica di fabbrica – non velano le immagini, non interrompono il suono dell’organo, non legano le campane. Vi regna il sempre uguale, anche nella liturgia. Il tempo penitenziale impone una provvisoria messa tra parentesi di quanto ci anticipa le visioni e gli ascolti paradisiaci, una transitoria perdita dei sensi che prepara la loro glorificazione pasquale, ebbene questo intervallo, questo passaggio nelle tenebre è estraneo ai loro poveri fedeli. O meglio, la penitenza in tali chiese e liturgie è inflitta tutto l’anno: le orripilanti immagini, gli insulti sguaiati alla forma, le canzonacce intonate al posto della musica sacra, le campane elettroniche sono una perenne flagellazione dei sensi. Ma le vessazioni massime restano le omelie che riecheggiano i giornali, le prediche che anche in queste ore supreme dell’anno liturgico ripetono i luoghi comuni dell’attualità: gli altri, i migranti, le tasse, il lavoro dei più giovani… Spesso i preti dimenticano che la Chiesa non ha altro da offrire al mondo che il suo Resuscitato. E non si sente proprio bisogno di un’imitazione clericale dei toni mondani (risulta peraltro assai ridicola). Per riflettere allora su considerazioni più adatte al Venerdì santo abbiamo pensato a un antichista russo, Sergej Averincev (1937-2004), che pur costretto a vivere nell’epoca, a dir poco pedestre, di Brežnev, seppe raccontare con erudizione e passione uniche nel nostro tempo lo scandalo della croce nel mondo aristocratico del paganesimo. Dalla mirabile raccolta di saggi, uscita anche in italiano una ventina di anni fa, L’anima e lo specchio. L’universo della poetica bizantina (a cura di Giuseppe Ghini, Il Mulino), riportiamo alcune pagine su quel singolare grido di dolore che in nessuna tragedia greca fu mai presente.

«L’Antico Testamento è un libro in cui nessuno si vergogna di soffrire e di gridare il proprio dolore. Nessun pianto nella tragedia greca conosce immagini e metafore del dolore così fisiche, così ‘viscerali’: nel petto dell’uomo il cuore si cela e si riversa nel ventre, le sue ossa si scuotono, e la carne si attacca alle ossa. Questa è la concretissima corporeità dei dolori del parto e dei dolori della morte, corporeità che ha il sapore del sangue, del sudore e delle lacrime, corporeità della carne umiliata; ricordiamo la ‘nudità della vergogna’ (’erjah šeth) dei prigionieri e dei futuri schiavi i cui parla Michea. In generale la percezione dell’uomo espressa nella Bibbia non è meno corporale di quella antica, con la sola differenza che in essa il corpo non è il portamento ma il dolore, non il gesto ma il tremore, non la volumetrica plastica dei muscoli ma gli oltraggiati ‘recessi del cuore’; tale corpo non è contemplato dall’esterno, bensì percepito dall’interno, e la sua immagine è composta non dalle impressioni degli occhi ma dalle vibrazioni delle ‘viscere’ umane. È l’immagine di un corpo sofferente, di un corpo straziato nel quale, tuttavia,vive il calore ‘carnale’, ‘viscerale’, ‘cordiale’ dell’intimità, calore estraneo allo statuario corpo dell’atleta ellenico che fa mostra di sé. […] [Negli esicasti] il respiro che viene a mancare per tanto sentire e può celebrare Dio, e ancora più il cuore che trema di terrore e gioia e a volte diventa come morbida cera che si fonde, il cuore, ricordato nei libri dell’Antico Testamento 851 volte: sono questi i più importanti simboli della concezione biblica dell’uomo. Tra questi simboli deve essere segnalato ancora il ‘ventre’; anzitutto, naturalmente, è il ventre materno che partorisce nel dolore (rehem), il quale si presenta nella semantica biblica come sinonimo di ogni grazia e misericordia (blago-utrobija [buone viscere], come nella Bibbia impararono ad esprimersi i bizantini e dopo di loro gli slavi battezzati dai bizantini): la simbolica dell’amore materno ‘caldo’ e ‘viscerale’ tanto caratteristica della cultura ortodossa bizantino-slava quanto estranea all’antichità, proviene dall’Antico Testamento, sebbene sia stata trasformata in modo sostanziale nell’immagine della maternità virginale della Madonna. […] Ma, accanto a tutto questo, il ventre è in generale l’immagine della tenera, sensibile, dolorosa assenza di difese davanti alle percosse. Il Libro dei proverbi di Salomone riferisce di percosse che penetrano nei ‘recessi delle viscere’.

[…] La lacrimevole compassione che abbraccia tutto il mondo, intesa non come emozione temporanea, ma come perenne condizione dell’anima e per di più come cammino di esaltazione, di ‘assimilazione a Dio’, è un ideale assolutamente estraneo alla cultura antica. […] Le lacrime sono appropriate all’animale, alla creatura tremante, ma solo il riso è appropriato alla divinità. Per contrasto si potrebbe ricordare l’affermazione cristiana così spesso ripetuta, e cioè che Cristo piangeva e mai non rideva […]. [Per gli antichi] lo scopo della vita è la libertà dal dolore, e la maggiore libertà dal dolore è data dalla morte. Raccontano che gli spettatori delle lezioni di Egesia si affrettarono a mettere in pratica il suo insegnamento, così che le lezioni furono proibite per ordine di Tolomeo Filadelfo; se ciò è inventato, non è inventato male: l’insegnamento del riso trapassa infatti organicamente nell’insegnamento al suicidio.[…]

Come cosa l’uomo si trova nelle mani del Creatore, come argilla in mano al vasaio; ma in quanto non è una cosa l’uomo sta di fronte al Creatore come partner di un dialogo. L’autorità di Dio sull’uomo si esprime non come silenzioso impiego di una cosa, ma come ordine espresso verbalmente in ‘comandamenti’, da una volontà a un’altra volontà; e appunto per questo l’uomo può disubbidire. Adamo è onorato dalla ‘immagine e somiglianza con Dio’; ma, a differenza degli esseri naturali che non possono perdere la loro immagine non-divina, non-simile-a-Dio all’uomo è data la possibilità di distruggere con le proprie mani la somiglianza a Dio. […]

È assai importante il fatto che la venuta di Dio nel mondo degli uomini nell’interpretazione del simbolo di fede niceno-costantinopolitano non sia semplicemente una ‘incarnazione’, cioè una materializzazione, ma precisamente un ‘inumarsi’, un’assimilazione della natura psico-fisica dell’uomo; e che dopo la resurrezione e l’ascensione di Cristo tale natura attraverso il suo indissolubile legame ‘ipostatico’ con la seconda persona della trinità risulti assimilata alle profondità della vita intradivina. […] Se Cristo è Dio-uomo ‘per natura’, ogni cristiano è potenzialmente Dio-uomo ‘per grazia’, e prima in quest’ordine è Maria Vergine, nella cui persona la natura umana, insieme ai suoi aspetti più corporei (quali la realtà ‘viscerale’ della maternità, che occupa un posto così importante nel sistema figurale-simbolico della poesia sacra bizantina), ascende al di sopra dell’incorporea spiritualità degli angeli […]. È proprio nella tradizione cristiana che per la prima volta appare il termine ‘superuomo’, che avrà poi un così strano destino. […]

Per il ristabilimento della dignità regale dei discendenti di Adamo era necessaria la venuta e la morte in croce di Cristo, cioè l’evento che fa appello ai più profondi sentimenti dell’uomo e che avanza a questo stesso uomo le più incredibili richieste, dato che questi è stato ‘comprato’ a così ‘alto prezzo’. […] La sua presente condizione per quanto dignitosa, non può non essere considerata dal cristiano come vergognosa, essendo costretto a misurarla con il metro dell’assoluto: ogni suo merito è finito nel mentre che la colpa è infinita. Il cristianesimo istruisce l’uomo a concepire il proprio corpo come tempio di Dio, e il più grave motivo di lamento è che questo corpo sia ‘tutto profanato’. Il cristianesimo inculca nell’uomo l’idea che egli è portatore dell’immagine di Dio, e quali lacrime basteranno per piangere l’umiliazione di questa immagine?».

lunedì 2 aprile 2012

La Messa di un santo

~ NEI GIORNI DEL GOLGOTA
IL RACCONTO DEL SANGUE SU UN ALTARE NEL GARGANO.~
LE TESTIMONIANZE DI GUIDO PIOVENE
E DI GRAHAM GREENE A PROPOSITO DI PADRE PIO ~

Nel suo Viaggio in Italia condotto per la radio, Guido Piovene passò per San Giovanni Rotondo e narrò di padre Pio. Correva l’anno 1953, l’aristocratico scrittore veneto che percorreva in lungo e in largo la penisola, assistette alla Messa dello stigmatizzato alle prime luci dell’alba. Quella singolare liturgia continuò fino alla morte del frate, sempre lunghissima, sempre in latino anche quando gli innovatori avevano stravolto i sacri misteri. Scrive Piovene in quel volume assai bello sull’Italia scomparsa:

«Padre Pio non si muove dal convento: non si occupa dei lavori che promuove, se non per sollecitarli, e li abbandona ai tecnici. Dire Messa è per lui l’avvenimento capitale della giornata. […] La Messa è alle cinque della mattina ad un altare secondario della chiesetta. La folla però comincia ad assediare di notte la porta chiusa. Quella Messa che, benché normale, dura un’ora abbondante, è un evento drammatico, che porta padre Pio di sbalzo molto più su della leggenda diffusasi intorno a lui. Mi limito a ricordarlo nell’emozione di quel dramma, lasciando giudicare a altri la sua fama di santo magico, su cui non saprei dire nulla. Padre Pio dice Messa in uno stato, certo autentico, di estasi e di rapimento: non un rapimento immobile; un rapimento travagliato, in cui si alternano sentimenti diversi, con una specie di altalena tra l’ebbrezza e l’affanno. Le mani, che durante il giorno ricopre con mezzi guanti di lana, sono nude all’altare e mostrano la grande macchia rossiccia delle stimmate. Si vede che gli dolgono; e specialmente soffre nel genuflettersi, come lo richiede il rito, pesando sul piede sinistro. Allora si aggrappa all’altare; un’ombra di dolore fisico gli appare in faccia, come nel sonno dei malati, che soffrono del male ma ne sono incoscienti; e si mescola ad una sofferenza maggiore. È chiaro che il frate rivive, anima e corpo, il sacrificio di Cristo; più che una Messa, il suo è un colloquio con Cristo, concitato a momenti, ed in altri disteso. I sentimenti discordanti, di gioia o d’angoscia, che palesa sul volto, sono suscitati in lui dalla vicenda a cui partecipa. Ho visto padre Pio togliersi dalla manica un fazzoletto, adoperarlo, e poi gettarlo sull’altare; la sua Messa è, nel tempo stesso, tragica e confidenziale» (Viaggio in Italia, ripubblicato da Baldini & Castoldi, 1993, pp. 765-766).

Due anni dopo è l’inglese Graham Greene a passare nel paesetto pugliese per vedere san Pio celebrare Messa. Qualche tempo fa la «New York Review of Books» rievocava il fatto in seguito a una polemica scoppiata sul numero del 2 dicembre 2004 a proposito del cattolicesimo dello scrittore che indagò nei doppi giochi dell’animo umano. Nel numero del 10 febbraio 2005 della «NYR», Kenneth L. Woodward, pubblicava una lettera speditagli da Greene l’11 settembre 1990 su quella sua lontana esperienza nel Gargano. Woodward aveva allora dato alle stampe un libro sui processi di santificazione nella Chiesa cattolica, l’autore del Fattore umano pensò di fargli cosa gradita testimoniando il suo incontro con un futuro santo. «Assistetti alla Messa di padre Pio in un villaggio del Mezzogiorno d’Italia», dice Greene, ricordando che era stato convinto a recarsi laggiù da un suo amico, un marchese italiano, che gli aveva suggerito di pernottare nei pressi del convento. Ma l’inglese preferì arrivare all’alba nella chiesina. «Non gli era concesso di celebrare all’altare maggiore, diceva la sua Messa a un altarino laterale, alle 5.30 del mattino. Soltanto poche donne fuori del convento aspettavano che aprissero le porte, e durante la Messa noi eravamo a due metri da lui. […] Cercava di nascondere le sue stigmate tirandosi giù le maniche ma naturalmente vennero fuori. Probabilmente non poteva usare i guanti. Ero stato avvertito che la sua Messa sarebbe stata molto lunga ma mi sembrò di normale durata e fui ancor più sorpreso quando il padre lasciò la chiesa e mi resi conto che erano già le sette senza che mi fossi accorto di tutto il tempo trascorso». Anche il letterato-agente di controspionaggio era stato strappato al suo tempo da quel drammatico rito sacrificale.