domenica 14 novembre 2010

Esilio

~ I FATUI CHE VOGLIONO ABBANDONARE L’ITALIA ~

Certi programmi rovistano in continuazione nella spazzatura per poi emettere giudizi morali. Fa parte del 'format' la coazione a guardare l’aspetto melmoso del mondo, dopo qualche puntata ci si deve sporcare assai, come degli spazzacamini, e tutto appare a quel punto come una catena di peccati. In una di queste trasmissioni della televisione pubblica sorte per supplire la politica dell’opposizione – dimostrando peraltro come oggi la politica sia abbastanza comica attività – i due conduttori hanno vagliato i pro e i contro di un esilio dall’Italia, fingendo di pensarlo sul serio. Indolore è un esilio se la grande passione brucia per l’esterofilia, rassomiglia piuttosto ai soggiorni in altri luoghi dell’Occidente che in molti si concedono ormai per lavoro e per piacere, ma il formularlo in guisa di esodo, benché senza alcuna proscrizione, suona osceno di fronte ai non pochi profughi che affrontano il mare aperto con omeriche barchette pur di mettere piede nel Belpaese.

Revival

~ A VOLTE RITORNANO E FANNO PAURA ~

Immagini di decenni trascorsi, che risalgono talvolta a mezzo secolo fa; fantasmi che provengono da periodi sepolti e appaiono come lampi, in questo nostro autunno, inquietandoci. Revival senza più «consonanza tra epoca e cuore» (Marina Cvetaeva). Spesso nei vagoni della metropolitana di Roma si vedono suonatori adulti con bambinetti che vanno in giro a stendere la mano. Da quanto tempo era insopportabilmente scandaloso un padre che facesse chiedere l’elemosina al figlio piccolo per impietosire con maggior turbamento? Ma l’indignazione vale solo per gli italici pargoli, se il bimbo appartiene a una diversa etnia può attraversare i vagoni con il piattino, avanti e indietro per ore, senza andare a scuola. I buoni per partito preso compatiscono i derelitti e per loro fanno una eccezione misericordiosa: la legge non conta. «Che millennio, cari, abbiamo adesso nel cortile?» (Boris Pasternak).

In televisione, un senatore inattuale, anche nei modi, ricorre a locuzioni ormai incomprensibili. Parla del rito dell’abdicazione del presidente del Consiglio, che «si deve dimettere per poi tornare», in una specie di penitenza laica, di Canossa moderna, di salita al Colle, di discesa dal Colle, di governo bis, di appoggio esterno, di accordo con questo o quel partito, di chi ci sta e chi non ci sta, di consultazioni con i padri della patria, di decisioni capitali del vegliardo che presiede il Quirinale, di governo tecnico, di ministri tecnici... Linguaggio «moroteo», si diceva in altre stagioni, piccole aristocrazie di legulei del Sud che parlavano in gergo per soggiogare i votanti. Almeno una generazione non conosce tali formule, ma riconosce le ambizioni grossolane che vi si nascondono. «Che millennio, cari, abbiamo adesso nel cortile?», ci ripetiamo confusi.

Esce il film Noi credevamo con cui la Rai ammaestra il suo pubblico nei ricordi a comando per la ricorrenza centocinquantenaria del Risorgimento, e sulla pellicola presa a pretesto si torna a discutere di ideologia, di personaggi positivi e negativi, come ai tempi dei cineforum di paese, quando si confondeva la sala buia con la sezione di partito. Intorno al terrorismo massonico dei mazziniani ci si ricama per tre ore, la colonna sonora almeno è piacevole; I demoni di Dostoevskij sono lontani. Revival nel revival in questo caso: c’è pure, dentro al film, quello del culto delle genti umili, da primo Ottocento; idolatria del popolo, con scannamento di molti contadini. Anche Visconti è lontano, gli estetismi ornano la storia patria intessuta di carriere costruite sulle scelleratezze giovanili, tra eterni rimpianti per la bohème da parte dei rivoluzionari che non vorrebbero mai vincere e sempre lottare. A spegnere la tensione del dramma basterebbe un insegnamento di Lukàcs: coloro che si pongono fuori della legalità attribuiscono «alla legge in quanto legge» un significato sovraromantico. «Che millennio, cari, abbiamo adesso nel cortile?», esclamiamo disorientati all’uscita della sala.