mercoledì 12 ottobre 2011

La decadenza dell'omelia

~ UNA PRECE PER I BUONI PREDICATORI ~

Solo il Cielo può salvare i fedeli cattolici italiani dalle brutte omelie che si moltiplicano ogni domenica. Arrivano al microfono – quanti microfoni crepitano sull’altare, sembra un palcoscenico rock – con il tono confidenziale degli intrattenitori televisivi, talvolta provano a dialogare con il popolo di Dio a colpi di battute, poi spesso parroci e viceparroci si incamminano per la strada della ‘cultura’, questo idoletto moderno onnipresente, ovverosia ammoniscono con la filologia appresa in seminario onde estirpare i sentimenti più semplici. Una volta, nel giorno dell’Epifania, se ne ascoltò uno che smontava tutte le ipotesi tradizionali sulla figura dei Re Magi, facendola proprio lunga con svariati riferimenti linguistici all’aramaico, greco ed ebraico, citazioni che scendevano sulla piccola folla di anziani ben più punitive del latinorum soppresso, e l’oratore sembrava provare un gusto cattivello a toglier di mezzo le credenze apprese davanti al presepio, per concludere quindi che i tre santi viaggiatori altri non erano che dei migranti, perseguitati allora da Erode come attualmente dal governo in carica a Roma. E la scorsa domenica, a commentare il Vangelo del giorno, quello degli invitati alle nozze (Matteo 22, 1-14), un povero prete si incartava talmente nel suo sermone da sostenere e ripetere in un discorso zoppicante che «Dio è bontà e non giudica», un’amorevolezza melensa che non teneva in alcun conto il finale di quella stessa parabola: «Allora il re ordinò ai servi: legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (severissima sentenza del sovrano-giudice), e senza arrossire per la patente contraddizione con quel che egli pronunciava subito dopo quando, andando a un altro microfono per proclamare il Credo, ripeteva le parole solenni: «di là verrà a giudicare i vivi e i morti». Dalle chiese in tali casi si esce davvero sconcertati. Nonostante le immancabili spruzzatine di etica domenicale, si apprende che Dio «non giudica»: che senso avrebbe allora il mondo? L’unico giudice sarebbe forse la singola coscienza? Avrà fatto tardi la notte anche il prete per leggere Kant?

Raccontano che Ratzinger da cardinale dicesse agli amici: «Per me una conferma della divinità della fede viene dal fatto che sopravvive a qualche milione di omelie ogni domenica». Da papa deve dare una mano alla Provvidenza affinché l’eloquenza torni in auge nei seminari. Ma la preparazione dei preti attuali è una faccenda complicata, risultando l’influenza della «Repubblica» più evidente di Tommaso d’Aquino e soprattutto più facile. Ci si abbandona all’onda del pensiero unico, si parla il medesimo linguaggio di tutti, e il cattolicesimo viene caratterizzato solo per un’eccedenza di atteggiamento caritatevole, di mansuetudine che sfuma nella resa. Bisogna pregare perché i testimoni del Vangelo non si confondano con gli ipocriti oratori dell’Onu o dell’Unesco; un tempo anche il predicatore invocava l’Onnipotente appena salito sul pulpito. A proposito di quella tribuna: si usa assai il termine «pulpito» soprattutto in senso metaforico, ma la predica non viene più da lì. Sopravvivono inutilmente i pergami nelle chiese antiche, costellati di eccellenti raffigurazioni e ornamenti simbolici che potrebbero aiutare ancora oggi a dare ordine al discorso omiletico.

Si dirà che il don Camillo di Guareschi, i tanti don Camillo della nostra infanzia non erano dei Bossuet e non di rado facevano dal pulpito pesanti allusioni politiche, ma almeno non trasformavano la predica in una lezioncina da università della ‘terza età’ (che è la stagione finale e non dovrebbe riempirsi di vano nozionismo). In quel tempo pacelliano di sicuro il modello non era l’omiletica del pietismo rivolta a far affiorare quell’interiorità che oggi ritorna in noiosissimi setting da parrocchia, trastulli del quietismo attuale. In ogni caso la decadenza dei sermoni, nella liturgia riformata che tanto esalta la parola, è un segno impressionante.