lunedì 24 novembre 2014

Illuminismi

~ APPUNTI SU DISVELAMENTI E DESENGAÑOS.
PROVANDO AD ANTICIPARE DI UN SECOLO
LA FILOSOFIA DELLA LUCE E DELLE TENEBRE ~

Chi ha detto che il migliore illuminismo sia comparso nel XVIII secolo? Mostrare ai fratelli-lettori, ai complici più o meno ipocriti, gli inganni della vita, del tempo, delle passioni, della carne, le torture del dolore, i disvelamenti dell’agonia, le crudezze che nessun evangelo laico può cancellare: questa è musica barocca, cioè i migliori discorsi del XVII secolo. Si citi Lorenzo Magalotti. Si legga con sgomento il verso di Francisco de Quevedo: «Ehi, della vita! Nessuno risponde?». Che l’eccelso suo traduttore, Vittorio Bodini così chiosa: «Par di vedere e sentire [Quevedo] battere alle nude porte dell’esistenza». Le piacevolezze del Rinascimento sventrate, il desengaño dell’umanesimo sceneggiato magistralmente. Dopo, nel secolo successivo, si indirizzò la lampada su questioni ben più meschine, si fece luce su contrasti domestici, liti tra servi e padroni, si snodarono questioni tra mortali. Un soggetto umano gonfiò il petto in modo ridicolo. E il filosofo lo illuminò compiaciuto. Bastava non lasciarsi stordire da quelle illuminazioni improvvise nelle spesse tenebre: i primi ‘illuministi’, i seicenteschi, si erano misurati con l’immenso potere della Morte, i successori su quelli redimibili di un sovrano mortale anch’esso.

Con il Settecento va in pezzi l’umanesimo cattolico e si affaccia lentamente un teismo strisciante che fa saltare il compromesso romano: ecco affermarsi la divinità astratta, il corpo dei libertini senza Dio e un Dio senza corpo.  Cade così l’intero ordine universale, la salda gerarchia al sommo della quale dominava Dio di cui l’uomo diventava metafora sulla terra, governando la natura, il creato visibile (animali e piante). Dio astratto e uomo astratto si guardano ora a distanza, pallidi, spolpati. Nasce in quel tempo il culto della natura, la deificazione di una forza oscura. Nel ritorno alla  religione antica, l’uomo perde i suoi poteri e viene sottomesso ai suoi istinti. Non bastano tutti gli artifici settecenteschi a fare da diga, l’istinto selvaggio, la forza naturale si impone. Religione antica dei villaggi, paganesimo secondo ragione filologica. In effetti sempre la religione latina (e greca) celebrò i boschi e le divinità che lì si nascondevano, mentre dall’Oriente viene il legame con  il deserto biblico, l’altare di Jahweh privo di fronde, la spoliazione delle divinità boschive. Il grande compromesso, allora, faceva convivere a Roma religione pagana e cristianesimo, equilibrio tra i due poli del bosco e del deserto, dei miti e dei riti, mediazione di Cristo, che è visto al contempo come Apollo e figlio di Jahweh.

Anche questa nuova fede nelle «grazie della selvatichezza», che si affermerà nell’evo moderno, e che fungeva da contrappunto ai Lumi,  aveva avuto un profeta seicentesco. Quando il conte di Shaftesbury introduce al nuovo culto della natura e vagheggia un ambiente incontaminato, rifiutando Bernini e considerando Pietro da Cortona «corruttore del gusto» (per estasiarsi davanti all’‘orrido’ di Salvator Rosa), non solo riporta in auge la religione dei barbari che già nel nord Europa protestante aveva ripreso forza, ma aggiunge un altro elemento distruttivo: dal bosco sacro è scomparso il nume, né Apollo né Diana vi si aggirano più, né s’incontra il cervo con la croce sul capo che apparve a sant’Eustachio, adesso è la natura stessa, la forza selvaggia, a essere onnipotente. Un panteismo che schiaccia l’essere umano: da allora la creatura dovrà piegarsi a questo potere misterioso, alla matrigna che non parla il linguaggio razionale, alla despota misteriosa, senza altra finalità che la sua crescita insensata. I poeti troveranno un ruolo: agghindare la forza bruta. In luogo dell’artificio si giocherà all’artificiosissima naturalezza (Rousseau diverrà il maestro di tali imbrogli). Ma per interpretare la divinità oscura c’è bisogno di una tecnica altrettanto anonima: la scienza, unica via per capire (diagnosticare) i risultati di una potenza divina senza nous. L’uomo allora si trasforma in servitore-interprete, creatura agitata da una forza oscura. Non solo perde lo status di figlio di Dio, ma anche il conseguente ruolo di coordinatore dell’universo, di rappresentante di Dio in terra (se il papa infatti ne era il vicario supremo, l’autorità politica ne rappresentava il potere terreno, e così via fino al padre che riecheggiava il sole divino nella famiglia). In tal modo viene a mancare il patto biblico, la certezza che i poteri umani abbiano un fondamento al di là del tempo e dei suoi capricci, la possibilità di costruire una tradizione. La morte dell’umanesimo, dell’atteggiamento cattolico cioè che rifiuta l’annullamento (bizantino e gotico) della creatura davanti al creatore, che riprende il braccio di ferro con l’angelo della tradizione ebraica e il gusto terreno dei pagani, trapassa a un certo punto nella divinizzazione dell’uomo che è tutt’altra cosa. Bisogna attendere che si srotolino il Settecento e l’Ottocento, sperimentare tutta la miseria dell’umano senza più la controparte del Dio unico, con il bosco sacro ormai svuotato degli dèi e ridotto a contraltare del mondo meccanico, l’accumulo di dati scientifici che quanto più si applica alla natura tanto più lascia insoddisfatti sulle domande ultime, quelle che maggiormente contano; bisogna avere intrapreso in massa la corsa verso il nulla, immersi in continue distrazioni organizzate per non vedere quello che ci aspetta, bisogna avere sciolto i legami con la natura (venerata insensatamente nel weekend come incontaminata, come vergine) e con il cielo (abbandonato con iattanza) e soffrire di solitudine cosmica, bisogna avere sceso tutti i gradini della abiezione per poter finalmente, con un coup de théâtre, procedere alla deificazione dell’uomo. Ma è un dio ottocentesco, risibile ed eclettico, mascherato, travestito in tutti i ruoli mitici. Un dio che si è candidato e autoproclamato, come nelle repubbliche. Un dio impotente, parodia delle debolezze di Cristo. La kenosis regalmente scelta dal Cristo-Dio diviene nell’uomo triste necessità. Ma un dio bizzoso: gran parte dei fiumi di sangue del XX secolo scorre su altari laici per i  suoi puntigli.

Profeti confusi. Il ritorno di Zarathustra apre la via ad altri profeti. Esortano soltanto, tutti. Predicatori come nelle sètte protestanti. La questione morale da due secoli tende a ridurre la religione a un faccenda etica. E già Félicité de Lamennais si lamentava (prima dell’apostasia): «Può concepirsi una religione nella quale non si sappia positivamente né ciò che si deve credere, né ciò che si deve praticare? Una  religione, insomma, che non abbia né simboli né comandamenti? Una religione che, come regola di condotta e di fede, dica agli uomini: ‘Io non so positivamente se esiste un Dio, se gli è dovuto un culto, né qual culto gli è dovuto. Non so positivamente se l’anima è immortale, se la giustizia divina le riserba in un’altra vita pene e ricompense, né quale sarà la durata di queste ricompense e di queste pene, la natura delle quali m’è completamente ignota. Io non so positivamente se il creatore dell’uomo, chiunque esso sia, gli abbia imposto dei doveri o l’abbia lasciato totalmente padrone del suo credere e delle sue azioni. Io non so positivamente se esiste qualche cosa di reale in ciò che si chiama delitto e qualche cosa di reale in ciò che si chiama virtù» (Saggio sull’indifferenza in materia di religione). Nel frattempo non soltanto i critici della religione positiva lasciavano inevase queste domande ineludibili, persino la gerarchia cattolica, i catechismi e i confessori glissavano tra i terribili interrogativi. Ci si consolava con il ritornello delle incertezze, con la glorificazione del dubbio e la dannazione del dogmatismo, facile escamotage per ridurre anche il cattolicesimo romano ad ordinaria, umana, saggezza.

La divinizzazione dell’uomo subentra perché l’ateismo radicale è insopportabile. Ci si incorona da soli, sulla falsariga di Napoleone imperatore. Ma almeno quel gesto fu ratificato solennemente, la cerimonia consacrata dalla presenza (sia pur forzata) del  papa, mentre la deificazione dell’uomo – che detronizza il Dio-uomo – avviene alla chetichella, senza nome, con numerosi eufemismi, manca perfino della data. C’è poi un continuo tirarsi indietro, grandi rifiuti, ‘non sumus digni’, non abbiamo forza, fragili siamo, non ci inganniamo, creature impaurite, che nascondiamo i timori con le forme divine. Poco più poco meno di due secoli fa. Ora siamo alle dimissioni di massa. Il fascino, l’orgoglio di esser Dio si è perso da tempo, suona ‘ottocentesco’, resta il privilegio di autoassolversi da tutte le responsabilità. Ma anche qui, che immani sensi di colpa, soprattutto dopo che la «morte di Dio» ha prodotto la «morte di Satana». L’uomo resta solo a inorgoglirsi di piccoli successi come di piccole colpe. Un ex abate di san Benedetto scrisse qualche anno fa, avendo strappato la veste monacale, un librino sull’inesistenza del diavolo. Aveva condito lo scritto di dotte citazioni della patristica come della cultura contemporanea, ma quello che sfuggiva all’ilare monaco era il senso del male: gli stermini storici gli sembravano frutto di scandalose nequizie sociali; non si rendeva conto che ogni morte, la più ‘naturale’, è già un male insopportabile. Nessuno dovrebbe accettare come naturali morte e malattie.

L’altro è nel frattempo diventato l’ossessivo specchio della desolazione di ciascuno. Aiutare il prossimo a risolvere i suoi problemi sperando così di superare i propri: a questo si riduce l’atteggiamento religioso del nostro tempo. Sempre più confuso con l’azione sociale e la politica, meglio: una politica ridotta ad azione sociale. In una conversazione con i suoi allievi del dicembre 1930, Wittgenstein tagliava corto:  «Bene è ciò che Dio ordina» (Lezioni e conversazioni). Ma poi la sua filosofia agli antipodi di quella tomistica non avrebbe saputo indicare come capire e seguire gli ordini divini.

lunedì 3 novembre 2014

I morti

~ NELLA MISERIA DELLE TOMBE
 E NEL TRIPUDIO DEI CIELI ~

Il mistero dei morti non riceve luce dal progresso, resta intatto il velamento nel precipitare dei millenni (casomai viene mascherato e vilipeso dal moderno), è affare precipuo della tradizione. I più ci sono già passati, interi popoli, miliardi di ogni èra, i fenici come i russi della rivoluzione, gli indios antecedenti la conquista come i figli dell’epoca carolingia, le etnie lontane, così lontane che le ignoriamo, e gli amici più cari dell’oggi, i parenti più stretti; noi stessi – l’almanaccatore che scrive – siamo lì, i prossimi anni o tra un’ora (somma misericordia del Supremo Reggitore consiste nel nasconderci la data decisiva; anche il condannato dagli umani alla pena capitale può sperare in un rinvio). La saggezza cattolica ha occupato due giorni della stagione dell’occaso (con un corteo dell’intero mese di Novembre), quando anche la natura pare muoversi al pianto, per dedicarli a una folla sterminata, la più grande massa di umani che la mente possa concepire: i morti. Gli affini, antenati o discendenti (secondo un imperscrutabile ordine per cui talvolta i più giovani precedono i più vecchi) che veneriamo nei ricordi e sulle tombe, hanno un nome, una figura, almeno un profilo, un’andatura; c’è poi la massa anonima, chi non fu conosciuto dalla storia e chi addirittura non conobbe le facili consolazioni della storia. Segno di morte è perdere il nome. Invano le tombe lo ripetono inciso in materiali duraturi: viene sempre il giorno nel quale anche i marmi si sbriciolano e quell’alfabeto non si conosce più. L’oblio somiglia alla vittoria della morte. Alla fin fine, alla fine della storia e delle storie, sembra di esser passati quaggiù tutti invano.

Inutili i cimiteri, gli affettuosi addobbi, senza nome e senza più tracce, anche la cenere ben presto diventa altro. Con il moderno tanto impregnato di effimero l’anima muore subito, basta una manciata d’anni per sembrare nient’altro che ‘fuori moda’, buffi i souvenir, a cominciare dalle prime fotografie a colori che già appaiono stonate, poveri morti con gli occhialoni di plastica anni Settanta imposti ai volti contadini dei nostri nonni. In ogni caso, anche nel più nobile, cioè nel più antico apparato funebre, triste risulta l’alludere a teschi e a scheletri, sparite le carni sode, l’opulenza della vita, il colorito solare, restando il pallore abbacinante. Atroce il buio della lunga notte, delle tenebre che illanguidivano i mortiferi romantici. Il silenzio assoluto, l’anonimato definitivo. Il trionfo della cenere. Il prezzo del peccato adamitico. Questo dice la liturgia del lutto. Con magrezza ascetica i pii pastori indicavano quell’indicibile che le distrazioni del mondo fanno di tutto per occultare. La meditazione sul destino di morte riservato alla stirpe di Adamo era già in voga secoli e secoli prima delle scoperte filosofiche di Heidegger. Per fare esperire questa umana finitudine i migliori predicatori mettevano in mostra il corpo loro. In conclusione della sua esistenza il sommo John Donne salì ormai cadaverico sul pulpito della cattedrale londinese e tenne il suo sermone sulla morte, il celebre Death’s Duel. Aveva tradito il cattolicesimo familiare, aveva rivestito gli abiti dei consacrati anglicani, ma manteneva nell’orecchio il suono terribile e ammaestrante del Dies Irae. Non avrebbe capito l’edulcorare del rito intrapreso dai postconciliari, tanto inumani da togliere il colore nero dagli abiti di una sì lacerante cerimonia, umiliando i simboli, istupidendo pure la morte con canzoncine squinternate, con discorsetti frusti, con chiacchiere familiari senza guida. Ancora più cupa della predica di Donne morto-semivivente fu quella di Jacob Taubes che passò gli ultimi giorni di vita rosi dal cancro a esporre il suo corpo sfinito al gelido pubblico cristiano di un seminario protestante. Interminabile discorso di tre giorni in cui il rabbino insegnava la teologia politica di Paolo mostrando ai concilianti ignari come l’apostolo aprisse un abisso tra l’annuncio nuovo e la religione degli ebrei. Né i cristiani né gli ebrei dialoganti sui dettagli sembrano aver fatto tesoro di questo insegnamento. Solo Carl Schmitt, giunto al termine di una lunga vita, aveva chiamato con insistenza rabbi Taubes a casa sua per leggere e decifrare insieme certe righe dense dell’ultimo apostolo.

Cadaveriche figure, ossuti celebranti, pallidi oratori, spenta luce del giorno decrescente che sta per arrivare al termine nel vicino solstizio d’inverno: così la cultura cattolica abituò a commemorare i morti, a consacrarli nonostante l’anonimato, ad affidarli al cielo anche se la terra ne aveva consumato pure le ossa. (Cadendo quest’anno di domenica, giorno della festa piena cristiana, la memoria del due di Novembre viene spostata al giorno successivo dal Vetus Ordo, sensibilissimo al linguaggio dei simboli e alla loro ratio. Fuori così dal clamore laico, dalle appendici folcloristiche, resta solitaria e straordinaria la celebrazione della Chiesa che si protende verso i defunti.)

Schegge impazzite di quella materna cultura cattolica sono rintracciabili nel culto di fantasmi e folletti partoriti dalla fantasia protestante e dai resti del paganesimo nordico che si vendettero al supermercato delle mode per un mini-satanismo disneyano, per una ridarella tremebonda intorno al tabù dei morti. Alla centralità della morte nel mondo tradizionale, che ancora Benjamin guardava con nostalgia, si sostituisce la corsa affannosa al suo mascheramento. La preoccupazione del filosofo ebreo per i morti, per la loro condizione fragile, lo portò a riflettere sul cinismo dei moderni: «da molti secoli si può constatare come, nella coscienza comune, l’idea della morte perda progressivamente la sua onnipotenza e icasticità. Nelle sue ultime fasi questo processo si svolge in maniera accelerata. E nel corso del secolo decimonono la società borghese, con istituti igienici e sociali, pubblici e privati, ha ottenuto un effetto secondario che è stato forse il suo scopo principale inconscio: quello di permettere agli uomini la vista dei morenti. La morte, che era già, nella vita del singolo, un evento pubblico e sommamente esemplare /(si pensi ai quadri del Medioevo dove il letto di morte si trasforma in un trono,  intorno a cui il popolo affluisce attraverso i battenti spalancati della casa del morto), la morte, nel corso dell’età moderna, viene progressivamente espulsa dal mondo percettivo dei viventi. Una volta non c’era casa, non c’era quasi stanza, dove, un tempo, non fosse morto qualcuno. (Il Medioevo sentiva anche spazialmente ciò che, come sentimento del tempo, rende così significativa la scritta di una meridiana di Ibiza: Ultima multis). Mentre oggi, in vani ancora intatti dalla morte, i borghesi ‘asciugano le pareti’ dell’eternità, e, avviandosi al termine della vita, sono cacciati dagli eredi in sanatori e ospedali, ma sta di fatto che non solo il sapere e la saggezza dell’uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta – che è la materia in cui nascono le storie – assume forma tramandabile solo nel morente». Il pensatore tedesco conclude questa pagina sulla catena della tradizione spezzata con una frase magistrale: «La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare» («Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov» in Angelus novus, Torino. 1962, pp. 245-246). Naturalmente l’occultamento della morte è confermato  dall’evento mediatico del suicidio in diretta di queste ore, fenomeno spettacolare dell’onnipotenza della connessione universale. L’impero delle merci può offrire prodotti tecnologici per il trapasso e perfino oggetti per i defunti (la nuova e ingenua usanza popolare di lasciare un telefono cellulare nella bara, equivalente del cibo che i pagani mettevano nella tomba), fa ascendere alcuni trapassati nello start system dei venditori post mortem, impone anche un furbo galateo che obbliga a scivolare intorno alle parole ai pensieri e ai gesti sul buco fatale del suo sistema, esclude comunque dal  discorso progressivo il senso della fine terrena, tanto contraddittoria con il lavoro, la produzione, la ricchezza. Nel nostro occidente regna del tutto nudo il Macabro. 

Qualcuno in rete ricorda opportunamente i versi di Giovanni Pascoli, mondo contadino lontanissimo dalla metropoli benjaminiana: «Oh! i morti! Pregarono anch’essi,/ la notte dei morti, per quelli/ che tacciono sotto i cipressi» (da Myricae).  In margine a quella lettura si resta turbati: oggi la catena si è interrotta, i vecchi non pregano e quelli che verranno con grande probabilità pregheranno ancor meno. Dove è la Chiesa che unisce morti e viventi? Dove è la Chiesa che salva le anime dalle pene espiatorie? Le indulgenze permangono, gli anni concessi, secondo il metro umano del tempo, fino alla cancellazione totale della pena, all’amnistia: l’indulgenza plenaria è validissima anche nella Chiesa postconciliare e i parroci più antiquati la ricordano, aggiungendo magari «alle solite condizioni» (che i fedeli non conoscono più), ma quanti danno credito a tale condono prezioso che fa ascendere un defunto alla beatitudine senza più tempo? Il ministero petrino non contempla il ruolo di imitatore del funzionario Onu, non quello di sociologo, di intrattenitore di gran rispetto, né di teologo sottile; compito del successore di Pietro è quella della misericordia estrema, di sciogliere cioè i legami quaggiù perché siano sciolti nei cieli, di liberare i morti dalle pene comminate dalla giustizia divina. Ma se nessuno crede più alle indulgenze, che resta del cattolicesimo? A che pro la misericordia? Perché far capriole teologico-filosofiche onde assolvere la sodomia in nome dell’amor (profano) se poi il gran perdono non si ricollega all’aldilà? Se non si crede al Purgatorio e naturalmente alla possibilità dell’Inferno, se l’eternità non è quel che più conta, l’unica dimensione cui vale sacrificare il presente, le concessioni generose della Chiesa in tema di peccati servono soltanto per consacrare nuove abitudini mondane, con la Chiesa che diventa una istituzione esclusivamente terrena come neppure ai tempi bizantini, che si agita per gli ecumenismi con altre consociate, per la pace e la guerra, la fame e le malattie, cose umane troppo umane, e il papa si trasforma in un annunciatore onorifico della new age. 

L’eternità si rispecchia – specchietto umano, certo – nei lavori lunghi, diceva Valéry, nell’arte come metafora del superamento della gabbia contemporanea. I cieli di Dante e di Frate Angelico e quelli seicenteschi di Gaulli raccontavano dei fondamenti della vita, davano luce – una luce unica – alle nostre vite, rendevano concreta la speranza, sostanziavano e orientavano desideri e fantasie degli umani. I barocchi presero in prestito la luce del mito romano, le processioni ovidiane dipinte dai Carracci in casa Farnese, la goduria dei banchettanti, delle danze sul Monte Olimpo. Sontuosissimo apparato, gaudio, gloria. Teatro dell’anima, palestra della felicità, promessa fatta ai corpi e annunciata dunque in un linguaggio sensuale. Le commemorazioni dei giorni di Novembre sono immagini speculari di una unica figura, l’umanità trapassata, dentro vi sono anche i bagliori di quei Paradisi. In un giorno piangiamo i morti per come son stati ridotti dal tempo, per quel poco e sempre meno che ci resta di loro, per la miseria della loro situazione terrena, per l’approssimazione del concetto di sonno, per la stoltezza degli eufemismi che usiamo, per gli auspici impotenti, retaggio pagano, sulla terra lieve, sul riposo senza turbamenti (Sergio Quinzio non amava neppure la parola ‘requiem’, gli sembrava estranea alle promesse bibliche). Insomma, il cattolicesimo invita a meditare sulla bruttezza della morte. Ma nello stesso tempo invita a contemplare il mistero della elezione, della felicità dei salvati, della festa inaudita per la sconfitta della morte, per la bellezza senza fine. Il due Novembre versiamo lacrime sui morti ma già il primo ci siamo confortati con i santi, noti e ignoti, eroici e nascosti, i santi canonizzati direttamente da Dio nell’alto dei cieli.

Come si vorrebbe che un papa santo ammaestrasse il mondo su tali questioni che toccano il cuore dei viventi invece di dilapidare il tempo e il prestigio della Cattedra di Pietro per titillare la ideologia terrena. Un arguto ha scritto sulle orme magrittiane che «questo non è un papa, solo un Dario Fo». Ma la Catholica non può cedere agli scherzi surrealisti. È un papa sì,  un papa in soggezione nei confronti del mondo come ce ne furono altri. Per un Leone I che difende la sua diocesi e ferma Attila con la sua maestà se ne hanno schiere di poco eroici. A cominciare da Pietro che abbandona il suo gregge a Roma e se ne vorrebbe tornare a casa. Per finire con Giovanni XXIII allegro bonario e sempliciotto mentre perseguitavano le sue pecore cristiane nel mondo orientale, nei Lager che lì si chiamavano gulag, senza che lui osasse dire una parola. E lo hanno fatto pure santo, quindi c’è sempre grande speranza nella Chiesa di Roma. I cattolici non scomunicano il loro pontefice, non fanno scissioni, non se ne vanno in cerca di un nuovo guru. I cattolici dovrebbero saper ricorrere all’orazione. Qui fecit coelum et terram può anche trasformare un rozzo pastore sudamericano che diffonde il pensiero mercificato dei mass media in un santo che illumini con la favella di papa Gregorio Magno il nostro tempo funereo, facendo intravedere perfino attraverso il linguaggio digitale le promesse meravigliose (e i rischi davvero infernali) della Chiesa cattolica per i suoi morti.