venerdì 27 gennaio 2012

Un minuto della memoria

~ NEI MUSEI DEGLI ORRORI DELL’AVANGUARDIA
GIÀ APPARIVANO LE BAGATELLE PER UN MASSACRO ~

Una «giornata della memoria», e per di più affidata alla amplificazione massmediatica, alla forma trash della pubblicità, è chiassoso evento, una kermesse che pesca nel genere horror. Ben altri riti prescriveva l’ebreo Theodor Lessing dinanzi ai primi crimini seriali in Germania, quando in Haarmann. Storia di un lupo mannaro (tradotto da Adelphi), invitava a una celebrazione penitenziale collettiva. Ma appena «un minuto della memoria» – un lampo di pochi frammenti alquanto efferati del primo Novecento – può bastare ad aprire a considerazioni meno scontate sui «cattivi» in campo. Per esempio la «Lettera alle scuole di Budda» di Antonin Artaud che metteva tra i nemici da abbattere gli scrittori avversi, i giornalisti, gli ebrei, i politici chiacchieroni. Era il 1925, lo scritto concitato apparve sul numero 3 di «La Révolution surréaliste», modello culturale dell’indignazione avvenire. Nel medesimo numero, ci si rivolgeva al papa come a «un cane» cui si dichiarava guerra totale, come guerra totale era scatenata contro Dio. Elogi del Terrore, dei «nobili impulsi» omicidi nei confronti non solo degli avversari politici ma anche di quanti avevano un gusto diverso, canto poetico per «il boia che noi sapremo essere». «Liquidazione», liquidazione la parola dominante, energia distruttrice, insulti triviali, il termine «crudeltà» che sovraintenderebbe al teatro «sta per vita», diceva Artaud alla ricerca di un luogo primordiale della violenza, «il teatro della crudeltà espelle Dio dalla scena», chiosava Derrida. Al suo posto, al posto del Logos, al posto dell’«escremento dello spirito» – come Artaud lo chiamava –, magari l’escremento del corpo, secondo uno spettacolo oggi alla moda. Una uccisione è allora all’origine della crudeltà. Prendiamo sul serio le urla di questi sovversivi novecenteschi, degli annunciatori ebbri della carneficina. Nello spettacolo totale, c’era bisogno, decretava ancora Artaud, di «un po’ di sangue vero». Eco sinistra, al sangue si richiamava anche la Deutsche Passion, parodia della passione cristiana, tragedia nazional-socialista, tentativo di mescolare il moderno con il capro dionisiaco, in nome di Nietzsche. La cultura tornava a predicare il sacrificio prima di Cristo e perfino prima di Abramo. Hermann Broch, denunciava, sottraendosi a fatica alla seduzione dello Zeitgeist, il sacrificio umano (nel Bergroman). Talché Jean Clair che ha ricostruito simili esperimenti nel suo Du surréalisme considéré dans ses rapports au totalitarisme et aux tables tournantes può concludere, riferendosi ad Artaud come emblema del radicalismo assoluto, che «la mancanza di limiti della libertà non è altro che una crescente alienazione del soggetto nel suo rapporto […] con la distruzione». Chissà se gli apologeti della follia si rendevano conto della immane violenza che si sarebbe scatenata una volta annullata la diga della ragionevolezza? E ugualmente il sacro, senza un’organizzazione religiosa, affidato anzi alla capacità soggettiva e capricciosa, è minaccia, è Mania divinità della morte, demenza. Né risultò innocua l’arte che si confondeva con la vita, l’estetismo con la politica: si voleva accattivante, con i colori festosi della sovversione, ammaliante suscitatrice della commozione di massa, evocatrice di cadavres exquis, ma nei musei degli orrori dell’avanguardia si anticipava la disumanità delle stragi in arrivo. E non perché erano lì a mettere in guardia, come ci si difese a cose fatte, bensì quali veri e propri appelli al massacro si presentavano i loro «manifesti». Qualche studente, colpito nelle emozioni dalla réclame scolastica del bene, potrebbe invece credere che il male fosse una caratteristica del ‘sangue’ tedesco.

mercoledì 18 gennaio 2012

L'intelligenza dei santi

~ «MIO CARO PAPINI, LE RACCONTO DI PADRE PIO…» ~
Quante vittime della cultura, il totem potentissimo ai nostri tempi, anche nella Chiesa cattolica. Clero e fedeli si genuflettono davanti agli idoli contemporanei che vantano un qualche libro noioso. E non avvertono quanto siano malinconici quei ricami dei neo-gnostici sul cristianesimo, di quella parte colta e fine dell’inteligencja italiana d’oggi, cioè, che civetta con la luce metafisica, senza un po’ di sana fede, di miracoli, di amore. La filosofia sembra non abbia più a cuore la verità. Un prete letterato, don Giuseppe De Luca – di cui nel 2012 appena iniziato ricorre il mezzo secolo dalla morte – sapeva invece distinguere tra l’intelletto e la grazia, senza subordinare questa alla mente come si fa ormai spesso. L’amico di Mario Praz e suo sodale nelle avventure erudite, l’interlocutore cattolico di Croce e Gentile, di avanguardisti e di accademici, lo studioso invaghito dei «pensatori retrivi» dell’Ottocento che poi andava la sera a cena con Palmiro Togliatti (i preti, avvezzi al confessionale, non si scandalizzano dei peccatori, neppure dei più malvagi), si recava in pellegrinaggio sul Gargano a rendere omaggio al frate stigmatizzato che laggiù viveva, in un antro arcaico del XX secolo. Il primo viaggio risale al 1934, quando i mass media non osavano ancora vendere anche i santi, e il clamore che già si levava nasceva da una vicenda incandescente sullo sfondo della civiltà contadina come spesso si legge nelle biografie delle anime elette, ai margini della modernità: don Giuseppe, letterato del Sud attratto dalla storia della pietà, era di casa in quel mondo. Dell’incontro con il cappuccino trattò in due lettere, una delle quali indirizzata allo scrittore italiano forse più noto in quel momento in Europa, Giovanni Papini. Datata 28 ottobre 1934, la missiva si apriva con delle considerazioni sul protestantesimo, sottolineando la colpa soprattutto d’orgoglio di fra Martin Lutero, quindi passava a ricostruire la visita in Puglia al frate obbediente: non usava frasi dolciastre e toni agiografici, non attribuiva particolari virtù umane al povero cappuccino, distingueva anzi tra l’intelligenza mondana e quella spirituale.

«Padre Pio, caro Papini, è un cappuccino malingre [macilento] e ignorante e molto meridionalmente grosso: e tuttavia (badi che oltre a confessarmici ho mangiato con lui e con lui mi son trattenuto molto) e tuttavia ha con e in sé Iddio, quel Dio tremendo che noi intravediamo in fantasia, e lui ha nell’anima, caldissima insostenibilmente, e nella carne che ne trema sempre piagata e ora più ora meno, come sotto raffiche sempre più forti, gemente atrocemente. Proprio ho veduto che cosa sia il ‘santo’, non dell’azione ma della passione: che pratica Iddio. Un uomo di così scarsa intelligenza mi ha dato due, tre parole che io non avrei trovato mai sul labbro d’altri ‘uomini’: e nemmeno (e questo più duro a portare) nei libri della Chiesa. Vere interpretazioni autentiche e definitive di stati d’animo mio: seguite da soluzioni, e quindi risoluzioni. Non è la ‘clinica’ spirituale ordinaria; né c’è, d’altra parte, miracoloso e clamoroso e vistoso straordinario: c’è la ‘intelligentia spiritualis’ che è il dono gratuito di Dio. E c’è una passione, anche umana, per Iddio, caro Papini, che è cosa d’una bellezza e d’una rapinosa dolcezza che io non le dico. Né amore di donna né amore di idee sono nulla di comparabile anche perché son cose che oltre un segno, più o meno vicino o lontano, non vanno: mentre la passione per Iddio, non so come sia, arde e più arde più trova da ardere. Questo ‘sentimento’ d’un Dio e d’un uomo che si sono incontrati così, io l’ho avuto con certezza. E se un certo terrore, una certa superstizione di non offendere con superbie ironiche un possibile santo, in me c’era sul principio; tuttavia avevo ben gli occhi aperti e il cuore, soprattutto, a posto, ché, avido di suo del divino, non mi fregasse. D’altronde, nel ‘caso’ di p. Pio c’è storie molto sporche di preti paesani: e il S. Uffizio non l’ha condannato; soltanto, lo ha posto entro un cerchio di ferro, che non è male – nel nostro tempo volgare – che ci sia e lo difenda da americanistiche pubblicità e concorsi da santuario dei miracoli» (questa e le successive citazioni son tratte dal ricco saggio di Giuseppe M. Viscardi, Padre Pio, padre Gemelli e don Giuseppe De Luca in «Archivio italiano per la storia della pietà», n. 20, 2007). Le sporche storie di «preti paesani» erano quelle che polemicamente andavano raccontando i primi fedeli di san Pio per rendere pubblici i motivi delle persecuzioni del loro frate; la «americanistica pubblicità» sembra profezia di quel che accadrà in seguito, quando l’universo réclamistico parlerà a suo modo del miracolo nell’epoca della tecnica.

Nell’altra lettera, rivolta al fondatore della editrice Morcelliana di Brescia, don Giuseppe confessava: «… datamisi l’occasione d’un amico generoso l’ho accompagnato da p. Pio, uomo di Dio. L’ho amato subito, non senza sorpassare le punte di esitazioni, sospetti, incertezze: e lui, così mi sembra, anche lui mi vuol bene. Caro Minelli, che cosa terribile un santo! Non è del tipo attivo, come don Bosco ieri, don Orione oggi; è tutta una povera pasta di sofferenze, una materia di dolori. Lei sa che ha le stimmate: ma le sue stimmate innascondibili sono nell’occhio, d’una abbagliante luce, nel volto pallido e bruciato da una febbre oltremondana, nella povera persona fiacchissima e percorsa sempre da un brivido terribile, dal pensiero di Dio. In nessuno mai ho visto così presente e ‘crudele’ Iddio, ‘qui proprio Filio suo non pepercit’. Io gli misi nelle mani l’anima mia, mi ci confessai – già, c’è chi mi dice incredulo: ma incredulo sono nella loro fede, non nella fede –, e sono rivenuto stamani ancor più fermo nella mia forza. Non senza, ieri, essermi incontrato da Laterza a Bari, con B. Croce, e discusso sopra alcune idee del mio Voltaire».

Più di vent’anni dopo, a un prete suo confidente don Giuseppe scriverà ancora su questo santo particolarmente inviso agli intellettuali snob di oggi, essendo un protettore dei corpi nell’èra della virtualità, un taumaturgo che scompagina l’idolatria della scienza: «Avere amico dal 1931 un amico di Dio talmente amico di Dio e mio, è forse la cosa di cui più mi vanto, certo è quella di cui più mi compiaccio e giovo».

martedì 17 gennaio 2012

Chiese scialbate

~ I NUOVI ARREDATORI DELLA CASA DI DIO ~

Si visitano le chiese romane che la filologia senza amore ha spogliato delle vesti barocche e che il Vaticano II ha umiliato per ripicca contro il Concilio di Trento. Ogni tanto delle foto in bianco e nero riavviano la memoria di chi ancora negli anni Cinquanta vide lo sfarzo dei lampadari settecenteschi più fastosi che in un teatro, le colonne e le lesene ricoperte di velluto rosso anche ad altezze imponenti nella solennità dei santi patroni del tempio, le liturgie rubensiane, gli altari sovrabbondanti di reliquie, aurei busti e candele, sopra i quali la fede diventava tangibile, accendendo i sensi e spingendosi quindi nella frontiera speciale dove funge da «supplementum / sensuum defectui», come canta Tommaso d’Aquino nel suo Tantum ergo. Adesso i funzionari della sovraintendenza dispongono delle cose sacre in base ai loro studi pedanti, circondati dalla soggezione di preti ignoranti. Regna un gusto catacombale, revival confuso dei primi secoli, evapora così il senso di eternità che aveva sempre dominato nelle chiese cattoliche. Talvolta in quelle affidate alle nuove comunità dell’Europa orientale di ceppo bizantino tornano per miracolo gli ex-voto che riempivano ogni spazio intorno alle sante effigi, tornano le ombre e le zone buie appena corrette dal tremolio di innumerevoli candele accese dai devoti davanti agli altari prediletti. «L’ornamento presuppone una gerarchia tra le cose», diceva acutamente Sedlmayr, nell’arte senza più ornamento impera il nichilismo per cui tutte le cose sono uguali tra loro. Senza ornamento sarebbe impossibile rappresentare il sacro.

Se per queste chiese del centro storico si accompagna un europeo del Nord è necessario ricorrere ai racconti onde spiegare come simili spazi sacri che si presentano al visitatore in massima sobrietà, facendo dimenticare trascorsi barocchi e rococò o semplicemente di vistoso culto anche novecentesco, fossero ben diversi dagli ambienti protestanti cui oggi ci si sforza di somigliare. Una tempesta di ira puritana è passata di qui. Figli scapestrati hanno venduto agli straccivendoli tesori assai preziosi avuti in eredità. Però almeno nelle chiese antiche restano quadri e statue, benché scontornati e isolati secondo i dettami postmoderni, una miriade di immagini di fronte alle quali inginocchiarsi. E non è poco.

venerdì 6 gennaio 2012

La dodicesima notte senza più rito

~ MENTRE «L’EPIFANIA TUTTE LE FESTE SI PORTA VIA»
TRASCRIVIAMO UNA FRASE DI RENÉ GIRARD
SULLA FESTA TRASFORMATA IN «VACANZA A VITA» ~

«La nostra ipotesi generale sulla crisi sacrificale e sull’unanimità violenta illumina […] vari aspetti della festa rimasti fino ad oggi piuttosto oscuri. E la festa, di rimando, conferma il potere esplicativo di tale ipotesi. È opportuno osservare, però, che la cecità moderna a proposito della festa, e del rito in genere, non fa che prolungare e favorire un’evoluzione che è poi quella del momento religioso stesso. Via via che si cancellano gli aspetti rituali, la festa si limita sempre più a quella grassa licenza di svago che tanti osservatori moderni hanno deciso di vedere in essa. La perdita graduale del rito e il misconoscimento sempre aggravato non sono che una sola e medesima cosa. La disgregazione dei miti e dei rituali, ossia del pensiero religioso nel suo insieme, non è provocata da un sorgere della nuda verità, ma da una nuova crisi sacrificale.

Dietro alle apparenze gioiose e fraterne della festa deritualizzata, priva di qualsiasi riferimento alla vittima espiatoria e all’unità da essa rifatta, non vi è più in verità altro modello che la crisi sacrificale e la violenza reciproca. Ecco perché i veri artisti, ai giorni nostri, avvertono la tragedia dietro l’insipidità della festa trasformata in vacanze a vita, dietro le promesse piattamente utopistiche di un ‘mondo di svaghi’. Più le vacanze sono insulse, fiacche, volgari, più si indovinano in esse lo spaventoso e il mostruoso che affiorano. Il tema delle vacanze che cominciano a prendere una brutta piega, spontaneamente riscoperto, ma già altrove trattato in forme diverse, domina l’opera cinematografica di un Fellini». (Da La violenza e il sacro, Adelphi, p. 178)