sabato 17 novembre 2012

L'anacoreta salottiero

~ GLI SCRITTI DI DON DE LUCA ~
~ TERZA PUNTATA ~
~ UN COMMENTO A DONOSO CORTÉS ~

I rari lettori dell’«Almanacco romano» ricorderanno forse quel lungo articolo che qui fu dedicato al politologo e filosofo spagnolo che alle soglie della modernità sapeva districarsi nelle trappole romantiche, riproponendo un’apologia del cattolicesimo. Un racconto ben più colorito e vivace è quello che esce dalla penna di don Giuseppe De Luca.

«Donoso Cortés fu un poco il Byron del cattolicesimo spagnolo nel primo Ottocento, e segnò il favoloso incontro, il mostruoso connubio, in pieno secolo dei lumi, d’un clamore alla Savonarola e d’un acume alla Machiavelli; il D’Ors parla addirittura di caldo e di freddo.

Morto di quarantaquattro anni a Parigi, la sera del 3 maggio 1843, egli era stato, con una precocità che a riflettere mette paura, tutto quanto un uomo di valore può desiderare o temere di essere. Laureatosi di diciannove, a ventott’anni passava di già per un uomo politico tempestoso e temuto. Appena ventiquattrenne aveva perduto la moglie e l’unica figlia. Via via professore, scrittore, oratore, ambasciatore, parlamentare, ministro, presente a Parigi del pari che a Vienna e a Berlino, non appena apriva bocca in pubblico tra un rombo di parole e un volo di frasi, toccava felicità inaudite che nessuno si sarebbe attese da così impennato parlatore: felicità di storico e contemporaneamente, oggi possiamo dirlo, a cose avvenute, di profeta. In nessun altro secolo come nell’Ottocento, ciarlataneria e genio si sono accompagnati più di frequente e con maggior fortuna […].

Studiosi delle dottrine politiche, storici della rinascita cattolica nella vita civile, ispanisti, han lasciato in ombra Cortés. Si ha generalmente l’idea che egli sia, tutto sommato, un superiore e patrizio Dulcamara, un rimbombante rètore, un reazionario rocambolesco, tra maniaco e smanioso, un titano da sagrestia. […] C’è intanto lo scrittore in Cortès; uno scrittore che ha fatto inarcar le ciglia a un Barbey d’Aurevilly, a un Eugenio d’Ors. C’è l’uomo di pensiero, che, a parte ridondanze, amplificazioni, sviluppi oratorii, in certe vedute e uscite riesce incredibilmente ammirabile, ed ebbe infatti l’ammirazione non tanto facile di un Menendez y Pelayo. C’è l’uomo di mondo, che rappresentò una sua bella parte nella migliore società europea del tempo. C’è il cristiano, incantato e incantevole, quasi un santo, che amò la meditazione, sentì quasi fosse una passione la preghiera, praticò eroicamente l’elemosina segreta, esercitò la più austera mortificazione, predisse da anacoreta il raccoglimento, sperimentò il pianto della notte nel giardino degli Olivi. C’è il cattolico di gran razza, pari ai migliori di quel secolo che non pochi ne conobbe di grandi, nessuno più grande di lui. […]

Analizza la politica del tempo, discorre della Francia che per lui era già finita politicamente, poi della Prussia che nutre “i pontefici e i maestri” del diluvio, infine della Russia. Non però della Russia imperiale, che egli esclude possa dare nessun pensiero. Egli ha negli occhi un’altra Russia, starei per dire la Russia che vediamo noi. […] Veduta la Russia padrona dell’Europa subito appresso la vede che perisce uccisa dal suo stesso veleno. Non più potenza europea ma asiatica, la sua catastrofe diventerà un cataclisma del mondo.

“La Russia [De Luca riporta una citazione di Cortés, ndr] cadrà ben presto in putrefazione. Allora non so quale rimedio serberà Dio per quell’universale dissolvimento. Contro un tanto male c’è un solo rimedio, uno solo, e questo deve venire dall’Inghilterra. Anzitutto, Signori, la razza anglosassone è la meno esposta all’impeto delle rivoluzioni. Credo più possibile una rivoluzione a Pietroburgo che a Londra. […]”.

Perché tanta sciagura non accada né per la Russia né per il mondo, il Cortés si domanda, come abbiamo visto, che cosa bisogna fare. E si risponde, con una incredibile serenità: bisogna che il mondo anglosassone divenga cattolico. Sembra di sognare, ma quando si pensa all’importanza che la lotta antireligiosa ha rivestito negli ultimi secoli, e a quale acerbità sia giunta nei decenni ultimi, le parole del Cortés fanno un certo effetto. Egli, dicendo Inghilterra, intende il mondo di lingua inglese, quella civiltà, quegli uomini. Il Newman si era convertito allora.

“… è necessario, o Signori, che l’Inghilterra, già conservatrice e monarchica, divenga cattolica. Ciò dico perché il vero e unico rimedio contro la rivoluzione e il socialismo, è il cattolicesimo, come l’unica dottrina che è in assoluta contraddizione con l’altra. Che cosa è il cattolicesimo? Sapienza ed umiltà. Che cosa è il socialismo? Orgoglio e barbarie. Il socialismo è simile a quel re di Babilonia, che fu re e bestia ad un tempo medesimo”.

Non si riscontra in altri che in lui una mescolanza così sfacciata di elementi che di regola, non soltanto non si fondono, ma nemmeno possono star vicini: vale a dire una visione e veggenza religiosa, e una concretezza e perspicacia politica. […]

Mi domando se non sarebbe il caso che noi cattolici leggessimo, alla fine, non dico sant’Agostino, i Padri, i Dottori della Chiesa, i grandi teologi, i grandi giuristi; no, sarebbe voler troppo; leggessimo, dico, qualcuno degli scrittori nostri dell’Ottocento, non di più. Sulla metà del secolo passato in un discorso pubblico, un uomo diceva di queste cose che a un secolo di distanza paiono vaticini, salvo alcune perplessità e ombre. E noi, sulla fede di una opinione pubblica, Dio solo sa come accozzata, continuiamo o a ignorarlo o a crederlo una specie di dandy dell’intelligenza, tra idiota e pazzo. Dico, noi in Italia. Vero è che a noi italiani egli diede bellamente di “sicari”, ma era la voga che ci aveva creato i briganti, Stendhal e Mazzini; non l’aveva inventata lui.

L’Ottocento, secolo oltremodo celebrato e oltraggiato, è stato di già definito più volte e in più modi. Tentarne una nuova definizione, può parere ingenuo. Io la tenterei, dicendo che è un secolo di profeti allo stato libero; se si vuole, allo stato selvatico. […] Non è, intendiamoci, la profezia divina della Bibbia, non quella dei Santi, nemmeno certo profetismo endemico che tutti gli storici conoscono nei diversi secoli: ma una luce è, e si leva luce di vaticinio innegabile, dagli scrittori più grandi come dai cristiani più vivi. […]

[Iddio] ci dà, ci ha dato l’intelligenza; e l’intelligenza, quando tocca i suoi vertici, spesso raggiunge la drammatica solennità di chi profeta: non come la favola racconta di Cassandra, ma come dicono che accada qualche volta a chi muore».

(da Bailamme, Morcelliana, 1963, pp. 107-115)