giovedì 28 febbraio 2013

Alle otto della sera


~ LA SPARIZIONE DEL PAPA
NELLA PERCEZIONE DEI MODERNI ~

Da secoli il papa sembra sparito nella percezione dei moderni, una interminabile sede vacante. In tempi più recenti i media propongono una specie di leader impolitico che si batte per la pace mondiale. Nell’ultimo anno del Settecento, dopo che il pontefice romano, fatto prigioniero e deportato in Francia dai napoleonici, era morto in esilio, Novalis, proprio durante una drammatica sede vacante, deprecava questi tempi moderni, rimpiangeva l’universalità cattolica, scriveva un librino, Die Christenheit oder Europa, poetica apologia del papato come chiave di volta della rigenerazione dell’Occidente. Il letterato romantico ricostruiva l’Europa del medioevo e la forma politica che contraddistingueva la Chiesa di Roma, la monarchia assoluta del successore di Pietro e la possibilità per tutti di accedere alla «corporazione» del clero:

«Erano belli, splendidi tempi quelli in cui l’Europa era una terra cristiana, in cui un’unica Cristianità abitava questa parte del mondo umanamente configurata, e un unico grande interesse comune univa le province più remote di questo vasto reame spirituale. – Senza grandi possessi terreni, un solo capo supremo dirigeva e unificava le grandi forze politiche. – Una numerosa corporazione [ossia, il clero], cui ognuno aveva accesso, gli era immediatamente sottoposta, ne eseguiva i cenni e si adoperava con ogni zelo a consolidarne la benefica potenza».

Il poeta tedesco usava toni fiabeschi per rievocare l’universo cattolico:
«Con quale serenità si lasciavano le belle riunioni nelle chiese misteriose, ornate di edificanti immagini, piene di dolci vapori e animate da una musica santamente edificante! [...] Giustamente il saggio Capo supremo della Chiesa si opponeva al temerario sviluppo delle facoltà umane a scapito del sentimento religioso [...]. Alla sua corte si radunavano tutti gli uomini saggi e venerandi d’Europa. Ogni tesoro vi affluiva: la distrutta Gerusalemme si era vendicata e Roma stessa era diventata Gerusalemme, la residenza sacra del regno divino in terra. I príncipi presentavano le loro controversie davanti al Padre della Cristianità, ponevano spontaneamente ai suoi piedi le loro corone e la loro magnificenza, e stimavano addirittura loro gloria il concludere la sera della loro vita, come membri di quest’alta congrega, in divine contemplazioni tra le solitarie mura di un chiostro. Come questo governo, questo ordinamento, fosse benefico, e quanto fosse consono all’intima natura degli uomini, lo mostrò la potente ascesa di tutte le altre forze umane, lo sviluppo armonioso di tutte le facoltà, l’incredibile altezza raggiunta da alcuni uomini nei vari campi delle scienze umane e delle arti, e il commercio di prodotti spirituali e materiali fiorente per ogni dove, nella sfera d’Europa e fino alle Indie lontane. Questi erano, nella loro essenza, i luminosi segni dei tempi genuinamente cattolici o genuinamente cristiani».

Benché cresciuto nella cultura pietista, Novalis prendeva le distanze dalla ribellione luterana:
«Questo grave scisma interno, accompagnato da guerre devastatrici, fu un segno notevole del danno che la cultura arreca al senso dell’invisibile, o almeno del danno temporaneo di un certo grado di cultura. [...] A buon diritto gli insorti si chiamarono Protestanti, in quanto protestavano solennemente contro ogni pretesa d’interferenza nelle coscienze di una potestà incomoda e, in apparenza illegittima. [...] Divisero la Chiesa indivisibile e disertatono empiamente dall’universale comunità cristiana, attraverso la quale, e nella quale soltanto, era possibile la vera e durevole rinascita. La condizione di anarchia religiosa deve essere solo passeggera, poiché la necessità di consacrare unicamente a quest’alta missione un gran numero d’uomini, e di rendere questo numero d’uomini indipendenti dalla potenza terrena in considerazione di questo loro stato, acquista efficacia e validità permanenti. [...] È percio che la storia del Protestantesimo non sarà larga di nessuna grande e splendida apparizione del sovraterreno [...]. Già ben presto si nota l’inaridirsi di ogni senso del sacro; l’interesse mondano ha già preso il sopravvento, il senso artistico ne soffre per simpatia, e solo raramente scaturisce qua e là una schietta ed eterna scintilla di vita».

E insistendo sulle forme moderne che aggrediscono il papato:
«Il risultato del modo di pensare moderno lo si chiamò filosofia, in essa comprendendo tutto ciò che è contrario all’antico, e in primo luogo, quindi, ogni idea contraria alla religione. L’odio personale inizialmente nutrito per la fede cattolica si trasforma a poco a poco in odio per la Bibbia, per la fede cristiana e alla fine addiritura per la religione. Di più: l’odio per la religione si estese molto naturalmente e conseguentemente a tutti gli oggetti dell’entusiasmo, sconsacrò fantasia e sentimento, morale e amore dell’arte, speranze e tradizioni; a stento conservò l’uomo a capo della gerarchia degli esseri naturali [...]. In Germania [...] si cercò di conferire all’antica religione un senso più aggiornato, più raionale, più corrivo, facendo scomparire accuratamente ogni traccia di miracolo e di mistero. [...]. In Francia si è fatto molto per la religione, togliendole il diritto di cittadinanza e lasciandole solamente il diritto di ospitalità».

Ma Novalis si soffermava anche sulla reazione cattolica alla ribellione protestante, sottolineando il ruolo della Compagnia di Gesù, di quei fedelissimi del papa, che un giorno, il papa stesso, costretto dalle potenze mondane, scioglierà per debolezza:
«Tutti gli incanti della fede cattolica divennero nelle mani di questa società [la Societas Jesu, l’ordine fondato da Ignazio di Loyola] anche più potenti, i tesori delle scienze rifluirono nelle celle dei suoi adepti. E costoro cercarono con vari mezzi di riconquistare nelle altre parti del mondo, nel lontano Occidente e Oriente, ciò che era andato perduto in Europa, e di appropriarsi e far valere la dignità e la missione apostolica. E non rimasero indietro neanche nella ricerca della popolarità, ben sapendo quanto Lutero avesse dovuto alle sua arti demagogiche, alla sua conoscenza del volgo. Dovunque fondarono scuole, penetrarono nei confessionali, salirono alle cattedre e occuparono le stamperie, divennero poeti e filosofi, ministri e martiri e, nell’immensa distesa di terre che dall’America va oltre l’Europa in Cina, attuarono il più meraviglioso accordo tra l’azione e la dottrina».

Concludeva Novalis con una specie di appello:
«L’antica forma cattolica [...] era Cristianesimo applicato, divenuto vivo. La sua onnipotenza nella vita, il suo amore per l’arte, la sua profonda umanità, l’inviolabilità dei suoi matrimoni, la sua filantropica espansività, il suo amore per la povertà, per l’obbedienza, per la fedeltà, lo fanno riconoscere come pura religione», ma «la sua forma contingente è come annientata, l’antico papato giace nella tomba, e Roma per la seconda volta è in rovina. Non deve finalmente cessare il Protestantesimo, e far posto a una nuova Chiesa più duratura? Le altre parti del mondo attendono la riconciliazione e la resurrezione dell’Europa, per aderire ad essa e farsi concittadini del regno di Dio. Non dovrebbe l’Europa veder di nuovo una fiorita di anime veramente sante, non dovrebbero tutti i veri congiunti nella fede sentire incontenibile il desiderio di vedere il cielo in terra e di radunarsi a intonare santi cori?» (da Cristianità o Europa, Einaudi, 1942, pp. 4-26).

mercoledì 27 febbraio 2013

Il papa eremita

~ DOVE DEVE STARE IL CUSTODE
DEL DEPOSITO DELLA FEDE? ~

Oscurato da risibili risultati elettorali in Italia, l'atto definitivo del pontificato di Benedetto XVI si avvia alla sera nella distrazione dei suoi romani. Degli interpreti intelligenti di questo epilogo provano a leggere le frasi di addio contenute nell’ultimo Angelus pubblico di Benedetto come la migliore spiegazione di quel suo gesto misterioso di rinuncia: il pontefice, allo stesso modo di Pietro nel Vangelo della Trasfigurazione, si vorrebbe dedicare alla contemplazione, e lascerebbe ad altri il compito del pastore. Difficile da accettare. Forse è la conclusione del papato degli ultimi centocinquanta anni senza più il potere temporale, senza più la parte terrena, anzi così spirituale da divenire incomprensibile (o sospettato delle peggiori nequizie), che si presenta come una comunità di angeli o quanto meno di monaci in un piccolissimo regno che pur somiglia tanto al resto degli altri stati. E un giorno il monaco si fa eremita. Ma non si rimane papa anche giacendo in un ospedale o chiuso in una prigione o riparato in una cella di preghiera? «Pasci le mie pecorelle», è vero, dice Gesù a Pietro, eppure in questa epoca della visibilità assoluta anche un anacoreta potrebbe rappresentare una grande figura di papa (un qualche cenobio è scovabile pure nella valle vaticana, e san Benedetto da Norcia benché in fuga dalla societas secolare – «ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell’immane precipizio» – seppe poi far da guida a molte anime). Un modello ascetico, agli antipodi dell’universo mediatico, sarebbe già una forma pastorale, un insegnamento silenzioso. Perché contrapporre nettamente la ricerca spirituale al ministero petrino?

In un’intervista di undici anni fa allo storico cattolico Giorgio Rumi (1928- 2006) – sulla rivista «30giorni» (anno 2002, n. 5) – , parlando della lunga malattia di Giovanni Paolo II, si diceva come il papa non fosse la star costruita dai media, come anche un vecchio malato potesse, nell’eremitaggio della sofferenza, rappresentare Cristo su questa terra:

«La sovraesposizione mediatica contribuisce a distorcere tutto. Lo si vede bene in questo stillicidio morboso di notizie e dibattiti sulla salute del Papa regnante . […] La funzione propria del ministero del papa è custodire il deposito della fede. Questo, il papa può farlo anche dal suo letto di ammalato. Se poi vuole andare a trovare i cento cattolici in Azerbaigian, per confermarli nella fede, anche questo può farlo pure in carrozzella. Invece, l’esposizione mediatica ha reso impensabile il fatto che un papa possa esercitare il suo ministero anche se è chiuso in una stanzetta, lontano dai riflettori. Anche se non assume un profilo da personaggio. Sembrano tutti scandalizzati, sconvolti perché non è più giovane e aitante. Vedo una certa crudeltà diffusa in come viene trattato l’argomento dei malanni del Papa. Quasi ci fosse l’auspicio di allontanarlo. Invece di rispettarlo come un padre a cui si vuol bene, e che rimane padre, anche se è vecchio e malato».

venerdì 22 febbraio 2013

Vigor animae

~ NOTE IN MARGINE A UNA PAROLA-CHIAVE
DEL TESTO DELLA RINUNCIA DEL PAPA ~

Perplessi ancora o forse ancora più perplessi nell’approssimarsi dell’ora finale del papato ratzingeriano, si torna a leggere le poche parole che sconvolgono la storia del ministero pontificio, la frase in latino che fa tremare la Cattedra di Pietro celebrata proprio oggi in tutte le chiese dell’orbe, cathedra appunto, trono, seggio dei sapienti in origine, non tavolo office, non poltrona girevole design, posto di comando per – Dio ci scampi – manager della fede. L’occhio cade su una delle righe centrali dello scarno discorso di addio, laddove si argomenta che per condurre la navicella di Pietro «etiam vigor quidam corporis et animae necessarius est, qui ultimis mensibus in me modo tali minuitur, ut incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum bene administrandum agnoscere debeam», che in italiano suona: «è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Sulla debolezza fisica nella vecchiaia lasciamo sproloquiare gli editorialisti che addirittura confondono pontefici e politici (questi ultimi si abbarbicano laicamente al potere e, vegliardi, non ritengono di doversi distaccare dalle miserie della vita per riflettere in limine sulle cose dello spirito; il papa all’opposto sta lì a indicare Dio, è giusto che lì rimanga anche nel travaglio della malattia, anche moribondo, ché la sua religione ha per simbolo appunto un uomo in atroce agonia, son dunque ruoli che non si possono confrontare; altro è l’interrogarsi sulla legittimità del politico alla luce del gesto di Benedetto, cui accenna con grazia Agamben). Sulla diminuzione del «vigore dell’animo» detta a chiare lettere si resta invece attoniti. E incessantemente si medita, magari in maniera nervosa e sommaria, su quella strana vicenda di mezzo secolo fa, quando la Chiesa di Roma sembrò spogliarsi della sua tradizione, abbandonare la forza d’animo per una simulazione della chenosi divina.

Forse due insigni gesuiti degli anni Cinquanta avrebbero potuto gettare acqua gelida sul fuoco dell’ottimismo facilone che divorava la Chiesa alla vigilia del Concilio. Ovvero, padre Felice Cappello, circondato dalla fama di santità ancora in vita, e padre Virginio Rotondi, che convertirono sul letto di morte Curzio Malaparte al cattolicesimo, avrebbero dovuto informare i loro confratelli di quel che c’era scritto nei libri del convertito, romanzi e saggi a quei tempi ancora all’Indice. Quanti equivoci sarebbero stati così evitati. Lo scrittore pratese aveva raccontato con immagini indimenticabili la morte dell’Europa: cadaveri che figliavano cadaveri, generazioni uscite dai giorni dell’odio di due guerre civili e mondiali al contempo, sotto il segno di Caino, stragi come non si erano mai viste nella lunga storia umana, puzzo di carogne, mutazioni antropologiche, l’asservimento ai vincitori di turno, l’abiezione, lo spegnimento definitivo della joie de vivre che aveva brillato in Occidente per secoli. Altro che la bellezza del creato sempre cantata dal cattolicesimo, si finiva in un nichilismo variamente agghindato di mistica del dubbio, di verità approssimative e indicibili, di un generico sentimentalismo assai sciatto. Se i vescovi che si adunarono speranzosi a Roma avessero avuto chiaro questo orrore in testa non si sarebbero lasciati andare all’ingenua ammirazione del mondo del dopoguerra, al frettoloso recupero di una belle époque ormai scomparsa. Se poi si aggiungeva a una sì sinistra prospettiva il fatto che una parte consistente d’Europa era finita in un regime dove regnava l’ateismo, i primi stati al mondo costituzionalmente atei e persecutori della religione (ma questa seconda caratteristica si ripeteva nei secoli), c’era da supplicare il Cielo non da assoggettarsi alla Terra.

Chissà, i reverendi padri conciliari si lasciarono abbindolare dalle fatue distrazioni degli ex combattenti, dal gergo giovanile che urlava la sua utopia, dalle rivoluzioni che promettevano molto facendo il verso a quelle, culturali e politiche, del primo Novecento. Si registrò la mancanza totale del realismo tradizionale, probabilmente per non guardare una scena troppo spaventosa, per mettere tra parentesi le immagini macabre, per venir meno del coraggio, così come si preferì non dare più importanza alla immensa prigione comunista che si estendeva da Berlino all’Asia, sorvolando sulle torture di vescovi e fedeli non per antica abitudine alla trattativa diplomatica bensì per un amore vagamente sconsiderato che oggi si direbbe «new age», privo di fermezza, di forza morale.

Né ci si accorse che gli intellettuali erano magari ancora alla ricerca della bonaventuriana «perfezione cristiana» e che avendo la Chiesa tralasciato tale tema e rincorso tutte le ideologie presenti sul mercato, i più seri si interessavano al marxismo (nella versione della scolastica sovietica come nelle fantasie sofisticate degli occidentali) oppure, stanchi del materialismo capitalista, ricorrevano al ‘fai da te’ sublime della gnosi, non avendo più un mysterium rivelato di fronte al quale inginocchiarsi. Già da allora e forse da prima dell’assemblea conciliare non ci si poteva accontentare della debolezza spirituale predicata da Roma negli ultimi tempi, la ragionevolezza del mondo avendo poco a che fare con la ragione tomistica.

Se era invecchiata la cultura cattolica, se aveva subìto seri colpi con l’avvento della modernità, se di fronte all’attacco era ripiegata in un puritanesimo più di scuola protestante, se si era chiusa, arroccata – come si diceva con sprezzo, senza un minimo di comprensione e di misericordia – in attesa di tempi migliori, non si può dire che il «sacrosanto concilio» ebbe echi rilevanti nella cultura del secondo Novecento, a parte il chiasso giornalistico, in particolare nell’attenta quanto strumentale riflessione della pubblicistica italiana di sinistra. O forse nei residui di un protestantesimo già sconfitto e necessariamente dialogante. Ma intellettuali, letterati, pensatori, artisti, quel po’ che rimaneva, se ne fuggirono, perfino verso altre religioni, si pensi al successo del buddismo. La nuova arrendevolezza della Chiesa di Roma non riusciva ad attrarre nessuno.

Quali scrittori si possono accostare al Vaticano II così come si dice di quelli, nobilissimi, del Tridentino? E quali pittori, e quali filosofi, e soprattutto, visto l’argomento, quali santi? Piuttosto che produrre una propria cultura ci si accontentò di scopiazzare quella degli altri (con grandi prestiti dal protestantesimo) e adattare alla meglio i propri dogmi a quelli imperanti. Si accorsero insomma i vescovi radunati in Vaticano che quel frettoloso accostarsi al mondo, alle ragioni del mondo, alla sua cultura del tutto secolarizzata, li portava dritti dritti, e nonostante puritanesimi di marca protestante e pauperismi di marca socialista, verso la cultura che si stava affermando in quel tempo, ossia la cultura dei consumi? Anche del consumo ideologico, facile, imposto dalle mode. Eppure fino ad allora c’era stato un grosso limite al consumismo nascente: il cattolicesimo. Sia perché il mondo cattolico – come scriveva Goffredo Parise – veniva considerato «troppo carico di cultura, troppo carico di doveri culturali; non facilmente smerciabile né apprendibile né recettibile», sia perché «il mondo cattolico possiede una cosa impossibile da consumare: il mistero. Il mistero è il nemico numero uno della consumabilità, perché non si tocca e non ha alcuna immediata utilità. È proprio l’opposto della consumabilità» (Nuovo potere e nuova cultura, in Opere, i Meridiani Mondadori, vol. II, p. 1408). E anche, andrebbe aggiunto, «nemico» di quella comunicazione totale, presuntuosa, corriva, che contraddistingue disgraziatamente la Chiesa post-conciliare.

In luogo dell’imago Coeli si scelse l’imago mundi ma arrivando tardi, ridicolmente tardi, quando il mondo aveva perduto la sua tragica e luminosa grandezza per divenire un globetto unificato dall’economia, dai soldi come unico orizzonte, dalla produzione per la produzione, dalla magnifica ricchezza di questa terra trasformata in merci, dalla parodia come solo canone, anche nei rapporti umani…

Sesso e denaro: non riescono a vedere altro i giornali dietro alla vicenda vaticana. I più tenebrosi sospettano ancora la massoneria (i medesimi sospetti che a sinistra nutrono per la cellula denominata «P2», come se davvero quelle vecchissime congreghe avessero un qualche rilievo oggi). Gli affari dello spirito e dei corpi, della ragione e della speranza umane, la volontà di vincere la morte, il giusto orgoglio di essere a immagine di Dio, il sogno paradisiaco: questi sono i temi cattolici che nutrirono gli ingegni rinascimentali come dell’epoca barocca e di altre stagioni gloriose. E adesso? Dopo mezzo secolo di melassa altruista senza fede nella propria resurrezione, di ascesi senza Paradiso, di liturgia senza Cielo, arriva questa rinuncia. Non a caso si dice rassegnare le dimissioni, c’è in quel gesto una certa rassegnazione e un dismettere, un buttar via, un lasciar andare, un abbandono. Un consegnarsi nelle mani altrui. Di chi, in questo caso? Quanto è purtroppo consumabile la rinuncia ratzingeriana, quanto sembra appartenere al linguaggio del mondo, alla logica del benessere, alla vecchiaia da redimere con i farmaci, al culto pernicioso della giovinezza.

venerdì 15 febbraio 2013

Dalla parte del dogma


~ ASPETTANDO LA SEDE VACANTE
IN COMPAGNIA DI GIRARD E DI STEINER ~

Spregiudicati i ‘progressisti’ che, un po’ per furbizia, un po’ per abitudine a piegarsi a ogni evento mediatico, si appassionano adesso del papa teologo da loro tanto avversato e si impadroniscono del suo gesto triste. In un attimo viene rovesciato il trend degli ultimi tempi. A mezzo secolo di distanza dal Concilio giovanneo, lo si stava rivedendo con meno ossequio alle ‘novità’ che sempre incantano i nostri contemporanei, si mettevano grossi interrogativi su alcuni aspetti, se ne incrinava il culto ridicolo, lo si risistemava – Ratzinger in primis – nella tortuosa e bimillenaria storia della Chiesa, sottraendolo così a quella sua presunzione d’essere origine assoluta dell’autentico cristianesimo dopo secoli di equivoci (scontato peccato d’ogni eresia del nuovo inizio, dell’«anno zero», del calendario riscritto…), era in corso insomma un processo di demitizzazione quando in un inimmaginabile contropiede lungo appena un giorno gli anti-tradizionalisti segnano un gol decisivo che dovrebbe assicurar loro la vittoria per i prossimi secoli. Così almeno lo presentano esultanti: un definitivo abbandono della differenza cattolica, un appiattimento sulle banalità del mondo, un colpo mortale alla sacralità del corpo. Ma è davvero andato in tale modo? Benedetto ha rinnegato un fondamentale del cattolicesimo? Questa è la vulgata imposta dalla cosiddetta pubblica opinione. Qualcuno però si occupa di contrapporre un briciolo di verità a tali arbitrarie sentenze? È mai possibile che il magistero ecclesiastico sia riconducibile al riflesso degli editoriali e delle battute nel foro televisivo o per la rete elettronica, nel migliore dei casi alle conferenze-stampa dei ‘portavoce’? Il diritto canonico sarà dunque fondato d’ora in poi sulla giurisprudenza giornalistica? sugli elzeviri dei vaticanisti? l’ermeneutica giuridica si nutrirà dei boatos? Una intervista radiofonica ad Hans Küng definirà il ministero petrino che mezzo secolo fa l’intervistato aveva in animo di abolire? Si ridurrà la missione del vicario di Cristo alle nomine bancarie dello Ior, facendo credere che, come nella politica italiana, è solo una faccenda di soldi e di tasse? Chi risponderà a questo fiume di sproloqui cui si aggiungono le parole vane ma concise dei cinguettii in voga? i fedeli preoccupati? i romani che si sentono abbandonati dal loro sovrano? i poveri blogger che si richiamano alla tradizione benché sconfortati dagli eventi di questi giorni? Dove è la parola autorevole nella sede vacante già spalancata?

I dogmi, non l’opinione pubblica ammantata di falso profetismo, sostanziano la Chiesa cattolica. Se non si osservano più i dogmi si può sciogliere l’impresa, mandare a casa i cardinali, privarli delle loro sontuose porpore. E ci vuole coraggio a difendere i dogmi di fronte al tribunale delle folle twittanti o degli apologeti melliflui del Vaticano II con il loro linguaggio ‘pastorale’ che non vuol sentire parlare di punti fermi, che celebra l’impressionismo teologico, l’espressionismo mistico, il flusso delle coscienze. Quel coraggio lo ha mostrato Joseph Ratzinger, prima come prefetto del Sant’Uffizio, come defensor fidei, poi come pontefice, e metteva paura a tutti loro il suo rigore. Cosa intendono allora per ‘coraggio’ gli impauriti di ieri quando elogiano in modo infingardo il gesto di Benedetto?

Questo Almanacco ha ricordato una volta come in un libro di René Girard dell’inizio del terzo millennio, La pietra dello scandalo (Adelphi), il pensatore francese dialogando con Maria Stella Barberi a proposito delle calunnie su Pio XII, dicesse: «Del resto si tratta delle stesse motivazioni che guidano le polemiche scatenate contro il cardinale Ratzinger. La terribile dittatura del cardinale Ratzinger! Per caso lei l’ha mai incontrato? M. S. B. – Credo di averlo incontrato nelle condizioni ideali. Aveva appena dato una conferenza alla Sorbona, e quello che ricordo di lui è soprattutto la sua forza intellettuale. R. G. – È un uomo dotato, e di modi estremamente piacevoli, ma per certi Americani è peggio di Eichmann, Goebbels e Stalin messi insieme. Si rende conto del coraggio che devono avere uomini nella sua posizione per opporsi al mondo intero, e rendersi impopolari ricordando ai teologi cattolici che ci sono dei limiti oltrepassati i quali non ci si può più dire legittimamente cattolici. Ratzinger non è nelle condizioni di imporre nulla a nessuno, dal momento che nessuno può essere costretto a restare nella Chiesa contro la sua volontà. Il cardinale non fa che ripetere ciò che la Chiesa ha sempre detto. Egli esprime anche la sua inquietudine rispetto a quello che vede ovunque, e questo meriterebbe qualche riflessione…». Sì, è proprio vero, ha ragione Girard, tutto ciò meriterebbe varie riflessioni, a maggior ragione dopo l’acclamazione dei ‘laici’, degli avversari convertiti repentinamente, dei denigratori del «pastore tedesco» dipinto finora come un cane di guardia dell’ortodossia. Non si dimentichi che prima ancora di essere eletto papa il professor Ratzinger suscitava la più profonda avversione dei luogocomunisti di tutto il mondo, gazzettieri e accademici, vescovi e politicanti, trasformatasi in un istante, la mattina dell’undici febbraio 2013, in una ammirazione untuosissima e ripugnante.

Ai loro orecchi era suonata scandalosa l’idea ratzingeriana della continuità del Concilio con l’intera storia della Chiesa. Se infatti tale ipotesi del teologo bavarese vanificava le congetture dei più radicali tra i conservatori usi a considerare il Vaticano II come un colpo di mano dei traditori di Roma, allo stesso tempo immiseriva l’orgoglio dei fedelissimi di costituzioni, decreti e vari documenti conciliari, dalle prose fumose anni Sessanta benché ancora in latino, zeppe di sociologismi e di cultura franco-tedesca. E tanto più si accanivano contro papa Benedetto in quanto conoscevano la storia del giovane perito Joseph Ratzinger giunto a San Pietro per sorreggere con la sua dottrina le acrobazie teologico-politiche degli innovatori nell’assemblea conciliare, e altresì sapevano che anche lui aveva provato il gusto apocalittico della distruzione del vecchio mondo, della visione di una terra senza più mare, secondo l’annuncio del profeta di Patmos, onde la barca di Pietro si veniva a trovare insabbiata e lo stesso timoniere rieducato, more Rivoluzione culturale cinese, alle procedure collettive. Con fervore di cuore, limpidezza di intenti, severità di studi e confronto con tutto quanto la cultura novecentesca andava offrendo nei suoi picchi inebrianti, vuoti d’aria compresi, senza i limiti della Pascendi né dell’Index librorum prohibitorum né delle titubanze che avvolgevano la formazione nei seminari ecclesiastici appena una generazione prima, il giovane Ratzinger si era preparato a offrire rispettosa attenzione alle correnti intellettuali più distanti dal cristianesimo. Ma in questo difficile compito di conciliare cattolicesimo e modernità che aveva impegnato il seminarista e poi il teologo di fama, il futuro papa si accorse strada facendo della assoluta mancanza di rispetto che c’era nella Chiesa post-conciliare per la tradizione, maxime sul versante liturgico. Accadde altrettanto a teologi considerati profeti e protagonisti dell’assise conciliare, come per esempio Jean Daniélou, che si guardarono smarriti di fronte alle rovine della Chiesa di Roma. Lo stesso Maritain, principale ispiratore del Concilio, sembrò perdere la grande speranza che lo aveva accompagnato nel disegno vagamente hegeliano – un Hegel in chiave cattolica – di una Chiesa sintesi di Medioevo e Modernità. Finché perfino Paolo VI, che quel Concilio aveva guidato, si mise a denunciare la presenza di Satana nella Chiesa aggiornata. Allora il nostro teologo, con germanica correttezza, cominciò a prendere atto della persecuzione verso la tradizione cattolica a partire dal rito romano antico, idest gregoriano-tridentino, cancellato brutalmente da un giorno all'altro, ragion per cui il professor Ratzinger diventava un sospetto reazionario agli occhi dei suoi compagni di un tempo. Lo studioso che pur padroneggiando le filosofie moderne non idolatrava quelle più ostili al messaggio evangelico – come accadeva ai teologi dell’ovvietà, ai vergognosi del proprio cristianesimo, a coloro che amano a tal punto i loro nemici da invaghirsi di Belzebù, ai passionisti della comunicazione, agli invidiosi dei laici, agli emuli dei politici – un tale ‘resistente’ alla secolarizzazione totale doveva apparire uno strano animale. Colui che osava sfidare il relativismo imperante, l’unica religio che accomuna la vecchia Europa e colonizza gli altri mondi, che ammalia le masse con la sua tolleranza apparente, con il buonsenso senza intelligenza, un sì audace predicatore risultava per forza inattuale, irritante nel suo sfuggire alle cadenze abituali. Ieri, nel finale del suo papato, Benedetto tornava su questo punto-chiave, distingueva tra un Concilio virtuale – inventato dai media e creduto autentico – e un Concilio reale, dimenticato o equivocato. C’era da rimuovere quella falsa dottrina diffusa dalle gazzette e intanto, mentre il vecchio pontefice si doleva per non essere all’altezza della battaglia che attende i cattolici, le medesime gazzette celebravano la modernizzazione del papato, l’ultima puntata del Concilio virtuale, almeno per ora, ché c’è ancora da dissolvere la fede cattolica nello scetticismo totale, far morire la Chiesa e mercificare definitivamente corpi e vita.

Questo lo scontro in atto. Con molto garbo, come ricordava Girard, Ratzinger difende il dogma. Ecco perché la Roma senza papa, pur essendo ancora vivo il papa, suscita oscure apprensioni: nel chiasso mediatico si intravede la Roma senza più dogma. Qualcuno direbbe: c’è il caos satanico. Non si tratta di un pavido e superstizioso tradizionalista, bensì di un sommo erudito del nostro tempo, un ebreo, George Steiner. Naturalmente non parla da teologo, si limita a ricordare da fine lettore: «i decreti esplicativi e legislativi pronunciati da Roma e dai custodi dell’ortodossia nella Parigi medioevale, la clausura dottrinaria e metafisica della Summa di Tommaso d’Aquino possono essere compresi come un tentativo di mettere un punto ‘finale’ ermeneutico. Proclamano essenzialmente che il testo primario può significare questo e questo, ma non quello. Le equazioni che collegano la comprensione razionale e l’autorità esplicativa alla rivelazione sono complesse ma alla fine possono essere risolte. È lecito quindi definire il dogma come una punteggiatura ermeneutica, come la promulgazione di un blocco semantico. L’eternità ortodossa è esattamente l’opposto della revisione e del commento di un’interpretazione senza fine. Nella fede, nella logica e nella grammatologia scolastiche (come più tardi in Hegel), l’eternità è una forma ordinata e chiusa. Ciò che non ha fine è caos satanico» (Real Presences, trad. it. Garzanti 1992).

In mancanza di lumi ecclesiastici, ce ne stiamo in compagnia di René Girard e di George Steiner, in modo da astrarci dalle forsennate insulsaggini dei giornali. Steiner del resto ha spesso invitato a diffidare del linguaggio come strumento positivo di comunicazione. Lui non è ingenuo come i pretini che si accendono per twitter, sa bene, lo ha imparato alla scuola di Scholem, della demonicità dei media, soprattutto quando la forma si scompone.

lunedì 11 febbraio 2013

La rinuncia

~ UNA PRECE PER ROMA SENZA PAPA ~

La modernità ha colpito al cuore anche il papato, in maniera forse più violenta delle revolverate di Alì nel giorno di Fatima. Oggi, giorno di Lourdes, tutti parlano di «dimissioni papali», come per i presidenti politici (quanto a san Clemente, Ponziano, Celestino V e i rarissimi casi restanti, si trattava di ben altro). Lo stile ‘laico’ abbatte la tradizione sacra, nessuno sembra ricordare in queste ore che si sta parlando del «vicario di Cristo», del «dolce Cristo in terra», per usare le parole di Caterina da Siena. Nessuno, neppure ai vertici della Chiesa, ritiene che sia urgente invitare alla preghiera, nessuno convoca la Catholica a riunirsi orante di fronte a un passaggio eccezionalmente drammatico della sua miracolosa storia. Si disquisisce sugli aspetti terreni. Non c’è peggior cinismo – altro che quello dei papi rinascimentali – della caricatura di un pontefice che sembra andare in pensione. Si cominciò con il rinunciare al triregno e al fasto e con il mettere in discussione il primato petrino, si finisce ora con una specie di professore emerito sulle panchine dei giardini vaticani tra le ipocrite acclamazioni per il ‘nobile gesto’. C'è una tristezza diffusa davanti a un pontificato sottratto alla conclusione naturale della morte fisica, interrotto invece da appena due parole, da una dichiarazione inaspettata. Il successore di Pietro non deve essere un eroe della forza, anzi il Pietro che dà nome a quell’ufficio fuggiva tremebondo davanti alle persecuzioni (c'è grande pietà per le fobie da queste parti), ma se il fragile uomo che ha su di sé il potere di unire il cielo e la terra, se il vecchio saggio che possiede le chiavi divine per schiudere le porte del Paradiso e richiudere quelle dell’Inferno non ce la fa più e si arrende, è il momento di innalzare una preghiera.

Si apra il Messale romano e si prenda l’Oratio per l’elezione del papa: «Súpplici, Dómine, humilitáte depóscimus: ut sacrosánctae Románae Ecclésiae concédat Pontificem illum tua imménsa pìetas; qui et pio in nos stúdio semper tibi plácitus, et tuo pópulo pro salúbri regìmine sit assìdue ad glóriam tui nóminis reveréndus». Che in italiano suona: «Ti supplichiamo umilmente, o Signore, di concedere, per la tua immensa pietà, alla sacrosanta Chiesa Romana un Pontefice che a te sia accetto per santo zelo verso il gregge, e presso il tuo popolo sia degno di continua riverenza per il saggio governo a gloria del tuo nome».