domenica 30 gennaio 2011

La scarpa gotica

~ RILEGGENDO EDGAR WIND SUI «PERICOLI DELLA CULTURA».~ SECONDA PUNTATA: L’ART POUR L’ART ~

«Niente porta più sicuramente alla più perfetta barbarie
di un attaccamento esclusivo allo spirito puro…»
........................................................................................PAUL VALÉRY

Sulla scia di Edgar Wind, dicevamo nella scorsa puntata che la cultura è un passepartout per entrare pesantemente nelle casse pubbliche e per ottenere qualsiasi libertà, ma questa fonte di privilegi ha perduto strada facendo il suo legame con la vita umana. Sempre più astratta, si presenta ingannevolmente come la quintessenza del Bene e del Buongusto. La leggenda che Cultura e Bene vadano a braccetto ha ricevuto nel Novecento non pochi colpi, soprattutto quando si son visti alcuni tra i suoi migliori esponenti finire per esempio nelle contrade nazi-fasciste, magari per abbaglio: da Benn a Heidegger, da Jung a Schmitt, da Marinetti a Sironi, da Pirandello a Pound, tanto per citare i primi grossi nomi che vengono alla mente, e per smentire la formula consolatoria che essa se ne stia sempre dalla parte ‘giusta’. Quanto all’eleganza di cui si ammanterebbe, basta entrare in una libreria e vedere i suoi prodotti più in luce sui banconi: titoli triviali, con doppi sensi, nell’inglese del gergo mondialista: ogni divetta, ogni fantasma televisivo, ogni giornalista pubblica il suo libro di successo, bisogna faticare molto per rinvenire una copertina promettente, e maggiore fatica è necessaria per prendere in mano un bel libro. Nella percezione della maggioranza la cultura continua a essere considerata quanto mai oblativa benché non nasconda affatto i vili interessi che le si accumulano intorno, tra i pochi anzi che riescono ad animare sempre il mercato. Nessun disinganno può mandare in crisi quel belletto che serve a mascherare masse assai rozze e che è venduto loro come un deodorante dello spirito.

Senza ricette, Wind prova a spiegare l’inflazione spaventosa di questa parola, l’indebolimento culturale degli ultimi tempi, la insipienza dell’arte resa definitivamente «innocua». La «sublime indifferenza» per le passioni umane e il culto della forma hanno sicuramente contribuito a raffinare la storia dell’arte, hanno aperto nuove frontiere alla sensibilità, l’hanno ripulita dal sentimentalismo, però a furia di purificare l’arte otteniamo una attività che sconfina con l’inutile. Purismo e distruzione vanno di pari passo. Resa leggera, tutta spirituale, perché mai l’arte dovrebbe coinvolgere seriamente qualcuno? Gide la chiamava «une peinture décérebrée», scervellata, morta, in anticipo su quello che si vede nelle fiere di oggi. Per Wind la causa prima sta nella ricerca dell’art pour l’art.

Della follia e della morte cui conduce un’arte fine a se stessa, narrò splendidamente Balzac nel suo racconto Le Chef-d’œuvre inconnu (v. su questo «Almanacco» La morte e il diavolo nascosto nell’artista) in cui un pittore annichilisce la sua opera per purificarla d’ogni soggetto. Più o meno contemporanei del romanziere francese, i romantici tedeschi predicavano la dissoluzione della poesia e della pittura nella musica. Mallarmé che dichiarava «la Destruction fut ma Béatrice» è già un artista come quello rappresentato nella tragica storia balzachiana. Tra i critici che conducono verso quest’arte spoglia d’ogni funzione vitale, basta ricordare Wölfflin e la sua osservazione sull’essenza dello stile gotico evidente in una scarpa appuntita come in una cattedrale. Così dicendo, spiega Wind, «egli aveva scoperto che quanto più un soggetto è carico di emozione religiosa, tanto maggiori sono gli ostacoli che si frappongono all’apprensione puramente visiva». Si tratta quindi di spogliarlo di ogni emozione, di ridurlo a segno, a particelle minime di segno sulle quali poi si costruirà la semiotica. Procede da simili teorie, dalla scarpa posta sul piedistallo che fu delle cattedrali, il feticismo estetico imperante.

Ortega y Gasset, tentato da eleganti paradossi, non si accorse di quel che stava crescendo nell'orto della sua «arte disumanizzata», gli sembrava semplicemente una buffoneria sofisticata, remota dal pubblico popolare, un gioco aristocratico intraducibile, non riuscì a prevedere quell’«appetito di solennità» per cui vieppiù gli installatori e provocatori, i comici del contemporaneo, tengono tanto alla fatale parola: «arte». D’altronde è ormai soltanto una simile parola che permette la trasmutazione di una merce qualsiasi in un oggetto estetico di grande prezzo, per il godimento delle masse che si piegano devote di fronte a un misterioso feticcio che produce magicamente soldi dal nulla. E nella celebrazione enfatica della giovinezza il saggista spagnolo tralasciava l’affermazione della «emotività adolescenziale» che a lungo andare diventa cliché stucchevole e insopportabile (ragione in più del ridicolo che suscitano le persone mature chine su tali giocattoli).

Il timore della consonanza in Schönberg, il gusto iconoclastico nelle arti figurative, la ossessione per il dettaglio: questo lo spettacolo di un’arte che ha rinunciato ai suoi «compiti vitali». A furia di cercare l’assoluto, a scapito della visione sensuale che loda il mondo empirico, accade, alla maniera dell’uomo che volle farsi angelo di Pascal, che ci si ritrovi nella prosaicità più meschina. Invece, come ricorda Paolucci nel catalogo della mostra appena aperta a Forlì sul suo maestro di angeli, «la Bellezza che incarna l’idea ha da essere assoluta e allo stesso tempo naturale: così pensava Melozzo. La bellezza abita l’empireo dei supremi Veri e tuttavia è calata nella storia, è riconoscibile nelle donne e negli uomini che vivono sotto il cielo». Baudelaire avrebbe concordato «il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile […], e da un elemento relativo, legato alle circostanze, e che sarà, se si vuole, di volta in volta o contemporaneamente, l’epoca, la moda, la morale, la passione. Senza questo secondo elemento che è come […] l’aperitivo del dolce divino, il primo elemento risulterebbe indigeribile […], inappropriato alla natura umana». Prezioso equilibrio tra «esperienza reale ed esperienza vicaria» che i mistici dell’arte, i sacerdoti della nuova religione estetica (ma anche, dall’altra parte, i teorici dell’engagement) hanno distrutto.

Un altro pericolo della cultura che i suoi cantori ignorano o dimenticano. Ma se il male estetico attuale non è il frutto del complotto di eccentrici e scellerati, si tratta di una faccenda «più profonda di qualsiasi capriccio individuale». Di conseguenza non la si può rendere reversibile con una semplice decisione. Se vogliamo che l’arte torni a una funzione più centrale nella nostra vita – conclude Wind – bisogna anzitutto che la nostra vita cambi».

(2. – continua)

mercoledì 26 gennaio 2011

Le forbici di Platone

~ RILEGGENDO EDGAR WIND SUI PERICOLI DELLA CULTURA. ~ PRIMA PUNTATA: L’ATROFIA CONTEMPORANEA ~

C’è un ministro della Repubblica che rischia d’essere cacciato dal governo con l’accusa di «aver speso poco» per la cultura. Un tanto al chilo: si è capito che le faccende sublimi, da Platone a Hofmannsthal, sarebbero per l’opinione pubblica corrente un fatto di soldi. Più si spende più cresce il livello culturale. Un assai volgare liberalismo si è impadronito anche dell’opposizione nominalmente di sinistra. Ma forse questa smania di investimenti muove soprattutto dalle preoccupazioni delle camorre che ruotano intorno al mercato dell’arte e dello spettacolo, dei miracolati dell’industria culturale di Stato, più semplicemente degli occupati in quel settore. Della povertà immaginativa non si fa mai cenno in simili discussioni sui bilanci dello spirito. Al bonario ministro dei ‘tagli’, a questo Scissorhands fiabesco, sicuramente poco adatto a lavorare nel ginepraio dei furbi, dedichiamo le nostre modeste riflessioni a puntate sui pericoli della cultura.

Nel 1963, alla radio della Bbc, trasmisero sei conferenze di Edgar Wind, storico dell’arte berlinese che insegnava a Oxford. Ventotto minuti ciascuna, molto sintetiche dunque pur affrontando i grandi temi del pensiero occidentale: aveva lavorato con le forbici anche lui. Raccolte sotto il titolo di Arte e anarchia le conversazioni divennero un libro, tradotto in italiano da Adelphi, che riassume con il tono delle lezioni britanniche e l’erudizione dei professori tedeschi le questioni che ritornano più insistentemente in questo «Almanacco». Cominciamo dalla prima: la paradossale perdita di peso della cultura nel momento in cui essa è più diffusa del pane, a tal punto che viene considerata innocua, anzi benefica, come un qualsiasi piatto di pasta, e invocata sulle barricate come un tempo la farina. Ci si è dimenticati nel frattempo del timore sacro che avvolgeva questa speciale attività umana, l’abbiamo svuotata del suo carattere oscuro e addirittura minaccioso, per ingenuità illuministica la spargiamo come fosse un disinfettante. Platone che se ne intendeva maggiormente dei gazzettieri che ci circondano sospettava di tutto quel che deriva dalla umana immaginazione spinta dai dèmoni. La sospettava e nello stesso tempo la considerava, al punto «da pensare che un uomo potesse venir mutato dalle cose che immaginava», ci ricorda Wind. E, come è noto anche a chi non ha letto Platone, riteneva che «l’arte mimetica fosse una pratica estremamente pericolosa, e propose alcune leggi curiose, in base alle quali l’imitazione mimica di personaggi stravaganti o malvagi veniva vietata». Così Wind evoca le forbici platoniche della censura, una parola che risulta impronunciabile nel nostro tempo. Ma lo squisito professore berlinese paragona la censura alla potatura – di nuovo le forbici, i tagli! – mettendo in evidenza la contraddittoria attività del censore (e del potatore): ridare vigore a quel che si taglia, rischiando peraltro di rovinar tutto se si intacca la radice. Però, senza potare, senza rinvigorire, senza censura alcuna – come se quello che dice l’arte fosse innocuo, inutile, infante – si avrà l’atrofia contemporanea, dove l’arte è uno smisurato parco giochi che invade vanamente ogni dove. Dei giudici americani, citati da Wind, che evidentemente negli anni Quaranta davano ancora peso all’arte, sentenziarono che «tanto più un libro è tedioso, tanto più la sua oscenità andrebbe scusata», mentre «quanto maggiore è l’arte tanto maggiore è la sua forza nociva». Oggi, ancor più che ai tempi di Wind – è già passato mezzo secolo dai Sessanta – l’arte è una specie di bollino che permette ogni libertà. Ma un mondo senza limiti, senza censure, perde in credibilità, è condannato a una eterna marginalizzazione. Al centro della scena regna infatti la scienza.

Prima di Wind, era chiaro già a Hegel. L’arte diventava nel linguaggio dei romantici un’esperienza «interessante», la nuova parola-chiave dell’epoca. Ora un oggetto «interessante» suscita una attenzione effimera, in breve perde di interesse, è legato alla medesima legge della moda. Hegel si accorse dunque che l’arte aveva perso «quello stretto legame che in passato aveva avuto con le energie centrali dell’uomo». Il filosofo dialettico scrisse: «Per noi l’arte non è più il modo supremo con cui la verità si crea un’esistenza…». La verità, incomprensibile ma venerata nel nostro mondo, è quella delle scienze. Gli artisti sono degli intrattenitori, magari un po’ sciamani per sostituire la liturgia abbandonata dalle chiese.

Resa eunuca, l’arte ha perduto la sua sinistra potenza, si presenta come un gingillo. Confusa con il «tempo libero» dei carcerati del lavoro, con il turismo, con la gita e le pastarelle domenicali, diviene una pappa, una melensa apertura a tutte le provocazioni, sorbite con rassegnazione, perché già si sa che il gioco consiste proprio nello spostare l’asticella sempre più su ma senza mai rischiare di cadere, l’arte è ormai senza rischio. Di atto gratuito in atto gratuito, si può arrivare, come nel romanzo di Gide, all’omicidio, ma senza timore né tremore: anch’esso reso ornamentale dal velo estetico.

Platone sarebbe stato d’accordo con i giudici americani: «le nature deboli sono difficilmente capaci di molto bene e di molto male». Il grande artista sconvolge l’ordine sociale e il cuore dell’uomo, è davvero pericoloso come il grande criminale; senza per questo sovrapporre le due figure. Invece nell’Ottocento tedesco si provò ad accostarli: l’artista rinascimentale e Cesare Borgia. Burckhardt parlò dello «Stato come opera d’arte», alla sua scuola Nietzsche, eccitato da tale sovrapposizione, arrivò a confondere Tiziano con Borgia. Ma Burckhardt era meno platonico di quanto sembri e gli capitò di pronunciare una frase agli antipodi di quella succitata sulle nature deboli. O meglio, Wind gliela aggiusta così, e sembra un’anticipazione di quanto detto da Hannah Arendt sui nazisti: la mediocrità «come la vera forza diabolica di questo mondo». Non ci si può bloccare in tale antitesi. Baudelaire, citatissimo in queste conferenze, sembra sciogliere il nodo: «la passione frenetica dell’arte è un cancro che divora il resto». Non si tratta cioè di una passione neutra, la frenesia artistica è già mossa dai dèmoni, i grandi artisti e i mediocri son guidati ugualmente da tale «divina pazzia». Non si scherza con la energia della immaginazione, non a caso le singole arti si chiamano discipline, serve una serie di tecniche e un addestramento onde tenere a bada la fiamma della fantasia. Ci si muove tra l’eccesso e l’atrofia, tra la possente forza barbarica e la forma civilizzatrice. Zolla, che Wind probabilmente non conosceva, compilerà in quegli stessi anni, una Storia del fantasticare in cui – come scrive Grazia Marchianò – «dopo aver esplorato a fondo la fantasticheria nella psiche e nell’esperienza comune, nella storia del costume e nelle letterature in Occidente, denunciava con vibrante vigore il falso legame tra imaginatio vera e fantasticheria (day dreaming), e l’impostura della loro contaminazione perpetrata nel tempo moderno. Alimentato dalla pubblicità e dall’uso deformante dei media, il fantasticare al galoppo ha reciso secondo Zolla la percezione della differenza, nota alle società tradizionali, tra l’archetipo affiorante dall’imaginatio vera e i deliri del sogno a occhi aperti». In questa sarabanda infernale, l’autore del romanzetto sentimentale e il grande artefice surrealista si aggrappano allo stesso modo alla fantasia indisciplinata.

«Ma quali precauzioni prendiamo, nella nostra odierna, tumultuosa vita artistica, per non lasciarsi dominare da tali forze, oppure per non soffocarle? Che cosa dovrebbe fare la nostra economia artistica per evitare sia l’eccesso sia l’atrofia», si domanda a un certo punto Wind in punta di piedi. Forse la prima precauzione sarebbe quella di arrestarsi dubbiosi sulla soglia del panculturalismo imperante, sulla diffusione coatta dell’arte. I vecchi sospetti sulla sua mercificazione evitavano almeno le ridicole apologie del mercato degli ex rivoluzionari.

«Il direttore di orchestra Kussevitzky era solito affermare che di musica non ce ne sarà mai abbastanza: più musica viene eseguita, più musica viene ascoltata, tanto meglio per tutti. È chiaro, mi sembra, che le cose sono andate proprio come voleva lui. In nessuna epoca della storia è stata offerta al pubblico, e ascoltata dal pubblico, tanta musica come oggi; e probabilmente lo stesso vale per la letteratura», ammette l’autore. Adorno avrebbe detto indignato che la signorina di buona famiglia che suonava il piano con i pochi spartiti che circolavano nelle case della media borghesia aveva una conoscenza della musica e un godimento estetico infinitamente superiori del feticista della tecnologia stereo che colleziona stanze di dischi. E altrettanto si potrebbe affermare per la letteratura: i viaggiatori nei treni metropolitani che leggono un romanzo al giorno hanno sicuramente minore esperienza letteraria del poeta-contadino. Si è condannati al ruolo di consumatori. Spesso si prenotano mostre e concerti e si pagano i libri con una stessa card ‘culturale’. Ma il divoratore di cultura non reagisce più, non reagiva già ai tempi di Wind: «siamo inondati di mostre, ci rimpinzano di libri d’arte; e questi immensi aggregati di immagini disponibili vengono assorbiti con un’avidità e, posso aggiungere, con un grado di intelligenza che avrebbero certamente sbalordito altre generazioni, meno adattabili della nostra. È diventato ormai rarissimo il caso della persona che, messa di fronte a un linguaggio pittorico per lei insolito, si permetta di deriderlo, come se fosse lo scherzo di un buffone che non sa disegnare […]; ma questa resa all’arte, quasi senza condizioni, sembra altrettanto allarmante». Non c’è più né sacro timore né resistenza dell’intelligenza. Si dice sì a tutto e il tutto non dice più niente.

«Siamo molto inclini all’arte, ma l’arte non ci tocca molto profondamente, ed è per questo che ne possiamo assorbire tanta, e di tanti, tanti generi diversi». Valéry trovava impossibile il museo dove l’eloquenza di troppi quadri diversi frastornava: come leggere più libri simultaneamente. L’eclettismo imperante è segno di indifferenza. Il pubblico è diventato immune all’arte, ha un vaccino, dal contatto con essa non deve temere più nulla, non corre più alcun rischio: può assorbirne in grande quantità. Lo scandalo allora dovrebbe scuotere, ricordare l’antico timor sacro che essa suscitava, ma ridotto a un riflesso condizionato ha perso il suo ruolo pericoloso. Adesso, da un secolo e più, è finanziato dallo Stato democratico, rivolto a tutti, come l’istruzione.

L’arte è diventata un onnipresente ornamento di un mondo assai brutto. Bene farebbe il ministro a usare ogni giorno le forbici platoniche.

(1.- continua)

lunedì 24 gennaio 2011

L'amore tridentino

~ UNA VECCHIA LETTERA SU ANNIBALE CARRACCI~

Una email del 2007, resoconto a una amica in Andalusia di una mostra senza gloria per un gloriosissimo artista, Annibale Carracci, rimasta nella memoria del computer, viene ritirata fuori per consolare gli sventurati che si sono recati a una mostra ben peggiore: «Palazzo Farnèse» (sic, col cognome francesizzato nell’alma città di Roma), invenzione del legato di Sarkozy per celebrare nella sua ambasciata la ‘douce France’ pure con papa Paolo III e i suoi nipoti. Non si tratta infatti di una normale visita del Palazzo – salvo il fine settimana restano chiuse al pubblico addirittura le stanze dei Fasti farnesiani – bensì, ricorrendo all'enfasi dell'evento, di un’occupazione di alcuni ambienti della dimora cardinalizia con enormi e sgraziati contenitori neri dove allestire le consuete vetrinette di monete, copie di quadri, calchi di statue, fotografie. Niente che valga un viaggio apposito, a parte l’opportunità di vedere la Galleria Carracci (con le finestre rinserrate in pieno giorno, con l’illuminazione artificiale) e altre poche (purtroppo) opere sparse di Annibale. La vecchia lettera può allora risultare più opportuna di una recensione: con il linguaggio diretto dello scambio epistolare si parla di quella famiglia di artisti che dette luce e colore alla Riforma cattolica.

25 gennaio 2007 -. Stasera son stato all’inaugurazione di una mostra onesta di Annibale Carracci in tournée a Roma proveniente da Bologna. Nel Chiostro del Bramante, disinfettato del sentore di plastica del polacco-americano pop precedente, ma con una diffusa puzza comunque nelle cellette che mal si prestano a spazio per esposizioni, dunque benché il naso offeso, l’occhio una volta tanto viene accarezzato. Nella prima sala, una sfilata di autoritratti. Quando la si fa lunga sull’introspezione dei protestanti nordici in generale e di Rembrandt in particolare, si dovrebbe esser subito smentiti da simili pregevoli opere. Ma certo, qui non si prova l’imbarazzo del racconto intimo, non si sentono i miasmi dell’interiorità, non si vede la smorfia di chi vuol mettere in scena l’anima. Semplicemente un bel giovanotto bolognese si specchia provando una posa seducente, elementare la psicologia, elaboratissima la superficie. Carracci si presentava baldanzoso con quell’accento emiliano che confonde nelle s e nelle c per cui alcuni trascrissero Annibale Carrazzi.

Fino alla morte prematura, neanche cinquantenne, causata da grossa depressione, si dipinse, sfiorando perfino le forme della decomposizione fisica. Nelle sale seguenti, ancora maggiore la cura nel riprendere i corpi nello spazio naturale, il magistrale senso di equilibrio che si riscontra per esempio nel Bevitore arrovesciato. Italiano a dispetto di tutti i manierismi di contemporanei suoi e naturalmente anche dei realismi ‘quattrocenteschi’ di quel Merisi tanto esaltato oggi. Faccio un inciso. Con le desolanti metafore di cui si pasce il giornalismo, tutti i divulgatori ripetono per illustrare l'esposizione: «l’altra metà del cielo del Seicento romano»; oppure ricorrendo alla frase ready made: «non solo Caravaggio fu il Seicento»; insomma, per parlare di Annibale alle porte della nostra Roma scordarella, citano il nome più di moda, l’eccitatore romantico dell’accoppiata pittoresca arte & delitto, colui che è caro al pubblico imbelle del Terzo millennio anche per avere probabilmente accoppato un amico ed essere asceso così nell’empireo dei ‘trasgressori’. In tal modo, l’erede più puro di Raffaello deve ricevere luce di riflesso dal pittore specializzato nel cliché delle ombre, da chi «non faceva mai uscire all’aperto del sole alcuna delle sue figure», come osservava Giovan Pietro Bellori. Si inventa, per facilitare la ricezione, un Seicento tutto dominato dal Lombardo, come piacque pensare nella metà del secolo scorso a un pugno di storici e critici. A tal punto simile ricostruzione diventa luogo comune nei suoi seguaci che il leggendario disegnatore bolognese deve essere rammentato per specchio merisiano, dal momento che la perfezione delle composizioni, l’invenzione eccelsa sviluppata nelle trionfali sale farnesiane, la colta e articolata disposizione, la filiazione dal classico, la sapienza nella fiaba mitologica nulla sembrano valere più agli occhi catarattici dei miei contemporanei.

Torniamo alla nostra storia, alla nostra mostra. Il maggiore dei Carracci giunse a Roma, scoprì Raffaello, e si cimentò con la sua gloria. Aveva visto i Veneti, conosceva bene i suoi compaesani, a cominciare dallo squisito Correggio, si dedicò a sintetizzare la grande arte della penisola. Riassumere Raffaello Michelangelo e Tiziano, e rilanciare: un progetto augusto. Ovvero, la Scuola italiana. Oggi, abbiamo l’Italia unita da una staterello ma non una scuola pittorica, forse neppure musicale, mentre già all’alba del Seicento la straordinaria eccellenza della pittura italiana, bene articolata in numerosissime sotto-schole, era chiara agli occhi di Annibale e del mondo.

Cattolico di Bologna, città della Controriforma, fu fedele alla idea di Bellezza. Poca gente alla mostra e distratta: nessun quadro li colpiva particolarmente né aneddoti picareschi. L’autore non era un superuomo, semplicemente un artista al servizio di un signore, artista in livrea come lo fu J. S. Bach o Hölderlin (geni che non ebbero bisogno delle piccole libertà e licenze in cui annegano le mezze tacche); non fu neppure sospetto di omosessualità.

A chi va in cerca di emozioni, come se fosse al cinema o allo stadio, Cesare Garboli docet: «Destituire il fatto d’arte di qualsiasi referente psicologico e esistenziale». Oggi invece ci si sguazza in quest’aria calda emotiva. C’è una ragione precisa e importante nell’esaltazione moderna dell’emotività. Nella scomoda mostra si afferra comunque bene la nobile impresa di Annibale nel formare un linguaggio aulico che oltrepassasse soggettività ed emozioni, anche dipingendo ritratti e autoritratti. Pose eroiche, paesaggi eroici. In quelle sue lunette Aldobrandini (celeberrima la Fuga in Egitto della Galleria Doria Pamphili) mise a punto il paesaggio romano del Seicento, fu maestro diretto di Domenichino e indiretto di Poussin e Lorrain. Ovvero aprì la via del ritorno al classico come quella del barocco per cui gli sono allievi altresì Pietro da Cortona, Rubens, Bernini e Borromini. Per la solennità che assume il paesaggio, Cesare Brandi parlava di «epica della pittura più che ecloga». Cosicché si può dire che stavamo ammirando quadri controriformisti...

I ‘classici’ non si erano mai permessi troppi eccessi di sperimentalismo, nell’arte meridionale non si concepivano quelle composizioni di fiori e frutta che poi presero il nome poco allegro di ‘nature morte’, invenzione audace dei nordici, e da noi del Caravaggio appunto. Ma nella tela stupenda dedicata a Venere e Satiro – con il tizianesco prato erboso e il dettaglio burlesco del piccolo Eros che spinge la lingua fuori per la libido di cotanto corpo che lo sovrasta – il semianimalesco personaggio agita una coppa con uva che, opportunamente isolata, sarebbe una perfetta ‘natura morta’, epperò il Bolognese non se la sente di liberarsi dal racconto, ne fa un elemento prezioso della fiaba. Così come mi capitò di vedere in una mostra viennese di Dürer delle tavolette del maestro tedesco nel cui retro erano dipinte delle vere e proprie composizioni astratte, più geniali di quelle dei seguaci del Blaue Reiter, che restavano tuttavia fatto privatissimo, esperimento da tenere nascosto, essendo la missione del pittore quella di narrare storie attraverso le immagini, anzi secondo i precetti della Riforma tridentina per il nostro Carracci, ‘letteratura per illetterati’. Il soggetto protestante in quel rappel à l’ordre cinquecentesco sembrava scomparire dalle nostre parti. Ma oggi siamo così luteranizzati da essere incapaci di apprezzare una simile arte gaudiosa.

I tedeschi insistono che il protestantesimo «uccise la leggenda e il miracolo insiti nell’arte medievale cattolica», e davvero provò a toglierle la migliore aura, ma poi il sagace naturalismo è ancora affar nostro, proprio di Annibale che a Palazzo Farnese lo libera da un secolo di manierismi, anche attigui in quelle stanze. E se in schematico gioco si volesse riassumere: Caravaggio provò a rappresentare con una singolare fedeltà il dolore e la bruttura umana, ma Annibale si dedicò a una più difficile impresa: rendere con esattezza su tela e soprattutto sui muri la gioia e la beltà, un anticipo di Paradiso, un insegnamento diretto, da sperimentare fisicamente, secondo i precetti tridentini. E senza eccessive chiacchiere e teorie, come recita quel detto attribuitogli: «i pittori avessero a parlare con le mani». L’arte non è un criptogramma, un rebus che ha bisogno di mozziconi di parole. Cominciarono alla fine del Settecento, nelle prime pagine dell’Emilia Galotti, quando Lessing arriva a sostenere, anche se nella forzatura di una battuta (e forse sulla falsariga di una polemica michelangiolesca): «Quanto va perduto nel tragitto che va dall’occhio al braccio e poi al pennello di un pittore! […] O non pensate, forse, principe, che Raffaello sarebbe stato il più grande genio pittorico vivente se per disgrazia fosse nato senza mani? Non lo credete?». L’estetologo illuminista si confonde con i successori romantici nel culto alemanno dell’interiorità. Adesso, tutti senza mani gli artisti. Il sogno dei tedeschi è realizzato. Raro il lavoro artigianale delle mani e ancor più raro quello per ottenere bellezza, ché talvolta ci si affatica nell’atelier per rievocazione del travaglio manuale ma senza mirare al risultato della perfezione estetica, in un’inutile elaborazione certosina fine a se stessa, celebrazione narcisistica del lavoro anacronistico.

Con la Riforma protestante scompariva progressivamente il livello oggettivo e ontologico, tutto si svolgeva sul piano morale, affettivo e sentimentale (mi sentivo peccatore, ora mi sento salvato); la ragione e la volontà restavano fuori dal convertito. La salvezza era ridotta a un’esperienza sostanzialmente individuale ed emozionale.

Intorno alla salvezza come procedimento ragionevole, sorretto dagli esempi degli antichi, imprestati dai miti fuori del tempo, e reso icastico dalla pittura che discendeva da Raffaello e dagli altri grandi, provò ad allestire un’architettura dipinta Annibale Carracci con i suoi sodali nella Galleria farnesiana. Salvezza cattolica che riassumeva il discorso platonico sull’amore, lo integrava con la poesia latina di Ovidio per poi tradurvi l’annuncio della resurrezione dei corpi, il vangelo della redenzione del mondo fisico. Soffitto come un cielo, che a sua volta si apre in guisa di rideau teatrale, dove l’amore sublime si incrocia con quello terreno e lo riscatta. Carnalità della religione romana, carnalità della pittura italiana, contra la spettralità delle anime vaganti di sapore nordico. Nonostante la presenza platonica, si osa non dar peso eccessivo a quei timori del filosofo greco sul mimetismo artistico che spinge gli umani a un’imitazione peccaminosa. Sembra cioè spirare nella sala del severo palazzo una brezza erotica a coinvolgere i presenti, sedotti da quelle figure. E forse è vero, in quale altro luogo le visioni degli dèi e delle dee trascinano così direttamente lo spettatore in una corrente impetuosa che conduce a un trionfo d’Amore? Immagini dell’amore tridentino che la pubblicistica post-risorgimentale osò ridurre a una fosca caricatura: epoca funerea e puritana, sostenevano, ascetica e inquisitoria. L’epoca di Annibale Carracci e di Pierluigi da Palestrina.

Se mai ti capitasse di visitarla, nei prossimi giorni, al tuo ritorno, tieni in mente anche un incipit di rara bravura dell’Italo Calvino spesso celebrato a sproposito; sembra alludere a quei paesaggi barocchi, a quelle città celesti che incombono nei saloni romani sulle nostre teste: «Se allora mi avessero domandato che forma ha il mondo avrei detto che è in pendenza, con dislivelli irregolari, con sporgenze e rientranze, per cui mi trovo sempre in qualche modo come su un balcone, affacciato a una balaustra, vedo ciò che il mondo contiene disporsi alla destra e alla sinistra a diverse distanze, su altri balconi o palchi di teatro soprastanti o sottotanti, d’un teatro il cui proscenio si apre sul vuoto…» (Dall’opaco).

lunedì 17 gennaio 2011

Arso vivo

~ NOTE IN MARGINE A UN VOLUME SUL PENSIERO VEDICO ~

L’uomo sull’altare è una locuzione che evoca il sogno illuminista di sostituire Dio, offrendo all’adorazione la creatura mortale; le cinquecento pagine circa che compongono L’ardore di Roberto Calasso fanno intravedere invece l’uomo sull’ara sacrificale, ucciso in olocausto per gli dèi. La conoscenza religiosa in questo libro dove si parla dell’India vedica e dell’«innominabile attuale» è ormai presentata in forma di letteratura, vi figurerebbe bene in esergo un noto racconto jiddish: «Quando il Baal-Schem si trovava di fronte a un compito difficile, andava in un certo luogo del bosco, accendeva un fuoco e meditava pregando, e sempre fu eseguito quel che egli aveva deciso. Una generazione dopo, quando il Magghid di Meseritz si trovò di fronte al medesimo compito, andò allo stesso posto del bosco e disse: “Accendere il fuoco noi non possiamo più, ma le preghiere possiamo ancora dirle”, e quel che desiderava divenne realtà. Ancora una generazione più tardi, Rabbi Moshé Leib di Sassov, di fronte a un analogo impegno, andò anche lui nel bosco e disse: “Non siamo più in grado di accendere il fuoco e non conosciamo più le meditazioni segrete che fan parte della preghiera, ma il posto del bosco dove tutto questo avvenne lo conosciamo, e questo dovrebbe bastare”. E infatti bastò. Ma quando un’altra generazione dopo, Rabbi Israel di Richine si trovò di fronte al medesimo dovere, si sedette sulla sua poltrona dorata nel suo castello e disse: “Il fuoco non siamo più in grado di accenderlo, le preghiere non sappiamo più dire e neppure conosciamo più il posto preciso, ma possiamo tuttavia raccontare il fatto come in realtà è avvenuto”…». Così, spenti da tempo immemorabile i fuochi vedici, un letterato del terzo millennio d. C. prova a raccontarli. Non a caso, facendosi cronista di riti impossibili incrocia più volte Kafka.

Pierre Klossowski preferì tradurre un libro cinese, il Jeou-P’ou-T’ouan, ou La Chair comme tapis de prière di Li-Yu, scrittore oscuro del XVIII secolo, forse lavorando su un testo tedesco, congetturando assai, alla maniera di Ezra Pound che ridava vita ai classici confuciani, per offrire una versione personale del buddhismo, virato – viene da sospettare – nella teologia perversa delle Lois de l’hospitalité. Ben più neutro sembra essere il punto di vista dell’Ardore, il suo autore ha già sciolto diverse rigidezze filologiche per narrare in modo piano degli dèi greci come degli idoli moderni. Non è comunque lecito relegare il suo palinsesto in sette tomi, ruotanti tutti intorno al tema del sacrificio, sotto la categoria del «sincretismo», ché la fede qui non è in causa.

Alla maniera di una novella, l’incipit rimanda a popoli antichissimi, assai più antichi dei nostri antichi, nella cui civiltà l’invisibile prevaleva sul visibile, mentre la loro vita veniva avvolta da un reticolo fittissimo di riti, di formule, di prescrizioni. Ogni capofamiglia era tenuto a celebrare innumerevoli cerimonie private quotidianamente, a santificare – anche se il termine è approssimativo in questo caso – ogni atomo dello spazio e del tempo. «La loro mente pullulava di immagini» ma non scolpivano né ritagliavano figure del proprio Olimpo. Non lasciarono memoria di conquiste e di imperi, soltanto scritti liturgici, inni, racconti della divinità. Ci si riferisce ai Veda ma sembra che in filigrana appaiano i kabbalisti dell’Europa orientale, il loro arcipelago di comunità di frenetici del culto, di maniaci dell’etichetta religiosa; senza storia né politica. (Quando più avanti ci viene offerta un’altra immagine, quella della comunità ebbra con al centro l’animale legato al palo e forse un uomo, una vittima comunque pronta per il sacrificio, non c’è bisogno di scivolare nella Storia e magari pensare ai notturni tedeschi illuminati dai bagliori preordinati da Leni Rifenstahl, spunta piuttosto un ricordo letterario, il Bergroman di Hermann Broch, «romanzo religioso», secondo il suo autore: in un villaggio tirolese, un medico si astrologa per fermare l’epidemia pagana, per trovare un vaccino amuletico, ma non riesce a interrompere un sacrificio umano che ricompone la comunità; Girard lo chioserebbe facilmente.)

L’ultimo capitolo del libro è un sermone sull’«innominabile attuale» che nomina molte cose perfino troppo attuali, quasi nelle cadenze della moda, messo a confronto con il pensiero Veda. Nell’esposizione il cristianesimo finisce con l’essere un’eco dissonante dei remoti Arya o un’arroganza dei moderni. Si accenna magari al ‘liberarsi dal mondo’ che risuona ossessivo nel pensiero indiano e lo si accosta al motivo della salvezza cristiana, lasciando nel fondo quella radicale differenza tra la liberazione dal mondo e l’evangelica liberazione del mondo. Gli Stoici volevano liberarsi dal corpo, i seguaci di Gesù pretendevano liberare il corpo dalla morte.

Colui che officia il sacrificio vedico identifica morte e tempo, ignora l’eternità come tempo che non distrugge, non brucia. La liturgia cui ci ha abituati e legati il cattolicesimo – quella che incantava Cristina Campo – consacra il tempo, lo sottrae alla corsa furiosa, rispecchia l’eterno presente del Cielo.

Ricorrendo a Guénon, si parla dell’«odio del segreto» su cui si sarebbe fondato l’Occidente. E gli Arcana imperii? Fuori del cerchio magico del mentale, dello spazio gnostico, esiste il cerchio mondano con i nodi gordiani politici dove si andò a incarnare il Dio biblico.

Talvolta si mostra qualche assonanza con il cristianesimo, la «kenosis» paolina per esempio a proposito dello «svuotamento» di Prajapati; stranamente non c’è menzione esplicita delle tante figure kabbaliste che meglio risponderebbero alla cosmologia gnostica. Ed ecco la creazione come artigianato come processo che si fa e si disfa, senza gesto fatale e sovrano, opere demiurgiche dunque, al punto che non ci stonerebbero la rottura dei vasi, i mondi malriusciti e la fuoriuscita del Male.

Come si concilia l’estrema interiorità e la ritualità esasperata che caratterizza i Veda? Il rito, il gesto, la parola sacramentale sono per eccellenza atti esteriori, cui si addice il «mistero palese», una formula goethiana citata nel libro, una cifra dell’Occidente (che potrebbe smentire un’altra volta Guénon). La risposta che ci viene data ha la forma di una clessidra, la parte superiore e quella inferiore sono perciò equivalenti, interiorità ed esteriorità, invisibile e visibile la riempiono, nella strozzatura passa «il granello di senape unpanişadico (ed evangelico)». Su quella strozzatura si fissarono i romantici tedeschi che, portando a termine l’èra protestante, annegavano nell’interiorità e cancellavano definitivamente i riti millenari, anche i pochi sopravvissuti alla Riforma, degenerati nelle cerimonie private, i tè in salottini Biedermeier del Pietismo. Ma poi Novalis sapeva dire squisitamente della nostalgia dell’universo liturgico nella Catholica.

La rilkiana «Herzens Verschwendung», la dissipazione del cuore, rappresentava l’elegante processo di interiorizzazione che spettava al poeta e ai suoi amici. Oggi un simile esercizio si è diffuso a tal punto da risultare ordinario. Si prova imbarazzo per ogni esteriorità, per l’aspetto fisico, per i corpi. Questi non hanno più speranza di redenzione, ci si affanna a cancellarli. La sapienza dell’Adelphiano gli evita certi tranelli mentre l’insipienza degli adepti di un corrivo Oriente nelle periferie del mondo li porta a consolarsi facilmente con lo yoga pubblicizzato alle fermate della metro.

Così in una pagina si ammette, raccontando un mito, quel che nascondono tutti gli spiritualisti in voga: «Gli uomini sarebbero sì diventati immortali, ma senza il corpo. Quelle erano le spoglie per sempre abbandonate a Morte. E questo è il punto che ha sempre reso dubbia ogni promessa di immortalità. Gli uomini infatti preferivano quel loro corpo caduco agli splendori dello spirito. Diffidavano delle anime disincarnate, entità vagamente tediose e sinistre. Così il compromesso tra gli dei e Morte fu percepito come un inganno» (L’ardore, Adelphi, p. 114). Un tale inganno nell’ultimo secolo, cerebrale, spiritico e spiritista, è rimasto di nuovo in ombra, ma un esegeta del Rosa Tiepolo conosce la speranza dei corpi cui la pittura italiana ha assicurato una gloriosa incarnazione.

«Morte non muore», «Morte che sta dentro l’immortale», formule vediche che testimoniano l’arduo confronto con il tema supremo, fanno pensare alle dialettiche piroette di Hegel. Una delle tante intrusioni del nostro tempo, dell’«innominabile attuale» nella lettura di un libro sul pensiero religioso di tremila anni fa. Capiterà all’autore, in un altro punto del racconto, alle prese con i riti dei bramhana, di scrivere del «misero stato» della liturgia cattolica, conseguente al Concilio Vaticano II. Inserisce però tale approdo in un «progressivo, crudele alleggerimento dei gesti e delle parole intrecciate ai gesti» che contrassegnerebbe la storia bimillenaria della Chiesa di Roma. La meticolosa codificazione gregoriana – della liturgia e della musica – o quella tridentina sarebbero passaggi-chiave di una spoliazione del rito? Se i Brahmana sono «uno degli esempi più antichi di prosa indoeuropea», i loro eredi moderni sono allora i sacerdoti universali di luterana ascendenza, gli uomini della strada, i padri di famiglia, i pompieri dell’arte che compiono riti minuziosi per riprodurre la più piatta quotidianità, inconsapevoli di celebrare riti ma fieri di maneggiare la prosa.

L’art pour l’art sarebbe quel che resta del rito, si farebbe forte nel suo campo della formula sacramentale «ex opere operato». Ma audace è l’accostamento: solo nella recente pretesa dell’arte di essere la religione del nostro tempo – e nella conseguente autoproclamazione degli artisti – può darsi una qualche efficacia di simili riti. Forse non metteva in guardia su questo punto il Kafka della Colonia penale, pur seguace di Flaubert, spiegando il tramonto della liturgia estetica?

Certo è che, affine ai riti segreti dell’arte per l’arte, è tutta la religiosità moderna, quel generico sentire che rifiuta la rivelazione e i suoi dogmi per prediligere un rituale confuso, cerimonia celibe, dedicata a un «destinatario assente». Questo sì che risulta discendere dall’operare vedico tradotto dai nostri contemporanei.

Il moderno disprezzo per gli antichi riti sembra produrre il declino estetico: «il gesto libero era sempre più goffo, più impreciso, rispetto al gesto canonico». Ci si riferisce all’ ‘espressionismo’ che ha travolto l’’Occidente da più di un secolo?

La conoscenza di sé degli umani non può essere mai del tutto esaltante: si giubila guardandosi, ma spingendo lo sguardo più a fondo si resta atterriti quando ci si accorge che il sé non è appunto immortale come la 'sostanza degli dèi'. Il culto gnostico della conoscenza dice soltanto la prima parte, contempla la superficie divina degli umani. Incarnare tale superficie divina, tale forma divina: questo è il problema del cristianesimo.

In un altro punto del racconto il tempo, più simile all’eterno, sembra rimandare a un continuo che allontanerebbe la morte. La personificazione della Grande Avversaria riesce a infilarsi soltanto nelle fessure temporali, soltanto dove viene meno la continuità. Alla radice della consacrazione del mondo c’è il tentativo di garantirne il continuum. E il brusio che avvolge la liturgia dei misteri dimostrerebbe la preferenza per l’indistinto.

«Ciò che l’uomo vuole imitare è soprattutto il processo con cui si conquista la divinità. Ed è altamente significativo, che per farlo in modo efficace, l’uomo voglia imitare la ‘forma’ dei gesti compiuti dagli dèi. Questo diventerà, un giorno, il fondamento di quell’attività sovrana che è l’arte» (p. 292). In che giorno la liturgia diventò arte? Non è sospetto che sia così a ridosso del tempo in cui i sarti cominciarono a chiamarsi ‘creatori’ e i senza talento ‘creativi’?

Il gesto rituale è sicuramente imitazione dei gesti divini, ripetizione di quanto fece il Dio autore della Genesi.

Vittima e nudità. Meditando su questa relazione non si sfiora soltanto il fondamento di molti nascondimenti viziosi, si scopre la paura che accompagna il nudo vanamente ricoperto di ideologie libertine, o peggio della naïveté salutista, si ritrova l’essenza dell’arte cristiana. L’animale con gli abiti è buffo, l’essere umano senza vesti è drammatico. Eloquente quella nudità che segna la vittima. Casomai c’è da interrogarsi sui nudi spesso rassicuranti e possenti, che non pare tradiscano riferimenti alla vittima, della pittura rinascimentale.

Ritorna regolarmente in vari passi, pur senza dare troppo nell’occhio, la questione dell’arte, come se questo volume ricorresse al pretesto vedico per affrontare l’immane svolta nella storia umana dell’art pour l’art. Basterebbe ricordare subito che questo salto metafisico ha poi prodotto, nella purezza estetica abbacinante, una paradossale non-arte, resti desolanti di un sacrificio.

La Bibbia si interpone spesso nella ricostruzione del sapere Veda che l’autore mette a fondamento del nostro mondo. «Noè aveva celebrato un olocausto, dove l’animale veniva totalmente bruciato. Più che perdere la vita, scompariva dalla scena terrestre» (p. 328). Sarà per questa ansia di sparire definitivamente, poco sperando nella resurrezione della carne, che in Occidente avanza la pratica di incenerire i cadaveri. Quanto alla parola religiosa scelta per indicare una carneficina laica, non si può non concordare con quanto è scritto nel capitolo finale sull’inquietante tempo attuale: «…quell’impresa nella quale gli Ebrei erano stati le vittime, veniva designata con il termine [olocausto] che gli Ebrei stessi, in quanto officianti, avevano usato per certe cerimonie gradite a Jahvè. L’immensità di quel malinteso fu il segno che la storia era entrata in una fase dove la commistione e l’equivocazione fra l’arcaico e l’attuale si sarebbero spinte molto lontane, più che mai prima» (p. 437). (In questo «Almanacco» non troverete una sola volta riportata la parola biblica per raffigurare uno sterminio moderno e confondere così le cose.)

I riti cosiddetti laici sono il succedaneo di quelli religiosi. I sacrifici per la patria, per le ideologie rivoluzionarie e reazionarie, per la scienza e il progresso prendono il posto di quelli offerti agli dèi. Manca perciò il patto con la divinità, il fumo sale verso un cielo vuoto. Milite ignoto e dio ignoto.

Se il divino «fosse esistente» – si chiede con tono burocratico il resocontista che pur ha trascorso la vita nei pressi del regno sovrumano, a seguirne tracce ed epifanie – come si spiegherebbe la sua accettazione di continui atti cruenti? Girard obietterebbe che soltanto la Bibbia offre una risposta, che lì è scritto che Dio non gradisce quell’ardore che arrostisce talvolta gli umani, che un angelo discese dal cielo per fermare con enfasi l’azione di Abramo. Ma Girard in questo libro è dannato tra coloro che mostrano la «baldanza del demistificatore», frutto della laicizzazione occidentale. La teoria della violenza diffusa che si scatena sul capro espiatorio, l’innocenza della vittima nascosta dai miti e dagli dèi, sarebbe un rifiuto della metafisica, la conseguenza della società secolarizzata. Eppure lo scandalo biblico tra tutte le religioni, già rilevato da Nietzsche, non è confinabile negli ultimi tempi, attraversa i secoli, muove guerra agli dèi e ai miti da millenni. È il partito della vittima ben prima di Girard. Prova a rovesciare la tesi dei Brahmana per cui «il mondo si fonda sul sacrificio che si compie quando il sovrappiù di energie disponibili viene bruciato» (p. 434). L’entropia come metafisica?

Léon Bloy proponeva altre soluzioni del mistero della sostituzione o, meglio, lo inseriva in un diverso contesto. Il romanziere francese scorgeva spesso nei necrologi e nel giro delle amicizie parigine delle figure di mediatori, di intercessori, che offrivano la loro vita affinché qualcun altro restasse ancora su questa terra a redimersi. Ma in tale fede nella sostituzione lo scrittore cattolico seguiva l’insegnamento della Chiesa per cui ogni fedele che sale al cielo diviene avvocato per coloro che stanno quaggiù, e soprattutto i meriti dei singoli sono patrimonio della Chiesa tutta, dei morti e dei vivi, che essa ridistribuisce secondo i bisogni. Per Bloy dunque non solo il sacrificio della vita permetteva altre vite, ma tutti i piccoli sacrifici quotidiani salvavano anime distanti e magari future. Nella modernità sconsacrata, la superstizione immagina gli umani alla mercé di un Moloch ingordo che bisogna placare con vite umane. Si deve mantenere un equilibrio tra i due mondi come ci fosse un malthusianesimo metafisico (gli antropologi dei prossimi millenni interpreteranno in tal senso le montagne di feti abortiti?).

Beninteso, solo nell’accezione redistributiva di Bloy, all’interno di un’unica Chiesa che abbraccia la terra e l’aldilà, la teoria della compensazione universale sfugge alla magia. Nei Vangeli, Gesù ammonisce a non stabilire un rapporto di causa effetto tra le colpe e i mali fisici, tra le colpe e la morte (ed evidentemente anche tra i meriti e la salute): «In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei per avere subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertirete perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertirete perirete tutti allo stesso modo”» (Lc, 13, 1-5) Il medesimo insegnamento si ricava da Gv 9,3. Inoltre, simili testimonianze evangeliche sembrano dissolvere il metodo calvinista di ricavare i segni della benevolenza divina dal buon raccolto ottenuto nella vita. Prima dei Vangeli, il grido di Giobbe esprime lo sdegno per la vita beata concessa su questa terra ai malvagi e le sofferenze imposte a non pochi giusti: non c’è alcun rapporto tra virtù e vantaggio mondano, alcun legame magico.

Perfino l’Islam, che talvolta assume ancora maschere sanguinarie, nasconde sul modello kosher il sangue dell’animale macellato. Incruento appare il mondo post-cristiano che ha bandito il sacrificio pur moltiplicando le vittime. Il Glossatore di riti e miti Veda, arrivato alle ultime pagine del libro, non può non denunciare l’occultamento del supremo sacrificio: «Venne il momento in cui Lutero non riuscì a contenersi e, con la sua connaturale veemenza, dichiarò che intendere la messa come sacrificio era “l’abuso più empio (impiissimus ille abusus)” e ogni insegnamento in tal senso produceva “mostri di empietà (monstra impietatis). Quel momento segnò lo spartiacque, nella storia occidentale del sacrificio. […] Ma altrettanto inflessibile fu la Chiesa romana. Qui non si trattava di deprecare o rivendicare le indulgenze, questione riconducibile a vizi umani, troppo umani. Qui era in gioco l’intera liturgia, quindi l’intelaiatura stessa della vita religiosa. Così, quarantadue anni dopo che Lutero aveva pronunciato le sue terribili parole, il giorno 17 settembre 1562 il Concilio di Trento promulgò nove canoni, il primo dei quali così suonava: “Anatematizando chi dirà che nella messa non si offerisca vero e proprio sacrificio a Dio”, mentre il terzo condannava con puntigliosa fermezza “chi dirà che la messa sia sacrificio di sola lode o ringraziamento o nuda commemorazione del sacrificio della croce, e non propiziatorio, overo giovi solo a chi lo riceve e non si debbe offerire per li vivi, per i morti, per li peccati, pene, satisfazzioni et altri bisogni”. Non era dunque soltanto la negazione del sacrificio a essere rigettata ma anche quella forma di eufemizzazione che consisteva nel trasformare la messa nella commemorazione di un sacrificio. Perché commemorare non è compiere, non appartiene più all’ambito dei gesti che agiscono. Qui riaffiorava, dopo tante dispute vane, l’arcana e arcaica sapienza della Chiesa romana, la sua capacità di riconoscere dove era in gioco un fondamento della sua stessa esistenza» (pp. 446-447). Tocca a un letterato sedotto dai gesti essenziali ricordare quello che i vescovi hanno dimenticato; e citare Stefan Orth che ha concluso una sua recente indagine con queste parole: «molti cattolici sono [ormai] d’accordo con il verdetto e le conclusioni del riformatore Martin Lutero, secondo il quale parlare di sacrificio della messa sarebbe “il più grande e tremendo orrore” e una “maledetta idolatria”». L’allora cardinale Joseph Ratzinger riportava la medesima citazione di Stefan Orth e avvertiva: «non ho certo bisogno di aggiungere che io non appartengo a questi “molti cattolici”» che concordano con Lutero nel rifiuto del sacrificio. Il relatore di riti vedici chiosa a sua volta il teologo Orth: è «come se la pressione del mondo obbligasse la Chiesa a ritirarsi anche da questa dottrina. Senza la quale però l’intero edificio di San Pietro non potrebbe che cedere» (p. 448). Si dà però il caso che adesso anche il papa regnante la pensi così. E a differenza di quanto viene detto nelle pagine successive dell’Ardore, il sacrificio testimoniato dal Vangelo non è relegabile a una «condanna a morte ribadita da un plebiscito». Dopo avere esteso all’estremo i confini della forma sacrificale, la si vuol negare proprio a quella morte in cui la vittima agonizzante parla, ribadisce la sua innocenza in nome di Dio e si offre al Padre per l’intera umanità?

martedì 4 gennaio 2011

Quartetto Bloy

~ GENIALI FIGURE DEL NOVECENTO IN AMMIRAZIONE
DAVANTI ALL’APOCALITTICO SCRITTORE CATTOLICO ~

Quattro figure straordinarie del secolo scorso: Franz Kafka, Walter Benjamin, Carl Schmitt, Ernst Jünger. Qualche legame c’era tra loro: la venerazione di Benjamin per Schmitt, testimoniatagli in una lettera poi censurata da Adorno e Scholem (l’interesse per Kafka e la sua singolarissima interpretazione son cose troppo note per dirne ancora); la lode del praghese da parte di Jünger, magari accennata in una nota dei suoi diari scritti mentre occupava Parigi con la divisa della Wehrmacht e l’animo del complottatore; l’amicizia, con piccole incrinature nel dopoguerra, tra Jünger e Schmitt; il giudizio netto del giurista tedesco sul Processo di Kafka: «uno dei romanzi più geniali che esistano dell’intera storia». Ma quel che contraddistingue questo dissonante quartetto è il nome dello scrittore cattolico apocalittico Léon Bloy.

Due ebrei e due cattolici (Jünger si convertì alla religione romana negli ultimi anni della sua vita ultracentenaria) uniti dall’autore della Salvezza attraverso gli ebrei.

Benjamin rendeva omaggio all’Exégèse des lieux communs parlando di «un’opera grandiosa». In quel libro, lo scrittore furiosamente antimodernista aveva completato lo stupidario di Flaubert, il Dizionario delle idee ricevute che metteva in ordine alfabetico la bêtise. Ma Bloy mirava al cuore della sciocchezza borghese, progressista, positivista e anticristiana, la combatteva in modo militante e feroce. E lo studioso che amava perdersi nella Parigi capitale del XIX secolo, ammaliato dai fantasmi delle sue merci, fu scosso da questo scrittore che agitava i pugni.

Sembra sia stato Schmitt a iniziare Jünger al culto di Bloy. Padroneggiava il francese, per via di parentele materne che risalivano all’Alsazia, e deve avere scoperto anzitutto la potenza linguistica del violento cristiano ottocentesco. Poi si sarà accorto rapidamente dello sguardo apocalittico con cui Bloy leggeva la storia, soprattutto quella dei secoli moderni. E simili discorsi sulla fine del tempo mostravano misteriose consonanze con la sua meditazione sul «katechon» – la forza frenante di fronte all’apparizione dell’Anticristo – nascosto nei veli della storia, meditazione che si misurava temerariamente con san Paolo quando, nella seconda Lettera ai tessalonicesi, accennava a una tale potenza senza fornire troppe spiegazioni. Il filosofo della politica provava a sciogliere l’enigma teologico-politico: era lo Stato, l’Impero romano e i suoi eredi che trattenevano la dissoluzione del mondo, l’ora apocalittica. Bloy l’invocava invece, forse gli sembrava che non ci fosse più alcun ordine politico in grado di fermare la fine del mondo, sentiva in ogni caso che gli ultimi giorni, quelli moderni, sono il tempo dell’agonia di questo mondo, il più terribile di tutti, che nessuna medicina e medico politico può lenire. Forse la faccenda era più complicata di una semplice contrapposizione, fatto sta che più volte il giurista ricorse alle parole del romanziere francese e stabilì con lui, anche nella cella della prigionia, un dialogo serrato.

A Parigi, Jünger scrisse numerosi volumi di diari, proprio sul modello di Bloy. Lo citava spessissimo, tornava più volte su quei «geroglifici», come li chiamava, che «soltanto oggi» hanno dei «lettori maturi». Le circostanze che maturavano il lettore erano dettate dalla seconda guerra mondiale, dalle sue stragi, dalla sua violenza pre-apocalittica. Jünger costellava i diari del periodo bellico con le citazioni della Bibbia - che rilesse integralmente nei giorni dell’occupazione - e con le citazioni di Bloy. Lo collocava tra i «sismografi» della discesa nel maelström, tra Nietzsche e Dostoevskij, rendeva omaggio al realismo cattolico che rappresentava «l’essere umano nella sua infamia come nella sua gloria».

A colloquio con il giovane Gustav Janouch, Kafka colse la particolare grandezza di Bloy, parlandone con la solita semplicità: «Da un libraio antiquario trovai la redazione ceca del libro Il sangue del povero di Léon Bloy, Kafka apprese la notizia di quella scoperta con molto interessamento e disse: “Di Léon Bloy conosco un libro contro l’antisemitismo: Le salut par les Juifs. Qui un cristiano prende le difese degli ebrei come fossero parenti poveri. È un libro molto interessante. E poi… Bloy sa imprecare, cosa del tutto insolita. Bloy ha un fuoco che rammenta l’ardore dei profeti. Ma che dico: Bloy impreca molto meglio. E si spiega, perché il suo fuoco è alimentato da tutto il letame dell’epoca moderna”» (Colloqui con Kafka). Così quando la spazzatura moderna raggiunse altezze vertiginose, come nel nostro tempo post, e la confusione nichilista pervase ogni cosa, perfino La salvezza attraverso gli ebrei apparve un testo antisemita.

sabato 1 gennaio 2011

L'anno della semplicità

~ UN AUGURIO CON IL PICTOR OPTIMUS ~

Nella vetrina di un rigattiere, resa più accattivante per le feste, fa bella mostra di sé la copertina di una rivista, «Il Tempo» settimanale, di un’annata dei Cinquanta, non si legge bene la data, ma si legge benissimo, perché a caratteri cubitali, una scritta che annuncia: «I Promessi Sposi illustrati da De Chirico». I personaggi del romanzo più popolare della letteratura italiana effigiati dal sommo pittore del Novecento sulle pagine di un magazine. Colui che fece muovere le avanguardie con la forza dei suoi quadri (il surrealismo, per esempio) e che sconfisse le avanguardie con il ritorno alla pittura tradizionale, a Rubens addirittura, possedeva poi l’umiltà d’essere illustratore e la grandezza d’essere riconosciuto e amato anche dal pubblico popolare. Come Picasso, d’altronde. Un installatore non saprà commentare una pagina letteraria perché non ha la disposizione al disegno e alla pittura, forse neppure alla lettura intelligente. I minus habentes del «concettuale» confondono il difficile con il latinorum per far colpo sui parenti contadini. Manca a tutti loro la grazia di Giorgio de Chirico che illustrava pure i manuali non solo Manzoni, o quella di Raffaello che dipingeva gli stendardi per le processioni. La storia dell’arte (ma anche della musica) è piena di geni che si prodigarono per tradurre ai sensi dei fedeli i misteri del cristianesimo. Senza l’ossessione da parvenu della originalità, semplicemente con il talento dell’artista, cioè di chi ha la mano adatta per fare le figure. Che il 2011 cominci a liberarci dalla prosopopea dei boriosi trafficanti della cultura contemporanea. Un anno della semplicità, che rilucerebbe in un’epoca di sempliciotti.