domenica 31 maggio 2009

minima / Ecco, s’avanza uno strano zuavo…
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I giornali di sinistra, «Repubblica» in testa, riportano oggi con grande enfasi, almeno nella versione online, le parole del papa. Che nel giorno della Pentecoste ha condannato le «immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna». Chissà se aveva in mente la Biennale che si apre nei prossimi giorni con le sue icone del nichilismo, o i magazines che le fanno eco, o i musei contemporanei, insomma l’immaginario esaltato quotidianamente da questi giornali. Ci si sarebbe aspettati una immediata controffensiva verso un professore tedesco tanto retrivo, magari con il concorso di qualche lazzo dei comici di turno. Invece stavolta, pur di asservire le parole ratzingeriane alla loro campagna politica in difesa dei «valori», che adesso sembrano oltremodo trendy in quegli ambienti, i laici relativisti si sono fatti zuavi pontifici. Anche qualche giorno fa, gli zuavi erano partiti all’attacco delle misure governative sull’immigrazione in nome della Chiesa, equivocando magari le dichiarazioni discutibilissime di un vescovo con il magistero di Roma. Le battaglie sguaiate, il condom negli stendardi al vento, contro Benedetto XVI che difendeva l’Africa da quella caricaturale identità fornitale dai cinici eurocrati sono ormai lontane. Adesso torna comodo un papa ridotto ad agitprop di questioni vernacolari. Strumentalizzazione che ricorda quando, mezzo secolo fa, la stampa al servizio dei sovietici commentava angelica l’udienza concessa dal papa al genero di Chruščёv, confondendo a bella posta l’attività politica della Santa Sede e il messaggio evangelico. Come sovrano di uno Stato, Gregorio XVI incontrava a Roma lo zar che perseguitava i cattolici polacchi, e Giovanni XXIII dialogava con il successore di Stalin che massacrava i cristiani d’ogni confessione. Storicamente discutibili, non tutti eroici come Pacelli che disse ai potenti dell’epoca cose che nessun altro osò dire nel mondo, non è tuttavia questo il compito del vicario di Cristo. Dal momento che la sua Chiesa non è «una sorta di agenzia umanitaria», come giustappunto ha ricordato il papa oggi in un altro passaggio della sua omelia. I discorsi di circostanza possono pure piacere ai media, quasi fossero quelli del segretario dell’Onu, e si prestano a essere sfruttati giocando sull’allusività. È quando parla ex cathedra che il sommo pontefice romano enuncia le verità più scomode al mondo che non vuole sentire. Quando ripete che non può piegarsi alle soluzioni facili del moderno, indicandone anzi le vittime innocenti. Quel non possumus è il prezzo che la Chiesa paga per la sua resistenza all’idolatria del desiderio. Appena lo sentono, gli zuavi della Gauche passano subito dall’altra parte, sparando sull’Inattuale.

martedì 26 maggio 2009

Un tranquillo maggio parigino

SGUARDI ROMANI SULLA CAPITALE FRANCESE NEL TERZO MILLENNIO, TRA ANIMAZIONE LITURGICA E MUSEALE, REPERTI DELL’OTTOCENTO, ARCHEOLOGIA DEL NOVECENTO E IL SEMPITERNO GOTICO
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Committenza regale - La nostalgia della Francia repubblicana per la monarchia è strabiliante, sancita di fatto nella Costituzione del Generale Liberatore. Comprova ancora una volta le tesi di Carl Schmitt secondo il quale le varie forme politiche sono sempre secolarizzazione dei princìpi religiosi, e se la monarchia discende dal monoteismo, in certi casi una repubblica che si vuole salda tenderà, per non finire in preda al politeismo anarchico, a secolarizzare la funzione del re. L’attuale sovrano, che può vantare al contempo origini aristocratiche ungheresi ed ebraiche sefardite, per non essere da meno dei suoi predecessori, sembra stia pensando di lasciare un proprio segno a Parigi. Lui stesso ne traccerebbe i progetti, come un principe di altri tempi. Il quartiere scelto per questi interventi di arte monumentale e cortigiana (che non è affatto detto sia peggiore di quella nata dal capriccio d’autore) dovrebbe essere il Trocadéro. Invecchiato precocemente come tutti i luoghi moderni, potrebbe essere trasformato in un ennesimo quartiere di musei. La cultura parigina di oggi rifugge gli sradicamenti, si orienta verso la restaurazione. Il presidente pensa al suo lascito puntando al lustro culturale, che è tutto quel che resta dell’antico Regno di Francia. A Roma i politici lasciano le loro facce effimere in poster grossolani affissi senza misericordia sui muri della città, nessun altro dono.
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Animazione museale - Troppi musei però fanno male. Hermann Broch ci aveva messo in guardia: «Assolvendo i suoi doveri nei confronti della tradizione Vienna scambiò per cultura la passione per i musei e divenne essa stessa […] un museo. […] La musealità era dunque riservata solo a Vienna; come segno di declino, come segno del declino dell’Austria. La decadenza verso la miseria porta alla degradazione nella vita puramente vegetativa, ma la decadenza verso la ricchezza porta al museo. La ‘musealità’ è appunto un vegetare nella ricchezza, un vegetare nella serenità. E l’Austria allora era un paese ricco…». Parigi rischia di diventare un museo, con lo strascico di estetismi che hanno costantemente bisogno di lievito per non afflosciarsi, scialbi. Ecco dunque al Petit Palais, in una mostra onesta su William Blake, ragazze con tuniche bianche e cappelli frigi aggirarsi tra il pubblico per leggere, in francese, i testi del mistico britannico, per fare un teatrino parrocchiale tra le incisioni apocalittiche. Le mostre sono spesso difficili, gli artisti esposti poco celebri o comunque senza appeal per le masse, allora si ricorre al modo televisivo di divulgare, allo spettacolo che deve sciogliere i crampi della cultura. Soltanto che l’odiata televisione risulta sempre più suadente degli improvvisati intrattenimenti di mostre, musei, premi letterari. Il cabaret dei professori può facilmente somigliare all’Unrat dell’Angelo azzurro, severo nei princìpi e patetico nel chicchirichì.
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Animazione liturgica - Nella chiesa di Saint Marri, alle spalle del Beaubourg, alle sei di sera di un dì di festa, un gruppo è seduto intorno al tavolinetto da bar che sostituisce l’altare maggiore. Cuscini e candeline fuor dalle regole anche per la disinvolta Chiesa gallica, una specie di party mogio. Nel programma affisso sulla porta del tempio, la funzione che sta per cominciare è indicata come «animazione liturgica». Dopo aver visto quella fastidiosissima del Petit Palais si è pronti a tutto, ma ci si chiede ugualmente perché mai la liturgia abbia bisogno di animatori piuttosto che di sacerdoti, predicatori e officianti, di fedeli oranti e meditanti. Un giovanotto pallido va al microfono e annuncia che questa è una liturgia di omosessuali cristiani. Santificherà il tempo alla maniera di quella delle Ore? Come il vizio possa conformare una comunità di preghiera è davvero un mistero. Naturalmente non vale solo per gli omosessuali, sarebbe altrettanto insensato per i peccatori della carne eterosessuali che si riunissero in quanto peccatori della carne o di seguaci del peccato di gola. Basterebbe recitare il vecchio Confiteor per dire della miseria creaturale: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Non mancano invece in questa chiesa riti per immigrati, disoccupati e altre vittime di questioni sociali. Un tempo si ricorreva alle Rogazioni e alle Litanie per tenere lontano i malanni di questo mondo, peste o carestia, temporali o siccità: «A peste, fame et bello - Libera nos Domine». La questione di fondo del cattolicesimo essendo la vita eterna. Nelle chiese parigine, comunque, successe anche di molto peggio nei secoli scorsi. La parrocchia di Saint Eustache, per esempio, fu trasformato dai rivoluzionari in tempio dell’Agricoltura, Notre-Dame in quello della Ragione. Neppure la stupidità umana può essere valutata con il metro progressista: talvolta in passato si sono commesse atrocità più inique.
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Esotismi monastici - A Saint Gervais e Saint Protais, a pochi passi dall’Hôtel de Ville, una chiesa che con la sua facciata seicentesca sovrapposta a un edificio goticheggiante, svela l’anima di Parigi, eternamente medioevale nonostante le mode susseguitesi nella storia, all’ora di pranzo di un giorno feriale, si può assistere a una ‘liturgia monastica’ ben cantata e devota, con tanto di prostrazione, con i corpi cioè distesi davanti all’altare, sia pure con la piccola eccentricità della presenza fianco a fianco di monaci e monache, un tempo divisi dalle rispettive clausure, che cantano insieme. Tace l’antico organo dove si alternò la dinastia dei Couperin, organo affiancato da una copia della Morte della Vergine di Caravaggio, la spiritualità trionfante attualmente pretende canto senza accompagnamento strumentale e icone sull’altare, prestiti del cristianesimo bizantino. Si cercano anche in questo campo modelli esotici, si prova quasi vergogna per gli antichi riti, ormai difficilissimi da trovare, del cattolicesimo romano.
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Nella chiesa manzoniana - A Saint Roch, dove Alessandro Manzoni si sarebbe convertito dall’illuminismo familiare al cattolicesimo – complice forse il nimbo barocco che sovrasta il pulpito, con un angelo e per di più dorato che esce da un tendaggio marmoreo come fa lo scheletro berniniano nella tomba papale, e che si libera il braccio non per agitare la clessidra, come nella statua romana, ad annunciare che l’ora del singolo è suonata, bensì per dar fiato alla squillante tromba apocalittica che abolisce il tempo – ebbene in questa chiesa si è ora colpiti da una vastissima predella in legno con su un cubo egualmente ligneo, autentico contraltare, senza neanche una tovaglia, né un cero, men che mai una croce, insomma un palcoscenico modernista di marca protestante, un vuoto leggermente angosciante, con le sedie intorno in forma assembleare. Chissà se Henriette Blondel, la moglie calvinista di don Lisander, davanti a questo altare si sarebbe convertita? Probabilmente si sarebbe convinta nel luogo comune, opportunamente arredato, che tutte le religioni sono uguali.
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Una messa in latino - A Saint Germain l’Auxerrois, la parrocchia dei re di Francia che si apre nella piazza del Louvre, di fronte al brutto palazzo di chi, per miopia e per sciovinismo, respinse l’eccelso progetto di Gian Lorenzo Bernini, salito fin quassù per illuminare anche Parigi dell’arte romana (così come respinse quello pure incantevole del rivale, Pietro da Cortona), si resta sorpresi leggendo gli orari delle messe, quando accanto a quelle vespertine vi si trova tra parentesi la scritta: San Pio V. Sì, ogni sera, nell’immensa Saint Germain, gotica soprattutto per i restauri di Viollet-le-Duc, si celebra una messa in latino, secondo il rito tridentino, quello promulgato appunto dall’austero papa Ghislieri. Proprio a Parigi, nell’anno turbinoso, si arrivò a inventare riti – se ne dava conto in un numero di «Christianisme social» (Paris, 1968, nn. 7-10) – con un messale senza tradizione, la liturgia della parola incentrata sulla politica, i con-celebranti cattolici e protestanti, la predica di Paul Ricoeur, le musiche di Xenakis. Eppure non sembrava esserci intento provocatorio, quanto il tentativo di dare corpo alla sensazione di vivere un’ora ‘profetica’; gli ‘eventi del maggio’, i miti della primavera, i Calendimaggio d’ogni folklore parevano annunciare come una ricomparsa del sacro nel nuovo mondo della tecnocrazia in via di affermazione a quell’epoca. Candore e furore. Gli studenti si prodigavano in riti vudù – diceva Edgar Morin – per risvegliare gli spiriti della rivoluzione. Oggi torna sommessa la tradizione liturgica, quella millenaria. Nella chiesa dove Lacordaire tentò di rilanciare l’arte sacra.
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Fermo-immagine con Bloy - Un sabato mattina, prima comunione nella chiesa di Saint Paul al Marais, dal pulpito della quale predicava Bossuet, un fermo-immagine anni Cinquanta: famiglie numerose e all’apparenza liete, donne con la gonna ed eleganti. Il pane e il vino eucaristici possono avere una risonanza unica nel paese che celebra a tutte le ore il pane e il vino terreni. Ne era convinto Léon Bloy che trovava in questi beni tipicamente francesi l’essenza della cattolicità della ‘Figlia prediletta della Chiesa di Roma’, e che imprecava contro i luterani danesi che non mangiavano pane e non bevevano vino.
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Kandinskij - Folle che ruminano delle interpretazioni, alla imponente mostra di Kandinskij nel Centre Pompidou, quadri come fossero Macchie di Rorschasch, che del resto anticiparono le invenzioni del russo, solo che all’ambiguità dello stimolo – cui le risposte non saranno mai giuste o sbagliate – l’inventore non pensò certo di attribuire l’altisonante definizione di arte. Che dire di questo test di massa, secondo le indicazioni dello psichiatra svizzero, dove però nel reattivo ci sono le influenze delle guide e delle maestre che conducono i poveri bambini delle elementari, piccoli francesi costretti a recitare parti di biografie della star astrattista davanti a ciascun quadro, per poi ascoltare le parole dell’insegnante che invita la classe a riconoscere in quella espressione pittorica la malinconia dell’autore, subito seguita da un’altra maestra con un’altra classe, che davanti al medesimo quadro esorta gli scolari a scovare nella tela l’«evidente euforia allegra» del pittore. Proprio come nelle tante barzellette che accompagnarono l’avvento dell’astrattismo, quando ancora i tabù non erano ferrei e si poteva ridere degli allestitori di mostre che non sapevano quale fosse l’alto e il basso dei quadri da appendere. I bimbi comunque sembrano ascoltare di malavoglia le chiacchiere sulla meteorologia umorale del signor Kandinskij. Resta il fatto che a furia di sentire celebrare la grandezza di tali oggetti, mai ottenendo una esauriente spiegazione su che cosa consista, sempre risuonando nelle orecchie la descrizione con aggettivi altisonanti dello stato di quiete o di tensione presente nel quadro, gli scolaretti una volta adulti manterranno un rispetto per il tabù, senza magari osare farsi una domanda su quella specie di sacro, incongruo in un’epoca assai laica, imposto dai musei e da tanti libri fin dalla loro infanzia.
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È possibile vedere l’invisibile? - L’eresiarca artistico era convinto, sulla scorta di Gioachino da Fiore, di essere uscito dall’epoca del Regno di Cristo e di essere entrato in quello dello Spirito. D’altronde nell’evo dell’Incarnazione sarebbe inconcepibile un’arte dell’astrattismo. A Kandinskij, per letture e meditazioni di gnosi corriva, di teosofia salottiera, la figura sembrava inadeguata a rappresentare l’assoluto, e con un paradossale salto mortale mostrava di credere che il piccolo cancan di colori e arabeschi fosse più adatto a esprimere il divino. Così, quel Vuoto che è uno dei temi principali, anzi il primo che li riassume tutti, della ricerca estetica dell’ultimo secolo, anche qui fa la sua sinistra comparsa. Una pittura senza oggetto e con una varietà di accordi cromatici è subito sconcertante. La gente si accalca per guardare dei rettangoli colorati, ci si può chiedere se riesca il tentativo di far vedere l’invisibile. Alain Besançon, nella sua Image interdite, la straordinaria storia dell’iconoclastia che serpeggia dai greci ai giorni nostri negli snodi dell’Occidente, è convinto di no: una illusione, casomai un visibile confuso e velato come in certi sogni. Né sembra riuscito il rivolgimento di Kandinskij nella storia dell’arte successiva. A guardarsi intorno, infatti, la tela ha perso il suo oggetto ma, strada facendo, oggetti d’ogni genere sono riapparsi mostrandosi tali e quali nella loro flagranza, senza alcun cenno di quella trasfigurazione che il teorico del Blaue Reiter pretendeva ottenere, anzi, senza più la tela, senza rappresentazione, nella loro brutalità, nel carattere spettrale proprio delle merci. Ma questo è un altro discorso, che poco ha a che fare con i francesi. A Parigi, infatti, anche nella mostra di questi giorni, ci tengono a ricordare come Kandinskij appartenga alla cultura tedesca, sia membro onorario di quei circoli teutonici che antepongono i discorsi filosofici alle immagini, precisando sempre che si era affermato a Monaco e nelle officine del Bauhaus, che ne è un po’ il risultato, il frutto o l’emblema di un’organizzazione che voleva distruggere l’architettura e le altre arti belle per trasformarle in funzioni del vivere moderno. I curatori hanno così diviso l’esposizione in tappe geografiche, Mosca, Monaco, Dessau, e solo alla fine Parigi, quando il pittore russo approda in un mondo che non si era mai appassionato alle sue ricerche; si dice esplicitamente che Kandinskij è un isolato negli anni Quaranta francesi, mentre Parigi vive i suoi ultimi giorni di capitale delle arti; un anziano signore che abita in un elegante appartamento di Neully sur Seine, ma senza seguito. Si potrebbe aggiungere che un pittore come Kandinskij che non amava dipingere la donna, condividendo con Klee questa avversione estetica per il corpo femminile, non poteva certo essere apprezzato dai francesi. Al punto che nella fase finale della sua opera si riscontra come un cedimento alla cultura delle immagini, una sconfessione dell’astrattismo, una resa al paese che lo ospita con il micro-figurativo degli ultimi quadri. Insomma i curatori del Pompidou sembrano riecheggiare le tesi di Besançon quando nel libro succitato si prodiga nel dimostrare come la Francia rappresenti una barriera solida agli avanguardismi d’ogni sorta di iconoclasma. Non è forse il paese dove Balzac ha scritto Le Chef-d’oeuvre inconnu (v. «Almanacco» del 3 luglio 2008), che affronta la questione dell’assoluto nella rappresentazione, che racconta delle conseguenze della disincarnazione dell’arte, dell’opera che vuole andare oltre i confini della tradizione e perciò conduce l’artista alla follia? Fedeltà alla figura, dunque, con i Matisse e i Picasso in primis, nonostante qualche tortura intellettuale del cubismo e nonostante l’avanguardismo surrealista che partorì immagini diaboliche, ma non fu iconoclasta. Il paese del gaio naturalismo: oggi sembra più che mai vero, in un maggio sereno, con innumerevoli sguardi al passato.
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Una santa liberatrice - L’otto maggio, anniversario della liberazione di Parigi dall’occupazione tedesca, cittadini e autorità portano mazzi di fiori e corone ai piedi di Giovanna d’Arco, la santa giovinetta che svetta nella sua statua dorata in Place des Pyramides. Che succederebbe da noi se per celebrare la liberazione si ringraziasse un santo e lo si omaggiasse?
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Maria Casarès sotto le stelle - In una lapide che ricorda le glorie del piccolo Théatre de l’Oeuvre, si evoca anche il Théatre des Arts e le grandi dive ottocentesche che lì rifulsero. Per ultima, si cita Maria Casarès, e fa un certo effetto leggere tra nomi d’altri tempi quello della attrice galiziana che si vide in gioventù ad Avignone, dove l’aveva condotta per molte edizioni Jean Vilar. Correva l’anno 1968, un altro maggio appena trascorso, molte pietre ancora per le strade, animi in preda alla febbre alta, ma quando si accendevano le luci sulla scena, scena graziata una volta tanto dalle attualizzazioni in voga in quei giorni, scampata alle punizioni degli spettacolini politici di strada, si pregustava sotto le stelle della città papale una seduzione che ancora permane. Anno 1968, considerato dai posteri come il displuvio dell’Ottocento o la soglia del messianico o semplicemente una parodia del Quarantotto nell’epoca della mercificazione della memoria; lo si adatti pure come spartiacque: dieci anni prima, nel 1958, la Francia in preda alle violenze del Nordafrica; vent’anni prima, nel 1948, si consumavano i resti della guerra civile, si tremava per il nuovo che appariva all’orizzonte europeo, aspettandosi gli scarponi sovietici marciare per gli Champs Elysées; trent’anni prima, nel 1938, la grottesca vigilia di guerra, con le sinistre a invocare la pace e un singolare tedesco, socialdemocratico militante, Willi Brandt, che girava per le Feste dell’Humanité – come ricordava nelle sue memorie – ad ammonire inascoltato i francesi che la belva nazi stava per attaccare l’Occidente, che bisognava armarsi, e intanto la povera Simone Weil si baloccava con i soliti rimorsi occidentali (prima di far la guerra al nazional-socialismo, che ha avuto il voto popolare, bisognerebbe far la guerra ai colonialisti, cioè a noi francesi che opprimiamo i popoli giovani…) riscattandosi però con l’arruolamento volontario per guerreggiare finalmente con americani e ‘colonialisti’ senza più indugi, crepandoci in giovane età; quarant’anni prima, nel 1928, una eternità, con Parigi crocevia di tutti i tumultuosi revanchismi per gli esiti della Grande Guerra, mentre nei cenacoli artistici i surrealisti predicavano il delitto gratuito. Al contrario, scendendo verso i nostri giorni la violenza si stempera. Nel 1978, ancora residui della grande animazione, istituzioni che ne riprendevano i linguaggi, mentre imperava la moda strutturalista; 1988, il regno mitterrandiano dell’arte celebrativa, la guerra era finita per sempre, il presidente francese decorava l’occupante Ernst Jünger; 1998, l’implosione della sinistra anche moderata; 2008, ieri o oggi, uomini e donne che hanno vissuto gran parte della loro vita rivanno talvolta con il pensiero a quella loro pittoresca gioventù. Ma senza più un affiche sui muri, né un tract o una scritta, neppure i mercanti di souvenirs, i bouquinistes di tutte le nostalgie, ripropongono quella grafica, preferendo periodi più orecchiabili nella storia parigina. (Nella città eterna generazioni di imbrattatori si danno il cambio per mantenere quel militante attacco al decoro, con murales su palazzi rinascimentali, scritte cubitali alla base di obelischi, per rivendicare perenni insubordinazioni, annunciare nuove performances, con marmi spaccati a colpi d’ascia, bidoni rovesciati, spray su ogni superficie. In questi giorni, Roma sembra avere appena subìto una occupazione di Tupamaros, con i volti dei candidati a Strasburgo arrogantemente incollati sui muri alla maniera dei conquistadores. Anche a Parigi si vota per le elezioni europee, però sono spariti da tempo quegli usi da dopoguerra, spariti gli slogan primitivi: vota questo, vota quello!)
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Librerie - Tra i venti e gli ottanta centesimi di euro si vendono libri usati, romanzi o saggi che costano meno di un giornale. Una notizia più importante di un titolo in classifica.
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Flebile rivoluzione - Tra le tante, scontate, apologie dei conati d’arte di oggi, spuntano sui banconi anche riflessioni critiche introvabili da noi. Ma spesso si tratta solo di allergia agli Stati Uniti. Per esempio, il contemporaneo di marca americana viene irriso da Gérard Durozoi nel suo libro Contre la pauvreté des images. L’intellettuale francese pretende di possedere uno sguardo non corrotto dalla doxa moderna e riferisce aneddoti sui risvolti socio-economici dell’egemonia artistica di New York. Nei retroscena, accenna al ruolo dell’ebreo triestino Leo Castelli, l’uomo che svendette il suo ruolo di borghese mitteleuropeo per fare affari con la pop art, offrendosi come garante culturale europeo ai pubblicitari americani di minestrine che volevano giocare a far gli artisti. Naturalmente, i francesi hanno il dente avvelenato anche perché simili amenità privarono della nomea turistica la loro città e la consegnarono alle metropoli Usa; ben si intende che quella culturale resta splendente, insensibile alle mode. Si scopre così che questo Ducrozoi attacca i pop newyorkesi in nome dell’unica avanguardia, a suo parere, davvero «rivoluzionaria», quella del surrealismo, naturalmente made in France. Flebile però risuona ormai anche qui la parola rivoluzione, denota vecchiume professorale, di chi resta incatenato all’adescamento di Breton.
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Al Louvre - Si ritorna nell’intervallo di qualche anno e vi si trovano sistemazioni diverse, molto diverse nel corso di una vita. Per lunghissimo tempo non fu così, non ci si doveva adattare alla clientela. Piuttosto educarla al gusto. L’interesse ossessivo per la Storia ha indotto i musei ad allestire i loro spazi storici «come francobolli in un album – diceva Bernard Berenson, e lo diceva già più di mezzo secolo fa – o esemplari botanici o zoologici in un museo di storia naturale. Per la superstizione storica furono disfatti quei deliziosi raggruppamenti di soli capolavori, e insieme monumenti di senso estetico, che erano la Tribuna degli Uffizi e (ancora più deplorevole) il Salon Carré al Louvre. In quest’ultimo, appena giovinetto, ricordo che passavo come ape da fiore a fiore, da un van Eych a un Leonardo, da un Leonardo a un Raffaello, da un Raffaello a un Holbein, da un Holbein a un Veronese, da un Veronese a un Velázquez, da un Velázquez a un Poussin, e così via. Oggi! I capolavori sia della Tribuna che del Salon Carré sono stati meticolosamente inseriti nei loro periodi storici, dove sono certo informativi, ma dannati a non agevolare la formazione del gusto, che si sviluppa naturalmente, come i muscoli e il cervello, attraverso l’esercizio e l’esperienza». E che cosa direbbe Berenson di quelle strutture che, per superstizione feticista, isolano la Gioconda leonardesca, come fosse il sancta sanctorum del museo? E per quale motivo, se non il bisogno frustrato di pittura contemporanea, si colloca nella sala accanto alla cosiddetta icona del Louvre un gigantesco d’après, del franco-cinese Yan Pei-Ming, quanto meno assai inadeguato a quel tipo di museo, con il rischio di uscirne ridicolizzato. Per i colori industriali anche Picasso correrebbe il pericolo, in simili ambienti, di produrre dissonanze moleste…
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La felicità in un museo - La disgrazia della nostra epoca è che l’immagine sia riproducibile e sostituibile, dice Jean Clair. Il filosofo martella e indica quel che è bello, non striscia tra i dubbiosi a negare lo splendore. Un Elogio della visibilità scrive perciò quell’anacronistico personaggio. Andrebbe letto prima di visitare un museo, per entusiasmarsi maggiormente del privilegio concessoci tra figure irriproducibili.
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Ladruncoli - Musei mausolei, ripetono pedissequamente, sulla scorta delle avanguardie. Ma Jean Clair li flagella con sarcasmo parlando di quelli contemporanei: piuttosto, musei cenotafi. Manca perfino il cadavere, regna il nulla assoluto. E su questo nulla, magari, gli spiriti belli del Centro Pompidou, ideato per ricordare un politico-letterato assai conservatore, ci fanno pure le mostre, rubando l’idea all’atrobilioso personaggio, come quella dello scorso inverno, «Vides», sugli spazi museali vuoti.
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Il museo alla stazione - Il museo alla stazione Gare d’Orsay è un’invenzione anni Ottanta per accogliere un’arte poco stabile, quell’impressionismo su cui il giovane Luckàcs diceva indignato: «la vita intera si trasformò in una successione ininterrotta di stati d’animo in perenne mutamento […]; cessarono di esistere gli oggetti, ridotti ad occasioni adatte a evocare stati d’animo […]; scomparve dalla vita ogni continuità perché lo stato d’animo non tollera continuità…» (da Cultura estetica). Quale miglior luogo per conservarla, allora? Proust aveva già accostato la stazione ferroviaria al museo, nei due mondi sembrava aggirarsi per gusto feticistico, in ambedue vi scorgeva l’ombra della morte.
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Arte e tempo - Ci si accomoda su lignei divani che erano i sedili della stazione. Manca l’orario: l’arte dovrebbe essere senza tempo. Quadri appesi nei corridoi della Gare, nelle sale d’attesa, secondo il pregiudizio che le immagini siano dappertutto sovrane, in realtà al servizio del Nihilismus che nulla vede. Senza Delectatio morosa, censurata da Tommaso per il suo fascino peccaminoso, studiata insistentemente nei suoi risvolti sull’immaginario da Pierre Klossowski, quando tentava di fare il domenicano nei suoi tre anni di noviziato, abbandonata dai contemporanei.
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Il treno - Qui è evocato ovunque il treno, massimo simbolo del XIX secolo. Jünger ne colse il carattere di macchina speciale dell’epoca, di epitome della modernità industriale: «Ho meditato sulla macchina e su quello che con essa abbiamo smarrito. Considerata come perfezionamento del puro intelletto maschile, essa è da paragonarsi a una belva, la cui ferocia l’uomo non abbia subito riconosciuta; egli l’ha allevata presso di sé, sventatamente, per scoprire poi che essa non si lascia addomesticare. Soprattutto non è uno strumento per privati. Notevole è che essa in un primo tempo sia giunta, come locomotiva, a un buon risultato. La ferrovia statale o parastatale, con regolamento coscienziosamente amministrato, ha procurato in questi cento anni una esistenza sufficientemente discreta a innumerevoli famiglie; il ferroviere è, in generale, un uomo soddisfatto. Gli ingegneri, gli impiegati e gli operai godono in questa cornice i molti vantaggi del soldato e al contrario pochissimi dei suoi svantaggi. Quale benedizione, se si fosse trattato sin da principio nello stesso modo, il regno dei telai automatici, e cioè in un susseguirsi costruttivo, fin dal loro apparire. Veramente, nella ferrovia c’è anche qualcosa di particolare, cioè il suo carattere speciale; il fatto che essa è un impianto diramato e vasto. Così ha la possibilità di associarsi un grande numero di esistenze, che solo per metà sono legate alla tecnica; per l’altra lo sono alla vita organica, come per esempio i casellanti, col loro tenore di vita semplice ma sano» (è un’annotazione nei suoi Diari parigini del 16 ottobre 1943.) Ovvero, Millet e i suoi contadini alla stazione, il treno che unisce la campagna al mondo delle macchine: l’accostamento dell’Orsay avrebbe probabilmente divertito lo scrittore tedesco, allora in veste, forzata, di occupante.
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Il deposito della Belle Époque - La grande volta, la copertura dei binari si riempie di luce o si rabbuia a seconda del sole fuori, come piace al gusto impressionista. Quasi en plein air resterebbero i quadri, benché finiti e incorniciati, in realtà se ne stanno per lo più protetti negli ambulacri della stazione. A un certo punto Manet spunta comunque da un binario, o meglio dove un giorno c’era la strada ferrata; sui binari opposti, gli altri confratelli. Ben gli sta agli impressionisti, buoni amici della folla parigina. Molti di loro, sottratti agli ambienti delicati delle Tuilleries, giardini leggiadri e stanze per principesse, adatte a perdersi nelle Ninfee, sono finiti in questa stazione senza più treni. Non sono da soli, il museo è una specie di deposito dell’intero Ottocento: statue, stucchi, fregi, simboli, orientalismi in tutte le salse, allegorie del Secondo Impero, architetture, plastici di teatri, riproduzioni di scenografie, disegni, lapidi, mobili, ceramiche, argenterie, tappeti, vasellame, posate, lampadari, tanti dettagli in ferro e ghisa. Un omaggio a quel secolo con accumulo di materiali.
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Altri corpi - Certa arte di quel secolo ci appare lontana. Per esempio la scultura: poco consona ai nostri corpi, ai modi di atteggiarsi, alle retoriche del gesto, ecc. Anche i quadri storici sembrano delle tavole preparatorie per il cinema. Non per questo si può ricorrere soltanto alla musica, al conforto, anche popolare, del melodramma o dei romanticismi per pianoforte. Oltre alla grandezza somma della letteratura, ci sono le opere di alcuni pittori, pochi, che qui mostrano i loro capolavori.
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Un giansenista ottocentesco - Degas, chiuso nel suo esprit misantropo e sprezzante, sa stare anche in un luogo pubblico e faticoso come una stazione senza nulla concedere, altri ne sembrano turbati, alcuni addirittura inclinano pericolosamente, per troppa accondiscendenza, all’affiche pubblicitario. Il suo giansenismo ottocentesco fa parlare di sadismo, come nel quadro che qui si nasconde in forme gentili, quasi un larvale Puvis de Chavanne a prima vista: la Scena di guerra nel Medioevo. Ma il termine ‘sadismo’ è fuorviante, meglio ricordare che il pittore deformava i corpi delle sue ballerine, a sentire Huysmans le dipingeva «con orrore» (lo stesso sembra fare Nabokov con Lolita, narrando la degradazione di un uomo per assoggettamento a un esserino mostruoso e ridicolo). Daumier, invece, si assoggetta soltanto al brutto, per mestiere di satira.
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La garza sul mondo - Torna in mente un libro italiano, uscito qualche mese fa, che dedica pagine illuminanti ad alcuni quadri ospitati qui dentro, La folie Baudelaire di Roberto Calasso. Il narratore degli dèi, l’apologeta di Tiepolo si misura stavolta con la pittura più popolare e per non soccombere ai luoghi comuni impressionistici si fa forte di un guida d’eccezione come Baudelaire: con lui entra nell’intrico dell’arte moderna, un fenomeno parigino. I suoi protagonisti hanno tutti un legame con il geniale critico dei Salons, anche quelli postumi: Ingres, Delacroix, Courbet, Degas, Manet, Renoir. Due citazioni potrebbero essere collocate all’ingresso e all’uscita dello spazio dedicato a Degas. La prima riprende un suo verso – talvolta il pittore ne scriveva – per aprire gli occhi su quei piccoli quadri: «Basta che ‘una garza sottile / Senza nascondere i tratti / Veli il ritratto’. È questa la massima approssimazione per definire la pittura di Degas. Chi non coglie in ogni sua immagine la ‘garza sottile’ che avvolge il tutto (cosparsa di quella polvere colorata che i negozianti usano per i fiori colorati), semplicemente non vede Degas. È quella garza che lo distingue dal suo più affine, che è Manet. Ma il segreto non era solo nella ‘garza sottile’, bensì nel fatto che la garza agiva ‘senza nascondere i tratti’. La certezza del tratto per alcuni anni si trovò in Degas più che in ogni altro. Come produttore di linee era l’unico possibile successore di Ingres. Ma per lui il tratto doveva essere velato dall’inavvertibile garza, per sottrarlo a ogni pretesa di letteralità. Velato e insieme netto: così Degas voleva il mondo dipinto». E all’uscita, commiato da Degas e dall’«antica arte della pittura», starebbe bene la seconda citazione: «‘Bisogna scoraggiare le belle arti’: questo celebre mot di Degas fu anche uno dei suoi più meritori e chiaroveggenti. Avvicinandosi la fine del secolo, Degas osservava con sempre maggiore insofferenza l’estetizzazione progressiva del tutto. Sentiva che il mondo stava per cadere in mano di una truppa di decoratori d’interni. In questo identico a Karl Kraus che, pochi anni dopo, avrebbe constatato che il mondo si divideva ormai fra ‘quelli che usano l’urna come vaso da notte e quelli che usano il vaso da notte come urna’. Il punto che lo angustiava era questo: quanto più l’estetico guadagnava in estensione, tanto più perdeva in intensità. Davanti agli occhi di Degas si stava spalancando il secolo successivo. Dove tutto, anche i massacri, sarebbe stato sottoposto all’arbitrio di qualche art director, mentre l’arte – in particolare l’antica arte della pittura, quella che più gli premeva – sarebbe diventata sempre più inconsistente o si sarebbe dissolta».
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Asilo d’infanzia - Anche qui i bambini condotti nel museo, come quelli di Forlì per Canova, sembrano incuriositi soprattutto dalla nudità ostentata. Davanti all’Atelier di Courbet chiedono al maestro perché quella donna se ne stia senza abiti e il maestro risponde con un’altra domanda: come sono abbigliati gli dèi, per esempio Venere? I piccoli rispondono sorridendo: senza abiti. Non è del tutto vero, ma loro sembrano soddisfatti. La maestra di Forlì diceva che erano nudi perché antichi, forse confondendo gli uomini delle caverne con i concittadini di Platone. Ci si accorge di riportare frequentemente le piccole stoltizie còlte al volo: ormai in mezza Europa, davanti ai quadri ci si incontra sempre con maestre e bimbetti delle elementari, non si riesce a star soli per più di due minuti con l’opera d’arte. Interrotti continuamente da queste bambinate, quasi l’arte, innocente e sacra, fosse concepita per l’infanzia. Hans Sedlmayr scrisse parole di fuoco sull’equivoco dell’arte come laboratorio per gli in-fanti.
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La riflessione di Valéry - Nella stazione artistica dove non arriva e non parte più nulla, ferma al XIX che è già molto lontano, mentre perfino il suo successore e antagonista, il vanitoso Novecento è spirato, e con esso il suo spirito; di fronte a questi resti dell’Ottocento, taluni di grande splendore, verrebbe voglia di incontrare i fratelli Goncourt e cogliere magari una battuta che andasse al di là delle loro faccende mondane, rivelando anche un solo dettaglio di quell’ancora enigmatico secolo decimonono che è alle origini dei nostri guai pur mantenendo una patina preziosa, ed ecco che sembra risuonare la voce di Paul Valéry, benché il suo gusto aristocratico poco si accordi con ogni tipo di museo. Ma aveva frequentato in gioventù i migliori studi di artista, conosceva bene quel che era successo alla pittura sulla scena parigina. Valéry con la scusa di Degas, riflette sul moderno. Anzitutto sottrae il pittore delle ballerine all’impressionismo. Ed è un bel gesto, che andrebbe ripetuto per i migliori di loro, che non vanno associati a quei ripetitivi motivi dei paesaggi o degli squarci di città, alla «marea degli attimi», che hanno un’aria di scuola, di movimento, di avanguardia insomma, con le sue regole, i suoi catechismi, le sue complicità. E che non a caso incantano come nessun altro le masse di tutto il pianeta, primi per valore monetario e per indice di gradimento. A differenza quindi di coloro che dipingono quel che vedono, Degas «tentò e osò tentar di combinare l’istantaneità e il lavoro infinito nello studio, di chiuderne l’impressione nell’approfondita indagine, e l’immediato nella persistenza della volontà riflessa». Il poeta distingueva in tal modo lo sforzo eroico di Degas per non essere moderno dal «rilassamento» che segnava la pittura di fine Ottocento e di cui, in questo discorso, indicava le cause: «prima di tutto si è affievolita l’idea di gerarchia tra le opere e i generi, se due prugne d’un piatto valgono una Deposizione dalla Croce e una Battaglia d’Arbelles, e possono valere infinitamente di più …». Seconda causa: «la letteratura è diventata sovrana onnipotente, creatrice o distruggitrice delle reputazioni. Il valore o la stima accordata a un’opera di pittura dipende, per un certo tempo, dal talento dello scrittore che la esalta o la demolisce. Non vi è cosa informe, idiozia colorata, anamorfosi arbitraria che non si possa imporre all’attenzione e persino all’ammirazione per via descrittiva o esplicativa…». La «sventurata pittura» moderna, perciò, si trovò in balia «dei metodi spicci e potenti» della Borsa. A questo punto, «abbiamo contratto la curiosa abitudine di considerare mediocre ogni artista che non cominci con lo scandalizzare […]. Chi non ci urta non ci fa alzare le spalle, è inavvertito: se ne conclude che bisogna scandalizzare e vi ci si consacra. Un buono studio dell’arte moderna dovrebbe mettere in evidenza le soluzioni trovate di cinque in cinque anni al problema dello scandalizzare…». Va detto che negli ultimi tempi gli hanno dato tutti retta, ormai gli storici solo questo fanno: l’arte moderna si spiega con la provocazione. Dai libri alla divulgazione dei giornali, fino alle guide che lo raccontano a voce, è tutta una narrazione epica sull’artista che fa scandalo e sui suoi contemporanei che non lo capiscono e lo deridono, ma sopraggiunge il lieto fine della nostra epoca che si inginocchia di fronte a ogni dissonanza e acclama il genio. Come nelle trame dei film americani sugli artisti ‘difficili’, come nella psicologia degli adolescenti che soffrono d’essere ‘incompresi’ e aspettano il riconoscimento finale. Valéry si lamentava per la fine di quel trentennio (1860-1890) così felice per la pittura come per la poesia francesi, e concludeva: «questo è il punto: la voluttà muore. Non si sa più godere. Siamo ormai all’intensità, all’enormità, alla velocità, alle azioni dirette sui centri nervosi, per la via più breve». (da Degas Danse Dessin).
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Un Ottocento gentile - Uscendo dall’Orsay veniva da ammettere: qui i poeti e gli artisti diedero un tono leggero alla catastrofe della modernità, né si intravidero le scene infernali del proletariato londinese – che scossero Marx e Dostoevskij nei loro soggiorni oltre Manica – né i racconti struggenti che ne offrì Dickens, né lo sposalizio tra industria e natura che dava luogo sull’isola britannica al fitto smog, nebbia che saliva dalla terra e fumi delle ciminiere. Solo l’estremista cattolico Bloy fece rimbombare per Parigi l’orrore della miseria moderna e l’afflizione dei miseri, attendendo l’Apocalisse sui boulevards; altri sperimentarono letterariamente la capacità di riprodurre forti quadri sociali; un gruppo, capeggiato da Jules Vallée, mise al servizio dell’azione politica le sue pagine di romanzo. Soprattutto nelle arti figurative la capacità francese fu quella di prestare tenui colori alla modernità, di nasconderne con gusto squisito il vuoto di fondo, così come l’École de Paris ancora a metà del Novecento illuderà il pubblico mostrando un moderno brioso, frivolo, consonante, variopinto, in affinità con certi film americani del periodo. Dalla musica accattivante di Satie alla ‘doucer de vivre’ accreditata dalle sdolcinate fotografie di autore o allo «splendore del vero», nel cuore del cinema della Nouvelle Vague. Perfino Jünger, concependo un romanzo poliziesco a Parigi (Un incontro pericoloso), assunse pose scherzose. Nelle feste dei sensi, talvolta nelle festicciole, si perdeva facilmente il riflesso metafisico, si scivolava è vero in un materialismo fiorito e gaudente, in questo però ben lontani dagli spiritualismi che si sostituivano con arroganza alla Rivelazione, che proponevano una nuova religione dell’arte. Invero, con la sola eccezione della coppia Rimbaud-Verlaine, gli artisti francesi furono borghesi, non indossarono le tuniche sacralizzanti bensì il cilindro. Restava allora una cattolicità di fondo, un atteggiamento molto positivo verso il creato, verso la natura: il mondo era bello, Parigi ne era la capitale. Nonostante i fermenti ugonotti, la Francia si riconosceva nell’amabilità cattolica, nell’iconofilia di fondo, direbbe Besançon.
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L’Italia immiserita con amore - Una mostra passeggera all’Orsay, «Vedi l’Italia e poi muori», raccoglie insieme a dagherrotipi e archeo-foto dei (bei) luoghi comuni. E solite tiritere risorgimentali sull’oscurantismo della luminosa penisola, sulla miseria del Sud, sull’arretratezza, che poi i viaggiatori andavano a cercare con amore; dimenticando, rassegna e catalogo, artisti grandissimi, musei unici, musicisti che suscitarono l’ammirazione di Stendhal, principi che sorpresero Goethe, papi che dominarono chiunque; ed eruditi signori dell’ozio elegante, maestri di vita. Più tardi semmai, solo mafiosi e anti-mafiosi di professione. In stanze attigue, un’altra piccola mostra dedicata all’Italia: il grand tour degli architetti francesi che venivano a imparare dai nostri palazzi e chiese. Delle mostre sull’Italia resta impresso l’Interno di San Clemente, un quadro di Alma Tadema: solo una navata, con in primo piano i pavimenti cosmateschi riprodotti in modo deliziosamente virtuoso e, nascosta tra le colonne, quasi fuggente, una signora in rosso che sembra una dama giapponese.
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Fotografie - Moltissimi, e non solo qui a Parigi, in ogni città bella d’Europa, e nei borghi ameni, come in mostre e musei, scattano continuamente fotografie, bisogno sintomatico di immagini. Quel che maggiormente spaventa in simile, diffusissimo svago, è che proprio davanti alle immagini più alte della storia umana, non si riesca a far altro che rumoreggiare un clic, sparare un flash criminale su un Leonardo come su un Guercino, intontiti, automatici, senza elaborare alcunché, appena un gesto sempre uguale onde poter poi ri-vedere con colori falsati quel che si aveva il privilegio regale di tenere, nella sua originalità, con la sua aura, davanti agli occhi. Segno dell’incapacità di guardare nonostante i pestiferi addestramenti alla scuola dell’obbligo. Ripetere l’immagine dell’immagine è il solo gioco che conoscono, proprio come si comportano quelli del Contemporaneo: che altro è la retorica della riproducibilità che ci infliggono i commentatori in cataloghi inutili? O forse, come i protagonisti del Contemporaneo, gli anonimi avvertono confusamente un’aura e la trasformano in una venerazione cieca e ottusa, in un culto coatto, confondendo tale aureola celestiale con la fantasmagoria delle merci. Nessun terror sacro, come si richiederebbe davanti a un quadro di Perugino, per esempio la Battaglia d’Amore e Castità del Louvre, piuttosto un imbarazzo da parvenus di fronte alla teofania, impaccio che spinge a ricorrere al totem della macchinetta digitale.
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Una droga elettronica - Qualcosa aveva intravisto e previsto Susan Sontag nei suoi saggi della fotografia On Photography (tradotti in italiano da Einaudi). Per esempio quando diceva: «Gran parte dell'arte moderna si sforza di abbassare la soglia del terribile. [...] Ma la nostra capacità di sopportare il crescente grottesco delle immagini (fisse e in movimento) e delle parole scritte ha un prezzo oneroso. Alla lunga non è una liberazione ma una riduzione dell'io: una pseudofamiliarità con l’orribile rafforza l’alienazione e diminuisce la nostra capacità di reagire ad esso nella realtà. [...] Ma questo atteggiamento che non risulta (principalmente) pietoso è una speciale costruzione etica moderna: non insensibile, e men che meno cinica, semplicemente (o falsamente) ingenua». Oppure, interessante nella capitale del surrealismo: «L’eredità surrealista nella fotografia finì per apparire banale quando il repertorio surrealista di fantasie e di oggetti venne rapidamente assorbito dall’alta moda degli anni trenta, e la fotografia fu soprattutto uno stile manierato di ritrattistica, riconoscibile dall’uso delle medesime convenzioni decorative introdotte dal surrealismo in altre arti...». A proposito dell’assorbimento da parte della moda, l’altro giorno, un negozio di abiti dalle parti di Rue Saint Honoré aveva le vetrine ispirate completamente alle opere di Hans Bellmer sulla poupée e le sue disarticolazioni. E ancora: «Nel passato l’insoddisfazione per la realtà si esprimeva come aspirazione a un altro mondo. Nella società moderna si esprime vigorosamente e ossessivamente come aspirazione a riprodurre questo. Quasi che soltanto guardandola in forma di oggetto – attraverso la droga delle fotografie – la realtà diventi realmente reale, cioè surreale». Del resto, «il surrealismo può […] può fare della storia soltanto un’accumulazione di stranezze, una barzelletta, un viaggio verso la morte». Perché «attraverso la fotografia seguiamo, nella maniera più intima e più conturbante, la realtà di come la gente invecchia. Guardare una vecchia fotografia di se stessi, o di una persona che si conosce o di un personaggio pubblico molto fotografato, significa per prima cosa pensare: quanto più giovane ero (o era) allora. La fotografia è l’inventario della mortalità», ecco allora che «questo legame tra fotografia e morte permea tutti i ritratti fotografici». Ancora di più le ininterrotte immagini digitali. Che non spiegano però il mistero della morte, ne enfatizzano il suo potere come mai nessuna opera barocca, e senza alcun distacco estetico: si vede la morte al lavoro. Se ne resta stregati.
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La capitale della modernità - La modernità della pittura francese, di cui Parigi faceva gran vanto, abitava al Trocadéro, edifici costruiti per l’Expo del ’37, Ballo Excelsior d’Europa mentre già il padiglione sovietico si specchiava in quello tedesco, costruito da Speer. Nei Settanta le opere che avevano scandalizzato e divertito i francesi, certamente meno livide della post-avanguardia nel dopoguerra, furono spostate nella costruzione tubolare del Pompidou. Anche in questo Museo tornano a risuonare le parole di Valéry: «L’arte moderna tende a sfruttare quasi esclusivamente la sensibilità sensoriale», a scapito delle facoltà intellettuali. Ma tanto titillamento della sensiblerie ha le sue conseguenze nefaste. «Tali vantaggi [dei sensi] li paghiamo». Perché la sensibilità si indurisce molto facilmente e chiede allora sempre maggiori stimoli, come nello stato di uno schiavo della droga, che ricorre a dosi sempre più alte. Così perde importanza la durevolezza, che era l’essenza dell’arte. Conclude profeticamente il poeta: «credo che oggi nessuno faccia niente che sia apprezzato tra duecento anni». Il dramma dei musei attuali è che bastano già due decenni per essere inutili, muti.
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Dubbi sul primo Novecento - Basta forse un secolo per apprezzare di meno anche quell’arte della prima metà del Novecento. Quanta convenzionalità, non si dica manierismo, che presuppone costruzioni assai articolate e modelli alti. Questo museo appare come la festa dell’impercettibile. Fautrier e compagni si occupano soltanto dei sensi. Poco più in là un Bonnard con asciugamani, vapori, piastrelle gioca a rimpiattino con il ton sur ton. La vague astrattista cominciò a guerra conclusa: dal 1945 in poi anche la Francia tentò il dissolvimento della figura, ma sembrava interessata piuttosto al ludico come partito preso. La mania astrattista si riduceva a ornamento, talvolta confondibile con cataloghi di stoffe o di mattonelle. In quel tempo nella Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, la direttrice si accaparrava gli Ostaggi di Fautrier, che ora non godono di molto omaggio, ma si mostrava indispettita dai quadri di Giorgio de Chirico, per cui nessun acquisto si fece allora del massimo pittore del Novecento. Celebrava in quel movimento Jean Paulhan che con il suo L’Art informel conquistava molti cuori femminili, evidentemente non solo in patria. I nuovi feticci invece erano commissionati per il culto dell’abbé Bataille. Nel feticismo delle merci attuali li chiamiamo distrattamente installazioni, ma non c’è un Picasso a forgiarle. Per fortuna l’ala del Contemporaneo è chiusa in questi giorni, si evita di attraversare sale riempite di nulla per dirci che l’arte è morta. In genere i funerali sono una cosa composta, spesso solenne ed elegante, non si accompagna il morto con pernacchi e provocazioni. Ma poi, ci si chiede con autentica curiosità: se l’arte finisse davvero, che farebbero fare le maestre ai loro piccini, dove mai li porterebbero ad annoiarsi?

lunedì 18 maggio 2009

minima / Madamina, il Contemporaneo è questo
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Tentato da pericolosi percorsi che poi «ammazzano qualunque Desiderio o Piacere o Godere», Alberto Arbasino sciorinando il ‘Katalogo di Kassel’ (in un articolo così intitolato), a un certo punto scriveva: «Non c’è fondo di provincia, oggi, dove pittori e scultori giovani non mettano stizzosamente da parte ogni attrezzo delle Belle Arti, per dipingere di blu un tavolino di casa, ed esporlo firmato con sopra una verdura, una citazione ideologica, una fotografia della nonna, o magari niente. E si chiacchiera parecchio di ‘eventi’ che sono piuttosto ‘spettacoli’, così diventa inevitabile giudicarli secondo le leggi specifiche della rappresentazione teatrale. Allora si identificano quali gags, trovate visuali equivalenti alla ‘battuta’ non necessariamente comiche, possono essere serissime, il guaio è quando sono gags da aiuto-regista scadente di teatrino off-off. Numerosi ‘progetti’ anche, e venduti come tali: analoghi ai soggetti cinematografici riassunti in poche battute dagli sceneggiatori ad uso del produttore, magari appuntati su un pacchetto di sigarette…».
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La precisione linguistica dell’osservatore più acuto delle italiche faccende, oltreché letterato soavissimo, metteva a posto le cose con buonsenso lombardo, evitando la selva degli pseudoconcetti delle estetiche, le astrattezze cui ricorrono gli imbonitori (sarebbe la migliore epigrafe su quanto l’«Almanacco» va dicendo a proposito di oggetti tanto enfatizzati dalla retorica corrente e che in particolare nello scritto del 2 marzo 2009 provava a smontare). La citazione arbasiniana è venuta fuori in una raccolta di resoconti di viaggi, Il meraviglioso, anzi (Garzanti, 1985), ma il reportage si riferisce a una data più lontana, «estate 1972», quando il sistema di «opere e gesti che si vogliono artistici» (ibidem) era ai suoi primi passi. Nel frattempo «pittori e scultori» non più giovani, anzi vecchi e morti, hanno continuato «a mettere stizzosamente da parte ogni attrezzo delle Belle Arti»: il Contemporaneo si traveste infatti noiosamente da Eterno.

sabato 2 maggio 2009

L'eros cattolico di Canova

RIFLESSIONI IN FORMA DI APPUNTI INTORNO ALLA MOSTRA FORLIVESE DEL SOMMO ARTISTA VENETO. LA «CARNE VIVA» SUB SPECIE AETERNITATIS E LA CONSOLAZIONE DELLA BELLEZZA NELLA ATTUALE VALLE DI LACRIME.
Una gazzetta romana non può non spingersi ai confini del territorio pontificio, nelle terre di Romagna appunto, per render testimonianza di una mostra di Antonio Canova, l’ultimo sovrano della Roma capitale delle arti. A Forlì, nel Museo San Domenico, che perennemente ospita una sua Ebe, danzatrice dell’eterno nell’atto di offrire una coppa di liquore salvifico, fino al 21 giugno si mette in mostra «Canova: l’ideale classico tra scultura e pittura», per la cura di Fernando Mazzocca. Sempre un buon pretesto per riflettere sulla bellezza alle soglie della modernità, anche se gran parte delle opere proviene da Roma stessa, da musei italiani noti e dall’Ermitage di San Pietroburgo prodigo, per necessità economiche, di copiosi prestiti a mezzo mondo. Già visto, dunque, ma fa piacere rivedere, benché fuori dalle rotte abituali.
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Perché Canova fu odiato nel Novecento?.
Mario Praz spiegò sinteticamente, in un libro fondamentale, Gusto neoclassico, quello che era accaduto a Canova dopo la fine del suo regno, riportando le invettive e i frizzi e lazzi degli storici, specialmente italiani, del secolo scorso: credevano nell’immediatezza dell’arte, giù giù fino alla ‘presa diretta’ della imbarazzante action panting e dripping di svolazzo, sospettavano a dir poco della mediazione intellettuale (l’opera dei sospettati si era del resto svolta negli ultimi bagliori del diffidentissimo illuminismo), del disprezzo dell’istinto (repressione avrebbe detto la psicoanalisi, con visione meccanicistica, di quel gesto delicato che è la sublimazione), della mancanza di fretta nel rappresentare su tela e nel marmo quanto si era visto, l’opposto dell’ansioso pittore impressionista e del mistico espressionista. «In base a questo pregiudizio [romantico] è accademia quella che si ispira ai modelli classici, ma non quella che si ispira a quei modelli che, anziché ai Musei Vaticani, son conservati al Museo dell’Uomo a Parigi; si fa dell’accademia copiando l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte, ma si farebbe dell’arte pura, primigenia, derivando motivi e tecniche da quelle pitture preistoriche sui ciottoli… ». E il critico anti-neoclassico «fa il cipiglio a David e a Canova, sorride a Mirò e a Klee: perché gli pare che colui che copia dai Musei Vaticani uccida ‘lo slancio meraviglioso verso l’ignoto della fantasia’, mentre colui che copia dalle grotte di Altamira e di Lascaux ‘realizzi appieno l’autonomia dell’arte’». Una spiegazione magistrale di questi pregiudizi si trova nell’introduzione a Romanticismo politico di Carl Schmitt e risale al 1919. Oggi non ci si divide più neppure su questi princìpi, semplicemente si sono introiettate simili credenze per cui si accorre, per feticismo culturale, a ogni svelamento di Caravaggio e, per la medesima ragione, si omaggia naturalmente anche l’artista neoclassico così come l’imbrattatore postmoderno, secondo la effemeride dominante, ma alla fine si resta imbambolati di fronte alla bellezza, all’armonia senza ammiccamenti, ripiegando magari in cuor proprio sui disegni e i bozzetti, secondo quanto dicevano con più malizia i competenti storici novecenteschi e Praz riusciva a prevedere: «l’immediatezza, feticcio romantico, di cui sono sottospecie l’impressionismo e la scrittura automatica, una volta assunta a supremo criterio di giudizio, ha fatto sì che non solo vengano condannate intere epoche artistiche come il neoclassicismo, ma che dei grandi artisti neoclassici, si salvino solo gli schizzi, gli abbozzi, gli spunti come quelli che conservano qualche scintilla di quel fuoco divino che poi la rielaborazione smorzerebbe».(Gusto neoclassico, Milano, 1974, pp.129-130). Un bel riassunto della critica moderna, dei suoi vezzi, debolezze, miserie.
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Amato da Stendhal («io pongo in prima linea, tra gli uomini che ho conosciuto, Napoleone, Canova e Byron») e da Goethe, dai sovrani del mondo e dai popoli, sprezzato da critici novecenteschi. «Con i saturnali della libertà in arte, il mito di Canova disparve», scriveva monsignor Giovanni Fallani in una sua onesta monografia del 1949. Si dà per scontata la libertà assoluta dell’artista, al limite e oltre il limite del capriccio, ma si prova orrore, quantomeno scandalo, per un genio che sembra scolpire fuori del tempo. D’altronde, fare indossare agli dèi e agli eroi le vesti moderne è una cacofonia (anche Marx era convinto – forse per influenza di Heine – che la divinità classica a contatto con il mondo borghese scadesse in farsa), come svilire il linguaggio della tragedia con frasi corrive (è la forma tragica che in tal caso viene a mancare). Tali violazioni delle regole dei generi, invalse nel tempo nostro, sogliono presentarsi come eccentriche quando son solo il segno di una sordità alle cadenze poetiche. Zeitlos per Canova significava una fede robusta nell’eterno. Era già l’epoca in cui Marat sfidava Apollo: «Marat peut désormais défier l’Apollon, la Mort vient de le baiser de ses lèvres amoureuses, et il repose dans le calme de sa métamorphose» (Baudelaire, Le Musée classique du Bazar Bonne-Nouvelle sul celebre quadro di David). Canova si accostò alla storia mantenendo fede in Apollo, e si accostò ai tiranni, a Napoleone in specie, da pari grado: ne offrì perciò ritratti umani molto umani. Così anche i sovrani, i personaggi della storia, non sono incensati né temuti alla maniera di Goya, visti piuttosto con la saggezza morale di Manzoni. Reazionario, si dice, «nostalgico di un umanesimo cristiano».
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Invece che artista di cadaveriche figure – come spesso ripeterono i critici moderni e a lui ostili –, si veda Canova in compagnia di Correggio – secondo l’intuizione di David – e di Petrarca (talvolta evocato dai più consapevoli), di Pergolesi per la soavità, e forse anche di Leopardi, per l’acutezza di pensiero. Leopardi si lamentò della propria sfortuna quando, riuscito finalmente ad arrivare a Roma, «il gran Canova, al quale principalmente era volto il mio desiderio, col quale sperava di conversare intimamente e di stringere vera e durevole amicizia […] se n’è morto». E la Roma capitale mondiale delle arti poco dopo se ne morì a sua volta, anche per la mancanza di un indomito artista e protettore di tutte le arti, patron dei giovani, finanziatore di grandi imprese, straordinario ambasciatore dei papi, maestro di umanità.
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«Canova regalò al mondo la consolazione della Bellezza» – dice Antonio Paolucci che presiede il comitato scientifico della mostra e non teme di usare le maiuscole quando occorrono. «I grandi della terra lo capirono e gli dimostrarono immensa gratitudine». I moderni invece non capirono più niente, come in molti altri campi impalpabili, e si comportarono da ingrati. Del resto, l’artista della cultura della Restaurazione non potevano certo spacciarlo per rivoluzionario, il suo linguaggio anzi, commentavano sprezzanti i posteri, si era richiamato alla tradizione, igitur andava divelto dai grandi della storia dell’arte, dove i guardiani, burocrati della politica, controllano il tasso di giacobinismo e di innovazione, niente sapendo, e quindi niente apprezzando, delle squisitezze che le belle arti riescono a procurare all’animo e al corpo.
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La luce platonica e quella elettrica.
Comunque, l’esistenziale che si cercava nel non finito – come prevedeva Praz – , nell’accennato dei bozzetti, è tutto un effetto della luce, sosteneva Gian Lorenzo Mellini, che portava al suo mulino anche queste passioni popolari per l’aspetto meno classicheggiante di Canova. Mellini non è un esperto di cose canoviane, un accademico, un curatore di mostre, piuttosto un suo amico postumo, un possessore di sculture e pitture del Possagnese, ricevute in dono o acquistate con avvedutezza e occhio scaltro, lui nobile diseredato, autore di anacronistici libri di erudizione e preziosità, che si effigiava come un morto che parla; un Praz oscuro della nostra epoca, che non potette neppure trovare un rifugio nell’università immiserita ulteriormente, fissato ugualmente con l’arte che chiamiamo neoclassica, dove elegante ragionevolezza e forma armonica si accordano in una specie di viaggio al Parnaso. Ebbene, Mellini scorse il pittoricismo di marca veneta pure nelle statue, anzi soprattutto nel bianco dei marmi e dei gessi, con un effetto fosforico. Chiarore che risplenderebbe, per quanto diafano, in negativo, nell’oscuro sudario che avvolge il mondo.
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Noi vediamo la lucentezza prodotta da riflettori potentissimi che tendono ad annullare la pittoricità delle statue – la luce elettrica facendo sparire ogni differenza – perciò possiamo soltanto immaginare il caldo bagliore delle fiaccole con cui – alla maniera introdotta a Roma da Winckelmann – ci si accostava alla scultura nei musei, aperti di notte, onde fuoriuscivano colori e ombre. In tal modo apparve la «morbidissima carne». Luce radente di candela chiedeva d’altronde nelle sue lettere lo stesso autore per scovare le delicatezze dei marmi, i chiaroscuri.
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Sempre seguendo la lezione di Mellini, potremmo dire che Canova velava l’Illuminismo per tirarne fuori lievissime ombre.
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Sarebbe piaciuto a questo ‘secondo Praz’ il peso dato nella mostra di Forlì alla pittura dei contemporanei del sommo scultore, la presenza dei due quadri dello squisito Gaspare Landi (il terzo è un ritratto del festeggiato) che dialogano con le statue. Si sarebbe magari rammaricato della scarsità di quadri canoviani, dove rinvenire la «pittura paratattica», veneta nel colore, addirittura neotizianesca, «ma mengsiano sembrerebbe il progetto: un ritorno alla pittura greca almeno come la si poteva ricostruire allo stato dei rinvenimenti archeologici». Ci si può accontentare di una occhiata ai disegni, «piacevoli, pur non essendo dotato di una buona mano», dove comunque vedere quella «velatura lunare», quella «grisaglia ossianica», definizioni che la scrittura melliniana escogitava per Canova. E rilevare facilmente l’influenza di Füssli, talvolta di William Blake.
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«Canova scultore notturnale, cioè neoplatonico», afferma lo studioso, e per indicare questo notturno disseppellisce le Notti di Alessandro Verri (v. «Almanacco», I morti viventi in giro per Roma), di Novalis, di Leopardi, perfino «la lirica musicalità nella Norma belliniana». Il doge Paolo Ranier aveva tradotto Platone in veneziano, Canova – che di quel doge ci ha lasciato un ritratto in terracotta – fece più o meno la medesima cosa: rese il platonismo nel delizioso pittoricismo veneto.
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«La culla del Canova è la Venezia del settecento – sosteneva Ugo Ojetti nel celebre discorso commemorativo del centenario, 1922, oggi finito nell’oblio – ; e questa Venezia, da Benedetto Marcello a Giambattista Tiepolo, fu allora, è anche oggi, il segreto di quella tenerezza malinconica, di quella patetica sensualità, di questo amoroso abbandono, di questa grazia flessuosa e languida che ci incanta nelle opere di lui». È la Venezia ricercata da Hofmannsthal nel suo Andreas oder die Vereinigten. Se fosse stato terminato quel romanzo chiave del Novecento che si specchia nel Settecento, se la desiata ricongiunzione fosse avvenuta, si sarebbe, chissà, arricchito della luce di Canova.
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Ma il soffio molle del Settecento, non finì incagliato nella rocaille, negli eterni manierismi rococò di marca francese, e neppure nella Venezia della sottomissione a Vienna, nella geografia frammentaria del triangolo della décadence; sorretta dalla forte architettura romana, la grazia canoviana fu linguaggio nuovo. Terzo in senso cronologico dell’eccelsa triade di veneti, Palladio e Piranesi prima di lui, dedicarono la loro arte a Roma e da questa ricevettero le stigmate universali che li resero figure straordinarie nella storia dell’arte occidentale.
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La società neoclassica fu addolcita da quell’italico riso, «senza il quale niuna cosa è bella» si potrebbe dire citando Vincenzo Monti, non dall’ironia violenta oggi in voga, non l’onnivoro sarcasmo. Per intravederla, si porti con sé, Baedeker del viaggio a Forlì, L’Antichità come futuro, silloge delle teorie estetiche del neoclassicismo raccolte con la consueta amabilità di altri tempi da Rosario Assunto, ristampata nel terzo millennio in un quasi tascabile (Medusa edizioni).
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Nel calice di Ebe.
Splendette il Possagnese per l’arte funeraria in un’epoca che concepiva la morte in maniera diversa dal passato, dopo secoli di pensiero cristiano. Suoi capolavori furono le tombe pontificie, regali, della nobiltà di sangue e di arte, le steli per gli amici. Canova sembra ridare il senso della sopravvivenza tenendo conto di quanto era accaduto, cercando dunque una forma nuova. Del moderno senso della morte, dei dubbi spaventosi che si aprivano sul dopo, della ricerca di forme diverse e appena accennate di immortalità aveva parlato Chateaubriand. Non sarà un caso allora che l’Ebe che versa l’ambrosia agli dèi – bevanda che dà eternità a chi la beva, eucaristia pagana e come tutte le cose pagane riservata a una élite – ricorra corale nei quadri che a Forlì fanno corona alle due raffigurazione canoviane della Coppiera dell’Olimpo, segno di una devozione vagamente gnostica.
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Lessing, che riprendeva da Bellori, decretava che la scultura dovesse rappresentare la stabilità mentre la pittura raffigurare il fugace. In base a tale assunto, la Ebe di San Pietroburgo, che spiccava il volo dalle nubi spugnose, scolpite in marmo ruvido, risultava troppo pittorica. I tedeschi inclinavano alle gerarchie anche nell’arte, Winckelmann paventava il caos estetico e fissava delle regole, Baudelaire allora non poteva non trovare noiosa la scultura. Nel frattempo, Friedrich Schlegel aveva aggiunto un’altra, importante, definizione (e suddivisione): la scultura appartiene all’arte classica; la pittura a quella cristiana. E nacque così, si potrebbe dire, il Romanticismo. L’artista veneto-romano riassumeva il mondo classico e quello cristiano, la cultura cattolica li teneva insieme, non aveva davvero bisogno degli entusiasmi recenti dei romantici.
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Età dell’oro il passato, epoca critica il presente. Così i neoclassici, soprattutto di scuola winckelmanniana. Perciò la soffusa melanconia per questo voltarsi indietro di novelli Orfei che sanno che la loro amata Euridice è ormai inafferrabile. Lo stesso Winckelmann era consapevole della distanza che separava la sua epoca dal classico. Un rapporto immaginario, letterario, con l’antico. Comincia così la coscienza delle epoche di decadenza. Epigoni di una storia aurea. Per cui, forse, neppure nel cattolico Canova si percepisce la pienezza del presente. «L’attualità inattuale» della ragione rispetto al presente.
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L’eros neocattolico contrapposto a quello dei neopagani. Mentre il teismo dei Lumi già scavava la fossa della disperazione dove sarebbe precipitata l’umanità atea (sul finire del Seicento, Lorenzo Magalotti, nelle splendenti Lettere familiari, aveva messo in guardia i teisti che non credevano nella resurrezione della carne parlando del loro «temperamento stravolto, austero, fisso, insensibile a’ piaceri…»), dunque mentre sulla scia di Diderot si temeva il giudizio dei posteri piuttosto che quello divino, Canova dipingeva e scolpiva il trionfo della fede sulle false dottrine.
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Il colosso cattolico
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L’ideologia giacobina e quella dei suoi eredi magnificarono la presenza nelle loro file di letterati, artisti e teatranti che avrebbero ammonito i posteri sulla superiorità dell’ideologia rivoluzionaria, della virtù egualitaria; il cattolicesimo, tant’è l’abitudine, quasi non fece più caso al suo colto e divino apologeta, che significativamente chiude l’eccelsa schiera dei massimi artisti italici, dopo di loro, se non il diluvio, resistono delle schegge di quella tradizione, poi subentra l’eclisse della cultura cattolica e dell’arte senza aggettivi (da riflettere, peraltro, su questa coincidenza). Sull’altro fronte, perfino l’iconografia massonica protestante e liberale era sembrata ricorrere alle soluzioni canoviane, soprattutto al suo misterioso colosso mai realizzato.
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Andò così: il Possagnese aveva scolpito di propria mano cinquantatre statue, dodici gruppi, quattordici cenotafi, otto grandi monumenti, sei colossi, due gruppi colossali, cinquantaquattro busti, era l’artista più celebre al mondo, quando dopo la sconfitta delle idee e degli eserciti francesi, con il ritorno del papa al Quirinale – che era stato preparato come reggia per la vecchiaia del Còrso («L’umana alterigia che stoltamente pretese di eguagliarsi all’Altissimo, è stata umiliata…», dirà seccamente Pio VII riprendendo possesso della sua dimora) –, volle celebrare la restaurazione del pontificato romano con un segno che sfidasse i secoli. Concepì una statua alta otto metri, un colosso grande come un palazzo, che personificava la Religione cattolica, da collocare nella basilica di San Pietro. La Catholica vestiva esplicitamente abiti ebraici, anzi quelli del sommo sacerdote, con lo strano copricapo che si è visto tantissime volte indossato dal celebrante che appare nei quadri del matrimonio di Maria o della circoncisione di Gesù. Si appoggiava a una stele, con caratteri ebraici e con un medaglione che raffigurava Pio VII ma che lo stesso papa, destinatario del dono, consigliò di modificare con l’immagine di Pietro e Paolo. A Forlì è esposto il modellino in gesso della primitiva versione, senza la raggiera intorno al volto, e di fronte ce ne è uno in terracotta della Fede che compare sulla tomba di Clemente XIV a San Pietro, una delle opere degli inizi, che lo innalzò tra i massimi che si erano esibiti in quel tempio. Fin dalla giovinezza, quindi, Canova si era dedicato a celebrare nel marmo la fede cattolica, e fin da allora la donna allegorica indossava abiti ebraici (il Novus Israel?), anche se la raggiera dietro il volto ricordava piuttosto il copricapo delle contadine lombarde, della Lucia manzoniana. Peccato che in quella stanza della mostra forlivese non ci sia testimonianza alcuna di un dipinto canoviano, Il trionfo della fede, dove una donna irrompe su un carro dorato, i raggi dietro il capo, il braccio proteso verso lo spettatore, con in mano l’eucaristia. Le diverse personificazione dovevano confluire nell’opera matura, nel colosso, però i canonici di San Pietro respinsero il dono con la scusa che una statua tanto imponente avrebbe potuto sfondare il pavimento della basilica vaticana. Lo stesso Valadier, che doveva preparare una base in bronzo, era preoccupato del peso. Canova propose allora una sede diversa, il Pantheon o la chiesa michelangiolesca di Santa Maria degli Angeli: niente, il dono fu rinviato al mittente. Probabilmente, quel che turbava era un’arte così apologetica. Davanti alla modernità, pure preti e monsignori, benché usciti vincitori da una guerra, cominciano a temere il ‘trionfalismo’, ovvero sembrano sempre scusarsi della abbagliante luce cattolica
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Deluso Canova, modificò la statua per ornare, in altre dimensioni, la tomba di una dama inglese. Ma dovette cambiare personificazione, cancellare i riferimenti ebraici, velarla severamente: ora la religione diventava genericamente cristiana, più mestamente protestante. Ma quando venne creato l’ultimo e gigantesco simbolo dell’Occidente, la Statua della Libertà ancorata nel porto di New York, Bartholdi si ispirò proprio alla personificazione canoviana della fede cattolica, sicché le tolse l’ostia eucaristica e la sostituì con la fiaccola che sedurrà il mondo moderno.
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Il neoclassicismo sottratto a Kant.
Ma l’eros cattolico non basta dedurlo soltanto dai temi svolti dall’artista. Sottili storici dell’arte che professavano il laicismo pur innamorati di Canova provarono a manovrarlo con categorie kantiane. C’è allora da meditare su uno scritto quasi segreto, privo di ogni minima fama – e sul web, che concede un po’ di notorietà a porci e cani, il nome dell’autore manca del tutto – , uscito un quarto di secolo fa su una rivista elegante, «Labyrinthos» (1983, nn. 2/3), dal titolo Morte e trasfigurazione del Neoclassicismo. L’autore, ormai scomparso, era Sergio Ruffino, che coniugava la storia dell’arte alla filosofia. Il saggio argomentava sull’eros settecentesco e partiva da Hans Sedlmayr, l’ultimo della cosiddetta Scuola di Vienna. Il quale tornò più volte sulla distinzione, decisiva in questo contesto, tra barocco e rococò (in specie nella voce «Rococò» sull’Enciclopedia Universale dell’Arte). Se nel primo stile la Gloria divina raggiungeva l’uomo mediante l’arte, nel secondo la glorietta umana, il piacere senza metafisica, provava a fare a meno di Dio, diventava l’arte del libertinismo. Nel barocco la vittoria dei «sensi superiori», nel rococò l’eros moderno. Boucher e Fragonard ce ne offrirono esempi decisivi e superbamente lascivi. Ma chi diede loro la forza di rovesciare la Grazia cristiana nella ‘graziosità’ civettuola? La risposta potrebbe essere: la prima, grande, crisi del pensiero occidentale, «la potenza filosofica del libertinismo». Quel libertinismo che «scindendo la politica dalla morale e dalla religione (entrambe erano radicalmente svalutate) propugnava l’assoluta autonomia del politico, respingendo ogni limite di diritto naturale e di legge divina». L’assolutismo libertino cambia la faccia anche della morte, che perde il sapore cristiano. Contro questa ideologia amorale e scettica si erge l’illuminismo, morale e razionalista. Dall’altra parte, c’è il cristianesimo ferito, e Sedlmayr ricorda il Sacro Cuore di Pompeo Batoni come un contrattacco cattolico al rococò. Ruffino allora, forte di questa tripartizione, applica lo schieramento in campo alla nascita del neoclassico. Da una parte il rococò che rifiuta morale e religione, dall’altra l’illuminismo con la morale e la religione di Roma con il trascendente. Ebbene illuminismo e cattolicesimo saranno le due componenti del neoclassicismo, che appunto avrà due anime, David e Canova. Nel primo la morale kantiana, il diritto di uccidere rivendicato da Marat, proprio perché egli conosce il suo destino di morte (appena una anticipazione di quelle che nei Demoni di Dostoevskij saranno le degenerazioni rivoluzionarie, l’inflazione degli assassini). «Il classicismo di Canova – scrive Ruffino – presuppone tutto il razionalismo illuministico, anzi è incomprensibile senza quella rivoluzione razionalista dell’architettura». Ma se David è un rivoluzionario, con il suo risvolto di eroismo morale, con il sublime neoclassico, «severo e a volte arcigno» direbbe Assunto – che raccoglieva tanti filoni austeri: dal classicismo seicentesco romano all’estetica di Port Royal, dal pietismo di Winckelmann al gusto politico dei giacobini –, Canova sta dalla parte di de Maistre anche se forse non ha mai letto il savoiardo. «L’intera sua opera può essere compresa (e l’averlo dimenticato fu la cagione di tanti sviamenti) se lo si riporta a quel vasto fenomeno culturale che è quasi il contraltare dell’illuminismo […] e che sarebbe giusto indicare come neoccasionalismo». Il ritorno a una visione settecentesca che spiega tutta la realtà. Se lo schema presenta David/Robespierre, va loro contrapposta la coppia Canova/De Maistre. Ecco perché Canova suscita odio secolare. In luogo del sentimento, infatti, egli colloca il cristianesimo come verità e rivelazione. Di fronte a queste scandalose immagini, i laici che voglion recuperare il Possagnese fanno ricorso a Kant. Gli apologeti della non-forma estetica attuale, adesso ritrovano addirittura in lui l’antesignano del superamento della rappresentazione, parlano e straparlano di «cosa stessa sublimata». «In realtà Kant c’entra poco», replica Ruffino, Canova rifiuta nettamente il soggettivismo kantiano. Canova e David lottano contro il ‘grazioso’ settecentesco in nome di un’altisonante idealità. Il francese però è rivoluzionario e moralista, mentre il veneto non separa mai l’etica dalla religione. Intanto, contemporaneo dei due, Sade è l’epitome del gran finale dell’Europa libertina. «L’illuminismo della libertà si capovolge nella dittatura della libertà». Ma questo è un capitolo della Dialettica dell’Illuminismo. Dopo l’idealismo di David e di Canova si apre il teatro borghese, questioni di soldi. Jacob Burckhardt pensava a una personificazione dei dèmoni del crack in Borsa. Il ritorno al classico si trasformava nella parodia. Heine metteva in scena il suo Olimpo irridente, quello neoclassico era stato di volta in volta ateo o cattolico, ma sempre solenne. Ogni immagine di Canova aveva una valenza cristiana, anche Paolina, Paulette Bonaparte sposata in seconde nozze con il principe romano Camillo Borghese, antico lignaggio ancorché sensibile ai venti giacobini, sì anche i nudi, soprattutto le immagini dei nudi. «Esse sono cattoliche come era cattolico il suo autore; anzi, per trovare il cuore della faccenda, direi che non è possibile immaginare l’equilibrio cattolico tra grazia e natura, libertà e merito senza quei nudi; proprio perché quell’equilibrio si sposta ora un poco più in qua, ora un poco più in là, e annullare uno dei due poli significherebbe infrangerlo, spegnere per sempre il ‘lume naturale’, quella analogicità dell’essere, quella naturale partecipazione della natura alla grazia soprannaturale, che tanto piacque, un tempo, a San Tommaso…». Successivamente l’equilibrio si ruppe, il sarcasmo di Heine rimbombò nelle figure di Daumier, che non credeva più alle tavole morali di David e alla trascendenza canoviana. Conclude Ruffino: «nel regno delle immagini non possiamo registrare ormai se non la risplendente stupidità beata dell’impressionismo, festevolmente inconsapevole, e la breve stagione di quell’isola felice, lontana ormai le mille miglia da noi. Ciò che segue è la nostra storia».
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La consapevolezza della fictio, il rifiuto dell’istintività, della naturalezza. L’acclamatissima grazia, che è scioltezza, rinascimentale sprezzatura, equilibrio, deve dunque essere ben diversa dal sensuale rococò, libertino e licenzioso, come dall’agudeza barocca, dall’insolito come valore, dallo stravagante. Canova ammirabile, dice Antonio Giordani, non si sa se più per l’ingegno o per la mano. Equilibrio riuscito cioè, là dove i moderni escono sempre sconfitti, sostituendo formule intellettualistiche alla mano, al talento che proprio non c’è. Il sublime si sposa insomma con la grazia, senza civetteria e senza angoscia protestante (ma che di riflesso fu anche, nel pieno della Riforma cattolica, propria del manierismo più teso, dei rimuginii di Torquato Tasso, del barocco più vertiginoso, dell’arte dunque della religione di Roma).
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Defensor Romae.
Un gran berretto frigio era stato calcato dai giacobini in testa all’angelo che se ne sta sulla terrazza del castello romano che da lui prende il nome. Sfregio alla creatura divina che brandiva la spada dell’ira celeste. Intanto, lunghe file di convogli portavano via da Roma innumerevoli opere d’arte, dalla Trasfigurazione di Raffaello all’Apollo del Belvedere, al Laocoonte, ai Correggio, Guido Reni, Domenichino, nel più imponente saccheggio moderno, pari a quello dei barbari di Alarico (i lanzichenecchi consumarono sul posto): ma stavolta in nome della cultura progressista veniva depredata la città eterna dalle armate rivoluzionarie, a maggior gloria dello sciovinismo francese. Con eleganza e sapiente distacco il sovrano della terra saccheggiata, papa Pio VII, diceva delle opere rubate: «le vicende dei tempi ce le hanno involate» (così nel chirografo per tentare di salvare la migliore arte del mondo, commissionata dai romani pontefici e sottratta dai francesi che declassavano Roma a seconda capitale del loro impero assai effimero). E intanto si affrettava con alate parole a porre riparo alla drammatica situazione, ricorrendo proprio al fido Canova: «Sono state queste le riflessioni che dappresso all’illustre esempio, che la S. M. di Leone X diede nella persona del gran Raffaello da Urbino, ci hanno recentemente determinati ad eleggere l’incomparabile scultore Canova, emulo dei Fidia, e dei Prassitele, come quello lo fu degli Apelli e dei Zeusi, Ispettore generale di tutte le Belle Arti, e di tutto ciò che alle medesime appartiene».
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Il canoviano Perseo prese allora, per volontà di papa Chiaramonti, il posto lasciato vuoto dall’Apollo del Belvedere, che i liberatori si erano portati a Parigi. Il cosiddetto neoclassico sostituì il classico doc sul medesimo podio, per ragioni politiche. Canova, inoltre, il Perseo consolatore, come fu perciò chiamato, acquistò a proprie spese la Collezione Giustiniani – che stava per essere venduta ai francesi e a perdersi Oltralpe – e la donò ai Musei Vaticani, la pupilla dei suoi occhi di artista generoso. Intervenne presso gli occupanti francesi per la liberazione dei giovani artisti spagnoli, che non si erano voluti piegare ai rivoluzionari, e per garantire la permanenza a Roma di quelli tedeschi e austriaci, che gli invasori volevano rimpatriare.
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A Parigi, nei numerosi colloqui con Napoleone che esaltava la spada, Canova citava Machiavelli, secondo il quale la potenza di Roma era dovuta più alla religione di Numa che alle armi di Romolo. Il moderno dittatore georgiano che irrise le esigue truppe del papa non avrebbe mai capito. Sembra comunque da queste parole che l’artista veneto riprendesse i temi discussi dai fantasmi classici nelle già citate Notti romane dell’amico Alessandro Verri, dove si parlava della superpotenza pontificia che aveva portato il nome di Roma ben al di là dei confini imperiali. Sostenne quindi Canova nel dialogo con l’imperatore gli immani vantaggi che godettero le arti sotto la Chiesa cattolica.
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Quando Napoleone cadde, Canova corse a Parigi in nome del papa, a recuperare valorosamente i capolavori nostri deportati laggiù. In molti teorizzavano il dato di fatto: ormai sono qui, stanno meglio che a Roma, nel cuore dell’Europa… «Scortato dalle truppe austriache e prussiane, Canova entrò nel Louvre e, con l’aiuto volontario di molti artisti stranieri residenti a Parigi, cominciò la difficile opera di identificazione, distacco e imballaggio». (Pinelli in Lo studio delle Arti e il genio dell’Europa, Nuova Alfa editoriale, 1989, p. 3). Le scolaresche e le comitive italiane, che in sì gran numero si recano annualmente al Louvre, dovrebbero pur sapere di quante lacrime grondi quella concentrazione di opere d’arte, di quanti capolavori rubati su e giù per la penisola meni ancor vanto.
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Fu dopo questo trionfo politico, di salvatore dell’arte romana, che Canova si recò a Londra ad ammirare i marmi ateniesi, a confrontarsi con il genio greco cui tutto il mondo lo accostava.
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Ma aveva visto il suo «amato Stato» talmente in crisi, tanto «in ruina», da esser tentato – come raccontò in una lettera a un amico – di andarsene in America e stabilirsi colà.
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La forma eroica.
«Mentre tutto il mondo si affaccenda attorno ad altre mode, e imperversa un pullulare di impressionismo sentimentale, Beethoven ripensa la grande Forma, di cui nessuno si occupa più, per portarla, con un gesto che è davvero ciclopico, fino alle sue ultime possibilità vitali […]. Ecco perché il Rosen può scrivere che la decisione di Beethoven, di continuare con le forme più puramente classiche, fu eroica. Mentre intorno a lui si affaccendano la frivolezza operistica e salottiera e la benedicente sentimentalità romantica, Beethoven erige, allo stile classico morente il suo monumento, più duraturo del bronzo» (Piero Buscaroli, La casa di Beethoven e altri saggi beethoveniani). Non fu altrettanto eroica, ciclopica, la scelta di Canova, suo illustrissimo contemporaneo, che non si lasciò irretire dalla frivolezza salottiera che accompagnava la pace ‘viennese’, dal «pullulare di impressionismo sentimentale»? E trattandosi di arti figurative, non si limitò alla forma nobile, seppe unirla, mantenendosi in questo devoto alla italica tradizione, a quella fedeltà al reale che bandisce ogni astrattismo nella bella penisola. Ojetti affermava che i migliori nostri artisti, del Cinquecento come del primo Ottocento, assumevano «l’idealismo greco come un limite, non come uno scopo», ché la passione loro era «un rispetto pel vero, un amore pel vero, un’aderenza al vero […]. Noi restiamo uomini anche in arte». E Canova, a Londra, insegnava: «gli uomini sono stati composti di carne flessibile e non di bronzo». Con la tinta di minio sparsa sul marmo provò del resto a correggere il candore delle sculture, concepì diversi trattamenti della superficie con finalità mimetiche. C’è chi come Mellini addirittura declina Caravaggio-Canova, «curiosa coincidenza nel realismo», «un certo comune idealismo unito a carnalità, nel segno indubbio di Raffaello». A controprova, Berenson, nel suo saggio su Caravaggio, con molto gusto del paradosso (e in non troppa larvata polemica con Longhi) parlava di Michelangelo Merisi come l’«antibarocco», «’classicista’ quanto J. L. David nel Giuramento degli Orazi».
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La migliore dimostrazione di questa carnalità è nell’opera del migliore erede che forse ebbe Canova: Hayez.
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Canova vede la realtà sub specie aeternitatis, «amore incoercibile della bellezza fisica», come ripete Paolucci: «Bella natura è il mito che si fa carne». E ricorda Ugo Foscolo che, tutto al contrario dei critici moderni, considerò la Venere canoviana come «una bellissima donna» e contrapponendola alla Venere Farnese diceva: «l’una mi faceva sperare il paradiso fuori di questo mondo e questa mi lusinga del Paradiso in questa valle di lacrime…».
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Il secolo ventesimo è trascorso a digerire il barocco, fino a farne l’emblema della confusione moderna, e per questa riscoperta si è cancellato il neoclassico che a sua volta lo aveva seppellito, ci si è rifiutati per lungo tempo di ristampare le teorie di Francesco Milizia. Così comportandosi però si travolgeva ogni cosa per spirito inutilmente fazioso, a cominciare da quel filone classicistico, incoraggiato da monsignor Agucchi, che si originò proprio nel barocco. Talché si potrebbe dire che nel barocco si rischiava di finire con il nichilismo, proprio a furia di esaltare quell’istante tra il nulla e la tomba – come osservava guardando ormai indietro Aurelio de’ Giorgi Bertola – mentre il neoclassicismo rappresentò una specie di allungamento della vita, di rasserenamento, di pausa, di ragionevole indugiare…
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«Il Canova – ricordano i biografi – si infastidiva a udire gli artisti fabbricar teorie alla tedesca e non quadri e non statue, e se qualcosa si compiaceva di insegnare, era il suo mestiere, e come si maneggiavano il mazzuolo, lo scalpello, la gradina e la subbia». Volesse il cielo tornasse un moderno Canova a insegnare il mestiere ai verbosissimi giovanotti – e ai loro ignoranti accompagnatori critici – che pretendono il nome di artisti solo per le parole vane che profferiscono, ma tecnica niente, neppure ci provano.
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In margine.
Vedendo un’anziana signora che appena l’altro ieri fu assai attraente, veniva da lodare il Possagnese, quella sua arte che, per l’ultima volta – ad attenersi alle rigidezze storiche – sapeva fissare la beltà giovanile, bloccando il tempo, assicurando l’immortalità all’effimero. Quell’«eterna giovinezza» con cui, secondo Foscolo, «rivestiva il marmo». Oppure quanto osservava Stendhal: «finché Canova vive, l’immortalità si può comprare», alludendo ai ritratti eternizzanti che ci si poteva far fare. Così meditando, veniva in mente Jacob Taubes quando contrapponeva la ‘felicità nella fugacità’ di Walter Benjamin alla nostalgia goethiana del Faust per la durata, all’anima venduta al diavolo per sfuggire al tempo, per conquistare un po’ di eterno, all’eco che permane perfino in Nietzsche: «ogni piacere vuole l’eternità». Ne parlava da teologo ma illuminava sul presente delle arti. La sua osservazione, applicata alle nostre questioni, ci fa esclamare: ecco perché Benjamin è diventato il santo protettore dei procedimenti estetici contemporanei mentre Canova resta estraneo, incomprensibile ai moderni. Il gemito della creatura pretenderebbe la fine dei tempi, l’eternità apparirebbe una minaccia per i disperati della terra. Il cosiddetto contemporaneo enfatizzando la friabilità del mondo, negando ogni visione stabile o addirittura ogni visione, sarebbe una bella droga, uno stordimento per la corsa finale. Ma i conforti dell’arte non sono proprio in questa promessa di durata, nell’assicurazione della sconfitta di Madama Morte, della dissoluzione nel nulla? I disperati del resto ne sembrano le prime vittime.
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L’istantanea, lo scatto della fotografia, blocca l’effimero in una immagine altrettanto effimera, atta a suscitare un effetto nostalgico, un rimpianto per quell’attimo definitivamente trascorso, di cui la fotografia è un assai tenue ricordo. Ha ragione ancora una volta Jean Clair quando sottolinea che la la riproduzione fotografica esclude proprio quanto c’è di artistico e impone il carattere più feticistico. Ben altro discorso per l’opera pittorica, o scultorea, dove il caduco esistenziale viene sottratto al suo destino di morte, assicurando una sopravvivenza finché resterà questo mondo, e forse anche dopo. Insomma una specie di vita eterna, comunque una sua allegoria che sa parlare ai sensi.
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Perfino la bellezza fisica attuale, senza più lo specchio dell’arte, ha un non so che di mortifero. Come al solito, René Girard annota con arguzia: ««Se i nostri antenati potessero vedere i cadaveri gesticolanti che riempiono le pagine delle nostre riviste di moda, li interpreterebbero verosimilmente come un memento mori, un monito di morte. Se spiegassimo loro che quegli scheletri disarticolati simboleggiano per noi il piacere, la felicità, il lusso, il successo, probabilmente scapperebbero in preda al panico, immaginandoci posseduti da un demone particolarmente cattivo». (Dal suo ultimo libretto, tradotto in italiano da Lindau, Anoressia e desiderio mimetico). I tentativi di Canova, l’arte che assicura la durata, la felicità nell’eterno, vanno in controtendenza. Se non c’è più arte, infatti, (non la sua parodia), resta la morte.