giovedì 25 agosto 2011

Il Messia non si vende

~ L’ALTERNATIVA DELL’ARTE SACRA ~

Nella noticina dello scorso 8 agosto («Solo un ‘regnum gratiae’ ci può salvare») dicevamo dell’infimo ruolo dell’arte nell’epoca del funzionalismo capitalista. L’attività che accostava in modo particolare l’uomo a Dio, la bellezza generata non dal capriccio individuale bensì dall’imitazione della liturgia paradisiaca (si veda la Commedia di Dante), in un mondo all’insegna del mercato diventa comunicazione, orpello del processo comunicativo, enfasi pubblicitaria del mondo delle merci. Il Bauhaus lanciò il programma per l’allucinato svuotamento dell’arte, la moda piccolo borghese del design, la grafica per caratterizzare un prodotto, per sedurre un consumatore, l’esprit de géométrie senza più il conforto dell’esprit de finesse; Guy Debord ne denuncerà il gretto risultato finale. Il trionfo della macchina richiede che tutto, anche la casa e l’anima umana, sia riconducibile alla sua disciplina, onde sfruttare l’energia meccanica che è il suo unico scopo su questa terra. Perciò, si sottolineava in quello scrittarello, l’arte della nostra epoca è condannata a essere brutta (e c’è qualcuno tanto autolesionista da compiacersene). Ma perché, ci domandiamo oggi, anche l’arte sacra, cattolica – da cui nacquero i massimi capolavori nella storia dell’Occidente, dal Medioevo in poi – si deve piegare a una simile condanna? Perché, per esempio, le decorazioni, il logo, l’altare di Madrid dove le folle dei giovani hanno pregato con il papa devono obbedire alla maledizione dell’universo mercificato? Anzi, perché un logo per tale raduno, non bastava la croce, si doveva forse vendere qualcosa? Si doveva comunicare col tono sintetico e nevrotico della réclame? Eppure la buona notizia cristiana non appartiene al linguaggio delle news, è una faccenda che attraversa i secoli, che parla solenne, che annuncia nientedimeno che la sconfitta della morte, non si tratta di un consiglio etico, di un invito new age, di un brand spirituale da lanciare. Non è uno spettacolo, anche se i più devoti cronisti della televisione dei vescovi parlavano l’altro giorno di palco invece che di altare, ara del sacrificio. Certi preti si assoggettano ai peggiori dettami del marketing considerandosi i pr di Cristo, ma il Messia non si vende, è un dono. L’arte sacra dunque non può essere il riflesso di quanto accade nel mondo, soprattutto quando questo ha tagliato le radici con la tradizione e vive angosciosamente solo le oscillazioni economiche, le contorsioni demoniache dei soldi. Meglio sarebbe se si presentasse come l’unica alternativa a quel ‘contemporaneo’ asservito al denaro, e parlasse di un altro tempo: l’eterno.

lunedì 8 agosto 2011

Solo un «regnum gratiae» ci può salvare

~ SI PUÒ USCIRE DALLA SUB-CULTURA ATTUALE? ~

Tutti leggono, dalla mattina alla sera, nella metropolitana e sulle spiagge, e spendono assai nelle librerie, informandosi attraverso le recensioni e le presentazioni nella rete e sui giornali – piccole, continue evasioni senza respiro nel contemporaneo, roba da carcerati a vita – , ma chi sfoglia ancora Dante o Ariosto, Tommaso d’Aquino o Guicciardini? Anche più ristretta schiera quella di coloro che li meditano. Ecco perché George Steiner, pure in una intervista su «la Repubblica» del 25 luglio, tornava a parlare ormai di «una sub-cultura odierna». E alla intervistatrice che, perplessa, forse in quanto adepta dello spirito della testata, chiedeva: «perché si ostina a ripetere che l’idea di cultura è andata in pezzi?», Steiner spiegava con pazienza: «Sono i fatti a provarlo. In paesi come l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, la scuola primaria e secondaria è in una crisi gravissima. Quand’ero giovane, le università tedesche costituivano una garanzia per la vita intellettuale europea e statunitense. Poi non è più stato così. Oggi nelle università occidentali, e anche in Italia, ci sono alcuni docenti notevoli, ma in generale è tramontato il prestigio della ricerca e della trasmissione di cultura universitaria. Gli studenti più validi di Cambridge finiscono a lavorare in Borsa o nelle grandi banche, e considerano la politica come qualcosa di ridicolo e corrotto. Per non parlare della decadenza del mestiere d’insegnante».

Gli fa eco Jean Clair. Il «Corriere della Sera» dell’otto agosto riporta un’anticipazione del suo ultimo libro, L’inverno della cultura, dove i giochi del contemporaneo vengono dannati definitivamente; vi si parla di «degenerazioni dell’arte contemporanea»: «la discesa dall’high culture alla low culture è una discesa agli inferi», i suoi protagonisti conoscono solo le tecniche del marketing. Un’altra anticipazione del testo polemico di Clair è offerta in rete da «Il Covile», numero 653. «L’arte contemporanea – vi si legge – è la storia di un naufragio e di uno sprofondamento». Sacrosante reazioni di nobili figure a situazioni insopportabili. I giornali però, inclini a conclusioni a effetto, propendono per l'ipotesi di una prossima fine di questo infernale gioco, quasi si trattasse di una moda sconfitta ormai dalla noia. Si dovrebbe essere meno ottimisti. Davanti ai restauri contemporanei di un ufficio postale anni Trenta, di fronte alle soluzioni standard, omologate, un’amica ci diceva realista che questa specie di arte attuale non può che essere così, funzionale al sistema che non concede deroghe. Ovvero, l’arte del capitalismo estremo non può che essere brutta. L’arte di massa in una società definitivamente nichilista non ha più neppure delle tracce di bellezza. Soltanto l’avvento di un «regnum gratiae» potrebbe modificare l’estetica.

All’inizio del Novecento c’era ancora chi sosteneva che «per un uomo di cultura la peggiore immoralità sarebbe quella di accettare i parametri della sua epoca» (Hugo Ball, Die Flucht aus der Zeit). Per Carl Schmitt la parola «contemporaneo» suonava come «complice dell’epoca meccanicistica», perché colui che crede di dover andare col tempo si è già da sé escluso dalla cerchia degli spiriti indipendenti (si veda l’ediz. italiana di Aurora boreale, un saggio di Schmitt tradotto per le Edizioni scientifiche italiane e ricco di apparati a cura di S. Nienhaus). Intanto si andava diffondendo il dogma che economia, finanza e arte si riconciliassero tra loro. Oggi l’economia senz’anima rivolge ovunque i suoi artigli, facendo intorno a sé il deserto.