mercoledì 31 luglio 2013

Il sermone del gesuita

~ IL GRANDE SPETTACOLO DEI POVERI E DEI RICCHI
MESSO IN SCENA DA UN INSIGNE SCRITTORE DEL SEICENTO ~

«Uscite da la fossa ceneri sparse ed ossa»
E. de’ Cavalieri, A. Manni, Rappresentatione di Anima e di Corpo, 1600

Chissà se invece di attingere soltanto a giornali e televisioni o addirittura ai cinguettii elettronici per farsi un’idea del mondo, nei seminari della Compagnia ignaziana, se non altro in quelli di lingua italiana, si è usi ancora sfogliare l’opera di Daniello Bartoli (1608-1685), massimo scrittore gesuita e colonna portante della pur maestosa letteratura italiana (al punto che Leopardi annotava nello Zibaldone: «… alle volte disgrada lo stesso Dante»); chissà se qualcuno si sofferma  su La povertà contenta che ha come sottotitolo «descritta e dedicata ’a ricchi non mai contenti» e che fu pubblicata nel 1650 (Google ne offre una copia digitalizzata, invero di non scorrevole lettura; qui la citiamo, nel giorno della festa del santo Cavaliere basco, dall’edizione delle Opere del padre Daniello Bartoli della Compagnia di Gesù, volume XXVIII, Torino, 1834). Questa «opericciuola» discorre «della felicità de’ Poveri contenti», che è un tema essenziale del cristianesimo, rilanciato da Francesco d’Assisi, niente a che fare con le lamentazioni sociali delle filantropie socialiste su cui anche Karl Marx esercitò il suo humour nero luciferino. Voi ricchi – dice l’eccelso prosatore – osservate i poveri e vi riconoscete, terrorizzati, in quello «specchio della umana miseria». Perché mai accade un tale gioco di riflessi e  che cosa atterrisce in quello specchio lor signori? I miseri – sostiene il Bartoli – somigliano impressionantemente a quello che i ricchi saranno (o potrebbero essere) tra poco: dopo la morte. Chi, come il gesuita, ha fatto della povertà un voto, non vuole certo minacciare la ricchezza di coloro che sono mossi esclusivamente dalla cupidigia, appronta piuttosto una «farmacopea» onde guarire da questa febbre dell’avidità, onde tornare alla saggezza cattolica che aborre gli estremi. Solo un ricco assatanato può immaginare che «un povero muoia scontento», dice il Bartoli (speriamo che non lo immagini anche un «Vescovo» gesuita che agita la causa dei poveri) o anche, si potrebbe aggiungere, che i cristiani in genere siano degli infelici fuori di testa (era la convinzione dei pasciuti borghesi ottocenteschi). I beni, la zavorra dell’oro e dei possedimenti, dovrebbero, nella fantasia dei possidenti bloccare o quanto meno rallentare la violenza del tempo che nel «brieve palmo di pochi giorni» tutto vanifica; la ricchezza insomma dovrebbe rendere meno leggera, fragile,vacua e insignificante l’esistenza. Nel cristianesimo, la critica della ricchezza smodata non è mossa dunque dall’invidia, dall’odio dei ricchi mancati che vorrebbero essere come quelli a cui guardano con ammirazione e rabbia. È anzitutto una questione di misura e, in primis, di misura temporale. Non rimandate – incalza il gesuita che fu anche un grande predicatore – le opere di misericordia, investite qui, sulla terra, riscuoterete nell’Aldilà. 

Già nella introduzione, il sagace letterato lascia cadere una perla barocca che tanto preziosa sarebbe anche nel tempo nostro, in specie per l’omiletica: «Dove la verità da sè sola e ignuda, come fosse mendica, sarebbe da’ ricchi avari cacciata (quasi a prender da loro venisse e non a dar del suo), vestita per decoro d’alcuno schietto ornamento, come matrone, più agevolmente troverà chi la ricetti e la senta. Per tal fine andrò io tal volta, framescolando il bello col buono…». Anche i soldati della Compagnia ignaziana, dunque, benché il gesuita «nec rubricat, nec cantat», ricorrono al decoro dell’ornamento, parlano e scrivono con rara finezza, consapevoli che la missione evangelica non può fare a meno delle arti. In tal modo al Bartoli pare di offrire «tesori di sì belle verità», tesori che valgono più dell’oro, che riescono a vincere l’umana natura in una specie di compromesso. «Abbiamo un corpo, non siamo angeli», ripeteva Teresa d’Avila, aprendo l’èra pia della Riforma tridentina.

«Se le ricchezze d’una Povertà contenta fossero conosciute» non regnerebbe la paura su questa terra e le città farebbero le loro mura di cinta «con le siepi di rose». Chi rischierebbe allora per mare e per terra nelle imprese economiche? A questo punto Max Weber sottolineerebbe le righe in cui il Bartoli sembra raffigurare a tinte fosche l’attività dell’homo oeconomicus e magari vi scriverebbe  in margine: «apologia cattolica della pigrizia». Quanto meno, si sarebbe tentati di dire per assonanze facili, anticipa le attuali teorie della «decrescita», in realtà qui la retorica del Bartoli vuol solo mostrare la fatica dell’intrapresa che, oltre una certa misura, diventa una ossessione. C’è una parsimonia anche nell’eccesso barocco: perché non provare «la soavità di qualche stilla di questa celeste ambrosia della Povertà contenta»? I poveri sulla soglia delle chiese, con i loro sgradevolissimi difetti fisici, con le piaghe e le febbri, che paiono sempre sul punto del trapasso, sono un esercito di figuranti nello spettacolo edificante allestito per la regia cattolica. Fuori della chiesa, le folle degli straccioni sono un potente ammonimento su quanto attende l’uomo sano e abbiente; dentro la chiesa, i soffitti che s’aprono alla gloria paradisiaca dipinta mostrano i premi che attendono tutti i partecipanti, sani e malati, ricchi e poveri, di questo universale teatro del mondo e del cielo. Gli accattoni,  «pallidi, scarni, ignudi, mangiati dentro dalla fame, e di fuori congiunti dalla necessità: senza altro patrimonio che la propria miseria [Marx copiò quando reintrodusse il termine latino di ‘proletario’?], senza altro senso di vita che il dolore d’un pensoso morire», sono – agli occhi del Bartoli – dei sublimi predicatori  «sopra la vanità e la manchevolezza delle cose del mondo». Qualsiasi elemosina darete loro, qualsiasi prezzo pagherete un simile sermone, sono i poveri che vi faranno un dono, l’obolo è appena un biglietto scontatissimo per questa sontuosa messa in scena barocca. Perfino la povertà «scontenta», le lacrime, le lamentazioni, i rimbrotti contribuiscono a una tale illustrazione plastica del catechismo cattolico, i cinque sensi sono addestrati, con tanto di  tanfo che rimanda alla putrefazione del cadavere,  per la Rappresentazione di Anima e di Corpo con cui Emilio de’ Cavalieri aprì la fortunatissima storia del teatro musicale, il recitar cantando che in serrata dialettica animò la Riforma tridentina: «Ed io vi concludo che questa miserabil vita altro non è che una pompa funebre di corpi vivi».

Certo, ci sono uomini che vivono in terra felici, per niente attaccati alle cose del mondo, che non hanno bisogno di questo genere di visioni né devono acquistare il biglietto con l’elemosina per ottenere un po’ di sapienza, ma questi uomini son pochi. E per formarne di tal genere la «Filosofia del secolo» serve a poco. A tal proposito le immagini di Seneca inducono a fantasticare come fossero una bevanda che, data a un povero, lo facesse sognare di domini e di gloria per poche ore. Poi c’è il risveglio. Per ottenere allora la povertà contenta non servono i palliativi della filosofia pagana, c’è bisogno d’una sapienza divina. C’è bisogno di giudicare povertà e ricchezza in modo del tutto diverso, opposto alle considerazioni che fa il mondo su tali questioni, allontanandosi dai giri di pensiero dei vari socialismi, abbandonando il peggiore dei luoghi comuni che vuole Gesù un socialista sui generis e ante litteram. Solo il vangelo, ripete il padre Bartoli, dischiude alle gioie della povertà, alla bellezza della povertà. Il vangelo, suggerisce sornione il gesuita, è il ladro che vi deruba di tutto, e così facendo vi fa entrare in un altro regno. L’agitazione per le paghe, per una impossibili giusta redistribuzione, nel libro del dotto ferrarese non compare; lo scopo della vita è accumulare tesori in cielo (Mt. 6, 33), non c’è un solo passo nei quattro vangeli che si occupi di salari se non come di metafore per cose celesti.

Cartagine, allo stesso modo delle altre capitali delle civiltà affondate, offre al Bartoli uno spunto per un «teatro di rovine» che diventa  «un porto di consolazioni» per «i Poveri contenti che non hanno nulla nel mondo». E il prosatore seicentesco ci mette sotto gli occhi «una gran selva di colonne recise e sparse per la incolta campagna co’ dimezzati e laceri tronchi; quivi informi membra di statue smembrate e infrante, e grandi ossature di smisurati colossi […] le torri abbattute, quasi cadaveri di giganti; gli archi una volta trionfali […] con le giunture scommesse, non ancora rovinate perché lungamente rovinino. Per tutto montagne di marmi, cataste di ossa incenerate…» (Manzoni lo riecheggerà nei suoi «Fori cadenti»). È il memento mori della storia, rivolto a popoli e sovrani, che intacca la fiducia nella ricchezza, non i moralismi del sentimentalismo piccolo borghese. Il teatro delle umane vicendevolezze potrà pure stimolare e far approntare degli accorgimenti per stabilizzare il più possibile il mondo, secondo il realismo romano che dall’Impero trasmigrò alla Chiesa, ma al di là di tutte le umane accortezze, resta il fatto che il trionfo del tempo sconfigge ogni bene immobile (il solo chiamarlo così è un eufemismo per esorcizzare ogni forma di terremoto), inflaziona la più aurea delle ricchezze. Questa è saggezza: vanità del mondo, come sta scritto nei conventi, come hanno predicato dai pulpiti. Nulla a che vedere con le utopie della piena occupazione o piena ricchezza, burocraticamente distribuita, secondo i sogni terribili seguiti alle peggiori sbornie della storia. Questa è anche la grande consolazione offerta ai ricchi: saper perdere tutto con l’eleganza di un gentiluomo a un tavolo da gioco, di un monaco superbo della sua tonaca grossolanamente tessuta. La Chiesa ha insegnato ai potenti che la loro fortuna è assai breve, «vede sera, e cade», sicché lo scettro d’oro è «fragile canna» (non c’è proprio bisogno di farlo d’argento per ostentare l’ ‘eretico’ pauperismo), la gerarchia della tradizione non scambiava pareri con quei potenti per «dar lavoro ai giovani» ma per difendere il giorno festivo dal travaglio sempre uguale, dalla circolarità pagana. La predica bartoliana dice della «comune instabilità delle cose». Ritorna possente l’immagine: «Quante città ha consumate il tempo; sì che vecchie decrepite, diroccandosi sopra sé stesse, son divenute sepolcri de’ lor proprj cadaveri? Quante ne ha incenerite il fuoco; nè mai, come Fenici risorte sono dalle infelici reliquie, che al loro distruggimento avanzarono? Quante ne ha inabissate i tremuoti, ingojati i mari, distrutte le guerre? Ora gli armenti pascolano dove un tempo furono Popoli». La morale cattolica pretende qualcosa di stabile di fronte allo spettacolo spaventoso dei crolli di tutte le civiltà, di fronte agli «spettacoli di maraviglia» che diventano «spettacolo di compassione», come i sassi sconnessi che «minacciano [rovina] a chi lor passa vicino». Chi era re oggi è uno schiavo, il diadema reale di un tempo diventa oggi capestro. L’accusa alla Chiesa di Roma d’esser stata al servizio dei potenti è quanto di meno fondato, una voce severa ha invece ricordato a chi aveva in mano il mondo che possedeva solo vaghe ombre, una voce amorevole ha ricordato ai poveri che nel regno cristiano c’è la ricchezza che conta.

Ecco la fonte della contentezza dei poveri: che «niuno è esento del perdere». Non hanno nulla da perdere, delle catene – avrebbe forse obiettato padre Bartoli a Marx – non è possibile liberarsi una volta per tutte; ogni esistenza ha i propri vincoli. E Marx, per far tornare i suoi conti sugli operai in peggior stato degli schiavi, sembrò riprendere un’altra frase del gesuita (che probabilmente mai lesse e di cui neppure seppe del passaggio su questa terra): «Quanto di peggio è, portar le catene dell’anima, che al piè?». Nonostante la casuistica tanto vituperata dagli spiriti più rigidi del Seicento, il sacrificio è al centro del discorso del gesuita: «sapersi volontariamente privar d’un piacere è maggior piacere, che lasciarsi vincere dal suo desiderio e gustarlo». C’era probabilmente anche un sentore di stoicismo, grande infatti era la fortuna di Seneca in quel tempo, non soltanto come autore teatrale. «Povero e libero, cioè padrone di sè medesimo e della sua quiete», contrapposto a «ricco ne’ forzieri e angustiato nel cuore». Così, per secoli, anche il Magistero di Roma.

«Infinita è la turba di quegli che, come gli antichi Romani, secondo il rimprovero di Mitridate, sembrano allevati e cresciuti alle poppe d’una lupa vorace, onde hanno Luporum animos inexplebiles» (Justin, lib. 38); a’ quali tanto cresce la fame, quanto divorano».  Questo incunabolo del consumismo dovrebbe essere esposto dai pulpiti d’oggi invece di eccitare le masse ai riti lavorativi, alla fatica che non ammette tregua e che in tutto si meccanizza per comprarsi vacanze e automobili, villette a schiera e feticci alla moda, o per accedere a discoteche dove dimenarsi come hanno fatto turpemente i vescovi a Rio davanti ai ragazzi (tutte piccole tentazioni del mondo, certo, che Madre Chiesa Romana perdona innumerevoli volte, ma sarebbe stupido se le additasse a modello, confondendole con la dignità della umana persona).  Ce n’è anche per il liberalismo: «… in poco d’ore uno è ricco, e poi mendico; prima ignudo poi con le spoglie di tutti: indi nulla rimane a chi ogni cosa possedeva». Il sermone indica la «disgraziata sorte del lavoro», le insane attività umane per far soldi, da chi si cala in miniera a chi va a cercare oro, dai pescatori agli agricoltori. Si dirà giustamente che la Chiesa non si rivolge a dei monaci, conforta tutti, anche gli uomini carnali sono figli amati: e si conceda infatti molto anche a loro, li si assolva per questi malsani appetiti, ma si spieghi al contempo che cos’è la vera vita, ci si affanni a non ridurre tutto alla «bocca e pancia» più una spruzzata di spirito. «Che vivere è cotesto?», direbbe loro il padre Bartoli. Mostrava inoltre che anche chi è mosso dalla cupidigia vorrebbe godersi «quell’immenso che adunano, quell’infinito che bramano», e che dunque l’anelito è santo ma va guidato dalla sapienza e fermezza.

La Povertà invece, con la maiuscola come la scriveva lui, «è esente dal tormento dell’acquistare, dalla sollecitudine del mantenere, e dalle doglie del perdere». Il capitolo quarto è dedicato all’esposizione del lato positivo della povertà. Il passaggio più difficile. Descrive in realtà, con l’aiuto dei classici e dei Padri della Chiesa, più il filosofo, l’uomo libero e padrone della sua volontà, che il povero in carne e ossa, vittima delle circostanze (ma il povero che accetta pazientemente, cristianamente appunto,  le circostanze avverse diviene eroico e filosofo). Su questa terra il povero e il ricco sono ambedue scontenti e per conquistare un po’ di contentezza i poveri devono comprendere l’aspetto bello della loro parte e i ricchi si devono spogliare delle loro false certezze e accostarsi all’esperienza della povertà, il missionario perciò non si stancherà di indicar loro questo modello ideale.  Come siamo distanti dal pensiero calvinista che fotografa il reale e lo giustifica con una versione teologica atta a confermare il povero nei suoi aspetti peggiori e ‘maledetti’ mentre esalta il ricco nella ascesi vana verso un sempre maggiore arricchimento che non dà acquietamento  alcuno, accentuando anzi l’inquietante dubbio interiore. Trovare del buono in ogni cosa, pure per sorella Morte corporale, è infatti proprio l’essenza del cattolicesimo, la realizzazione dell’idea che il mondo è stato creato da un Dio Amore per cui amabilissima appare la sua creatura. I grandi patrimoni sono comuni: la luce, le stelle, i prati fioriti, ossia i tesori che la natura offre a tutti indistintamente. Sono i «barbari d’Occidente», cioè gli amerindi, che «hanno la fermissima opinione, che la bellezza non sia dono di natura, ma guadagno d’industria, nè si porti seco nascendo, ma si acquisti vivendo e lavorandosi il corpo, come gli scultori le statue. Perciò con varj sughi d’erbe e di fiori, dal capo al piè tutto si dipingono a lunghe strisce il corpo […], si traforano il labbro inferiore, e molte e grosse anella v’appendono, […] si piantano su pel corpo mille penne d’uccello […]. Dunque colà il bello d’un uomo consiste nel non aver punto dell’uomo». Oggi si ricorre ai tatuaggi ritenendo che la natura vada abbellita dal momento che un mediocre demiurgo l’ha creata. Al Bartoli la critica dei barbari che privilegiano le aggiunte, il posticcio, serve a evidenziare la follia di considerare gli umani non per i talenti naturali bensì per l’artificio, per la ricchezza che si possiede. Barocco ben temperato è nel migliore dei casi l’atteggiamento dellacclamato prosatore che si dichiarò contrario a quello «stile che chiamano moderno concettoso». L’artificio comunque valeva soltanto sul piano retorico, la natura avendo un ruolo centrale in tempi di riscoperta del giusnaturalismo.

Guadagnarsi il cielo: è l’imperativo che ricchi e poveri devono rispettare. I primi, che sanno come si guadagna, che son maestri nell’arte degli affari, non si vorranno certo perdere quello che è il maggiore che possa loro capitare; i poveri, pur non possedendo il sapere dell’arricchirsi, possiedono però lo spirito paradisiaco, e privi di ingombranti ornamenti e di trippe, hanno il peso giusto, sono pronti per varcare agilmente la porta stretta.

Dopo aver spogliato i ricchi delle loro boriose vesti, dopo averne messo in risalto il carattere di maschera che nasconde più intima miseria, il predicatore ricorda come la povertà fu fatta «nobile e onorata» da Cristo, È l’originalità del cristianesimo, il suo distanziarsi da tutti i giudizi del mondo che innalzano  sempre la ricchezza. Ma stare dalla parte dei poveri non significa consigliarli affinché si arricchiscano, accarezzando la loro cupidigia nascosta o frustrata, al contrario, esaltare il distacco dalla ricchezza, favorirne la liberazione. Il valore della povertà predicava san Bernardo, non il suo superamento. Se al giorno d’oggi tale predica appare inattuale è perché il cristianesimo è quanto di più lontano dal processo di arricchimento universale e disperato che chiamiamo modernità. A furia di aggiornamenti, al messaggio evangelico, in questi ultimi cinquant’anni, hanno cambiato i connotati. La Chiesa dei poveri sembra sparita, sostituita da un’organizzazione che predica un paradiso prosaico dove tutti abbiano il loro piccolissimo benessere materiale. Il padre Bartoli costruiva una prosa straordinaria per raccontare la soavità della grazia dei poveri, della beatitudine della povertà, della «ricchezza di avere Dio».

Tutti gli uomini aspirano alla felicità, dai re ai contadini, ma tutti trovano l’inquietudine di cui parla Agostino finché non trovano Dio. Dal momento che, secondo il vangelo, i poveri per il loro stato hanno qualche chance in più di vincere tale inquietudine, scilicet di trovare Dio, i cristiani compatiscono i ricchi e non i poveri come invece è invalso fare negli ultimi tempi in ogni parrocchia dell’Occidente. La povertà contenta è qualcosa che sfugge al mondo, al discorso dei media ma, per il sermone d’antan, i poveri con gli occhi fissi al cielo credono di trovare lassù le comodità e i beni che mancano quaggiù. Ancora una volta, la concezione cattolica ha una sua doppia spazialità, il cielo e la terra che si riflettono e che si distinguono, mentre la Chiesa aggiornata conosce soltanto la dimensione temporale. Adesso ogni allusione all’Aldilà è imbarazzata, spoglia in ogni caso di dettagli, men che mai si accenna ai piaceri celestiali, così la morale è confinata sulla terra: si deve operare il bene per kantiana virtù, ove la Chiesa romana aveva sempre insegnato che una tale virtù è quanto meno chimerica… Ma che cosa resta dell’idea di Dio se la si separa dalla contemplazione della bellezza e la si confina nell’oscurità interiore? E come si può riflettere cristianamente sulla morte – e sulla povertà che ne è fenomeno, come andava dicendo l’ingegnoso gesuita – se la si separa dal trionfo celeste di Dio e dei suoi?

Procede quindi il Bartoli a un «esame delle ribalderie, e processo de’ misfatti dell’Oro». L’esame si apre con l’immagine dell’oro che pesa più della verità sulla bilancia della giustizia. In questo decimo capitolo si elencano i mali dell’oro in contrasto con il suo fulgore, l’immane dislivello che produce nella vita degli umani. Ma non sciorina i luoghi comuni degli invidiosi. Riconosce anzi che il martirologio della carne, i morti per il denaro sono forse più di quelli per il Cristo. Non ci offre spiegazioni facili. Non è semplice scrutare il cuore occupato dall’oro. Perché la felicità non segue mai l’arricchimento? – si chiede il sacerdote che appartiene all’ordine dei confessori dei re. Se il denaro spegnesse la sete…

Come per ogni buon predicatore, arriva il momento di deprecare il lusso. Dietro il suo luccichio è lo scheletro a risplendere, l’immagine barocca sinistra che svela il fondo macabro, che smonta ogni trionfo della carne. Lo sfarzo rinascimentale va confinato alla liturgia, tutto il resto è segnato da una specie di lutto, e gli umani prendono a vestirsi di nero, laici e preti. Vanità del fasto, o meglio rivelazione del trionfo della morte.

I ricchi sono «emendatori della natura», schiavi dell’artificio, i poveri al contrario si attengono al dato naturale, alla veste senza orpello, al talento che Dio distribuì misteriosamente. Uno splendore nascosto, una sprezzatura, difficile da cogliere, simile al bianco dei gigli di campo. Negli ultimi secoli c’è la pubblicità a tentare i poveri, astuta come un serpente e semplice come una colomba.

Colpo di scena al capitolo XIV, ovvero «chi sa esser Ricco e Povero, può esser Ricco e Santo». La religione cattolica non va confusa con l’ufficio delle tasse e men che mai con un soviet, non somiglia neppure a un surrogato addolcito e moderato di questi due uffici. L’oro infatti non è nocivo per natura, di esso non si faccia né idolo né demonio. Trasformato dal vangelo che ogni cosa rovescia, può divenire «strumento efficacissimo per l’acquisto di non ordinarie virtù». E si può essere «tanto più Santo quanto più Ricco». A cominciare dall’Arca santa e dai candelabri biblici che risplendevano d’oro finissimo, gli aurei rivestimenti e le pietre preziose non sono in contraddizione con la povertà cristiana, anzi diamanti e zaffiri e rubini rappresentano il simbolo delle migliori virtù. Le pietre preziose decorano il manto sacerdotale ed è meglio ricorrere ad esse per sì alto compito che «a più vile materia»: «tale è l’onore che a Cristo rende la santità dei ricchi». Molti «carati di bontà» possiede allora l’oro. Talvolta un «un abito vile», con portamenti «senza alterigia né fasto», più che «elezione di virtù» indica «necessità di impotenza». È facile del resto apparire miseri quando si è davvero miseri. Ben più impegnativo – secondo l’elegante gesuita – è «nascondere il ciliccio sotto le sete e la porpora» e «nelle pompe, nella copia d’un patrimonio reale mantenere un animo umile e dimesso; questa è virtù da gigante». Con la ricchezza dunque ci si può «comprare il cielo». Così dicendo, precisa tuttavia il Bartoli, «non vorrei aver tolto a’ Poveri l’animo, mentre l’ho dato a’ Ricchi». Tra i beati sono alla pari sia chi, essendo ricco, volle farsi povero, sia chi, essendo povero, non volle farsi ricco. Si può abbondare d’oro e non avere altro che Dio così come si può essere stoltamente poveri e non pensare ad altro che alle ricchezze mancanti e struggersi dal desiderio di esse. I ricchi possono essere i «Limosinieri di Dio» anche se la santità sarà più a portata di mano dei poveri. Infatti si è più liberi nella povertà mentre i ricchi devono fare grandi sforzi per raggiungere tale libertà.

Di ricchi  si parla anche nel capitolo successivo ma piuttosto come di «coloro che in questo teatro del mondo faceste il personaggio del ricco». Giunge poi la morte e  bisogna lasciare per forza gli abiti di scena, l’oro e i possedimenti. Non restano che lacrime per quelle cose che si è costretti a lasciare: tale è la sventura dei ricchi poco avveduti nella conclusione della vita. Qualcuno, come per esempio Enrico VIII re d’Inghilterra – racconta il gesuita – si ubriacò perché non riusciva a sopportare questa scena finale degli addii. Spesso chi visse da beato morì impoverito, dopo aver perduto cioè tutte le sue illusioni.

Più simili ai giusti sono i poveri, la loro morte appare dunque «consolata» per dover lasciare questa valle di lacrime, «non è perdita ma guadagno». Come il sole che si tuffa lieto nelle acque, sicuro di «risorgere a più bello orizzonte», i poveri conoscono un felice tramonto per «risorgere in un altro più beato emispero», dove il tempo si perde nell’eternità.

Resta il sepolcro, quello monumentale e la fossa. Ma tutta la gloria delle belle tombe non vale la speranza che aleggia sulle più umili sepolture dei poveri. Fino alla riforma liturgica prodotta dal Vaticano II, durante i funerali le bare degli aristocratici venivano poste sul nudo pavimento, mentre quelle dei comuni mortali salivano sul palco solenne, quel catafalco che rinvia alla gloria degli umani che vissero anonimamente. Un solo dettaglio liturgico del rito tradizionale compendiava il volume del nostro grandissimo prosatore, libro che dedicò nell’ultima pagina a coloro che sono straziati dal bisogno, alla milizia dei poveri cui era promesso il Regno, non un banalissimo stato garantito dai diritti sindacali.  

In tempi di inflazione della parola ‘povero’, va ricordato che la Chiesa esalta la frugalità, l’ha sempre esaltata sulla terra, anche quando esibiva le più preziose vesti liturgiche, perché la liturgia introduce al cielo, ne è un abbagliante specchio quaggiù. I ricchi non si criticano per partito preso e tantomeno per invidia che è «carie delle ossa» (Pr, 14, 30), «peccato diabolico per eccellenza», dice Agostino, vizio capitale. Né la Chiesa si cambia mai in un sindacato, attenta alle regolette dello scambio. Resistette anzi per lungo tempo al mercato e pareva un miracolo. Il lavoro è una conseguenza del peccato, una pena secondo biblica spiegazione. Misericordia invoca la sposa di Cristo, generosità reciproca nel mondo dei mortali. La Caritas sovraintende alla Catholica, e Caritas è virtù teologale: si spinge fino al sacrificio di sé. I diritti proclamati dalla Rivoluzione borghese non contemplano simili estremi; ma il rispetto per la vita, per la dignità dei non abbienti erano stati affermati da Paolo III di fonte agli spagnoli laici che consideravano gli indios dei non umani in modo da poterli fare schiavi. La Chiesa anticipava la sensibilità laica, faceva salvi gli schiavi, fa salvi i feti.  
    
Anche un pensatore che accreditano come marxista parla in modo meno sociologico di qualche successore di Pietro. Walter Benjamin in Erfahrung und Armut (Esperienza e povertà) accennerà a «un nuovo positivo concetto di barbarie». E se è talvolta ambiguo nello strizzare l’occhio alla tabula rasa delle avanguardie (e terribile risulta  nel salutare con gaudio gli arcaismi di ritorno nell’anno fatale del 1933), è toccante quando  dietro l’ambiguità della parola ‘barbarie’ vuole richiamarsi soprattutto alla povertà che titola il saggio. Vi si cita anche il Bertold Brecht ideologico che precisava come il comunismo «non sia la giusta ripartizione della ricchezza ma della povertà» (la risata cinica del drammaturgo d’Augusta suona però sinistra sugli effetti spaventosi di una tale ripartizione: carestie, antropofagia…). Benjamin in quelle quattro paginette voleva elogiare la rinuncia, pur rischiando strada facendo di sottomettersi al nichilismo, alla disumanizzazione completa: senza la promessa del Paradiso simili discorsi conducono tutti alla Einbahnstraße, alla strada a senso unico in fondo alla quale non c’è che il bianco ossario.

Abbiamo letto del diadema reale che si tramuta in capestro. Questo per bocca di un rappresentante dell’ordine più ‘cortigiano’ che ci sia mai stato (nel senso che ai gesuiti fu affidato il compito di educare i prìncipi destinati al trono e i nobili in genere), questo ripetevano gli educatori dei sovrani, finché gli stessi sovrani nei tempi moderni li allontanarono dal trono, dalle loro corti e dai loro cuori,  chiedendo a un papa debole lo scioglimento della Compagnia. Allora, scrisse Dostoevskij, i gesuiti si sarebbero schierati, come per vendetta storica, con i popoli ribelli, e in qualche modo vide giusto. Forse sulla sua scia, Thomas Mann, nella Montagna incantata, schizzò la figura di Leo Naphta, gesuita e rivoluzionario invaghito del terrorismo, con le fattezze di Lukács.  E il filosofo ungherese, del resto, il giovane Lukács, aveva parlato – prima di farsi apostolo della ‘scienza’ staliniana –  di «povertà nuovamente ricca e beata».

domenica 21 luglio 2013

L'invettiva premurosa

~ «SU, PAPA, RESISTI AL MONDO!» ~
~ COSÌ I SANTI FACEVANO CORAGGIO AL PASTORE ~

I vecchi roncalliani, devoti come sono al processo storico lineare, al progressismo obbligato, non speravano più nel ritorno di certi discorsi pronunciati dal balcone apostolico (o dai suoi dintorni, dalla sua dépendance) e di certi entusiasmi laici (magari assai interessati, al pari di quelli sovietici per il ‘papa buono’), insomma non si rendevano conto – nonostante se lo fossero ripetuti con enfasi – che lo Spirito soffia dove vuole e manda all’aria i progetti degli umani, i sogni come gli scoramenti, gli incubi come il sempreuguale. Nel frattempo, convinti che non restasse loro che la critica, la esercitavano con malignità e con estraneità nei confronti di Roma, in particolare si scatenavano contro il nobile e mite papa tedesco, almeno finché egli non si fece da parte ottenendo il plauso scostumato di tutti i suoi avversari. Cosicché quando dalla sponda tradizionalista, sgomenti per il doppio colpo subìto (le dimissioni e la soluzione a sorpresa uscita dal conclave) si provò ad avanzare qualche timido rilievo alle novità subito introdotte; quando tra mille distinguo e patetici tentativi di salvare qua e là una parola o un gesto, apparvero esterrefatti per questo disamore del «Vescovo» verso la storia della Chiesa (e non in una dimensione apocalittica che vanifica il passato di fronte all’ora decisiva, tutt’altro), furono immediatamente redarguiti dagli esultanti fedelissimi del Vaticano II e addirittura zittiti con richiami alla disciplina cattolica, all’obbedienza dovuta al pontefice. Tutti santi sarebbero a questo punto i papi degli ultimi secoli, e nessuno osa più polemizzare con loro apertamente, richiamandosi piuttosto a untuose regole mondane pur essendo scomparse da tempo in Vaticano tutte le pompe. In secoli che si considerano oscuri e pericolosi per le libertà civili, uno come Dante, il sommo scrittore cattolico, non temeva di schiaffeggiare in endecasillabi un papa (prima dello schiaffo vero e proprio che gli emissari del re di Francia impressero sulle auguste guance), addirittura lo giudicava dannato e lo schiaffava all’Inferno ante mortem, dunque ancora regnante. Anzi, mise all’Inferno, o quanto meno al suo ingresso, anche il predecessore Celestino V perché con le sue dimissioni, giuridicamente a posto ma sovversive della continuità apostolica in cui i pontefici portavano il testimone fino alla morte, aveva rotto l’ordine millenario e fatto salire sul trono di Pietro un papa che in qualche modo mutava il ministero petrino. Allora, quel che era lecito nel Medioevo (accuse sì sonore), o che comunque non scandalizzava più di tanto, risulterebbe impossibile nell’epoca della dissacrazione totale? Ma questa è finzione poetica, si obietterà, ferocia politica che assume forma letteraria, non può servire da modello per la cattolicità adulta o decrepita.

E Paolo allora, apostolo adottivo, che attaccò senza mezzi termini il principe degli apostoli? E se a prendersela con il papa è una santa, una vita esemplare (come è sempre la vita di chi sale alla gloria degli altari) e una dottrina fuori del comune (al punto d’essere una delle quattro ‘dottore della Chiesa’)? Naturalmente stiamo parlando di Caterina da Siena. Quando il papa appariva troppo indulgente verso il suo gregge, la giovane senese terziaria domenicana (Caterina visse appena trentatré anni) osava scrivergli (meglio: dettare, ché la santa era analfabeta): l’amor proprio anche di un papa fa sì che i fedeli «non li corregge; o se pure li corregge li corregge con tanta freddezza e tiepidità di cuore, che non fa cavelle [aliquid], ma è uno l’impiastrare il vizio e sempre teme di non dispiacere, e di non venire in guerra. Tutto questo è perché egli ama sé. E alcuna volta è che essi vorrebbero fare pur con pace; io dico che questa è la più pessima crudelità che si possa usare. Se la piaga, quando bisogna, non s’incende col fuoco, e non si taglia col ferro, ma ponesi solo l’unguento; non tanto ch’egli abbi sanità, ma imputridisce tutto, e spesse volte ne riceve la morte». E il papa, il francese Gregorio XI, miracolosamente la stava ad ascoltare, le dava retta.

Il pontefice romano era stato oltraggiato con lo schiaffo francese ma i successori di Bonifacio per rispetto del mondo, per paura della sua potenza, si dedicarono allo schiaffeggiatore, ne furono feudatari e ostaggi, trasferirono la sede di Pietro in terra d’oltralpe. Caterina tempestava Avignone di epistole nelle quali affrontava con carità cristiana le timidezze di quello che, viste le circostanze, non si poteva più chiamare ‘il vescovo di Roma’ ma a cui la santa si rivolgeva con il più compromettente appellativo di ‘Vicario di Cristo’. «Scrivo a voi nel prezioso sangue [di Cristo]; con desiderio di vedervi uomo virile e senza alcun timore servile». E in coda una volta aggiunse a mo’ di minaccia profetica: «Maladetto sia tu, che ’l tempo e la forza che ti fu commessa, tu non l'hai adoperata». Riportare il papa a Roma era la parola d’ordine, contro la corte pontificia che argomentava con sapienza ed eleganza e talvolta impaurendo il povero Gregorio con i pericoli che lo aspettavano sul Tevere. Che un ardore di carità – replicava la donna – «non vi faccia udire la voce dei demoni incarnati [cioè dei curiali], e non vi faccia temere il consiglio di perversi consiglieri». Instancabile, Caterina insisteva con le sue esortazioni al coraggio che spetta all’uomo: «Su, virilmente, padre! Ch’io vi dico che non bisogna temere». O più soavemente: «Pregherò il dolce e buon Gesù che vi tolla ogni timore servile, e rimanga soltanto il timor sacro». Una volta, il capitolo domenicano si riunì per discutere di queste lettere: a qualcuno con la mania psicologistica sembrava che l’audace senese fosse malata di protagonismo, ma al consesso dei padri predicatori parve che la loro consorella fosse bene illuminata dall’alto dei cieli.

Riportare il papa a Roma era il primo punto della missione cateriniana e la missione andò in porto, Gregorio tornò sulla tomba di Pietro, ma subito dopo la santa agitava la questione della crociata contro il mondo islamico. Ricordiamo che i Dottori della Chiesa sono quelle figure straordinarie che per la loro dottrina integrano il magistero dei pontefici, dunque anche su quanto andava dicendo in materia bellica conviene riflettere rispettosamente, senza sorrisini post-moderni: «Pigliate l’arma della santissima croce che è la sicurtà e la vita dei cristiani», Gesù stesso – riferisce l’interlocutrice del papa – nelle visioni concesse alla santa così le si rivolgeva: «or ti dico, ch’io voglio che egli [Gregorio XI] levi la croce santissima sopra gli infedeli». Martellava l’orecchio papale con il ritornello: «rizzare il gonfalone della santissima croce sopra gli infedeli». Allora, una volta riconquistato il Mediterraneo, gli diceva, «potrete ministrare il sangue dell’Agnello nelli tapinelli Infedeli; perocché voi siete il cellario [il cantiniere] di questo sangue e che ne tenete le chiavi». Non si parlava in tali dialoghi santi di ‘collegialità’. Quanto all’amore cristiano verso tutti, mentre qualcuno consigliava al papa con paradosso mistico di trasferirsi tra gli infedeli, Caterina spiegava: «Non vi consiglio però, dolce padre, che voi abbandoniate quelli che vi sono figliuoli naturali, e che si pascono alle mammelle della sposa di Cristo, per li figliuoli bastardi, che non sono ancora ligittimati col santo battesimo; ma spero per la bontà di Dio, che andando e’ figliuoli legittimi con la vostra autorità e con la virtù divina del coltello della parola santa, e con la virtù e forza umana, essi torneranno alla madre della santa Chiesa, e voi li ligittimerete. Questo pare che sia onore di Dio, utile a voi, onore ed esaltazione della dolce sposa di Cristo Gesù; più che seguitare il semplice consiglio di questo giusto uomo, che vi pone, che meglio vi sarebbe, a voi e ad altri ministri della Chiesa di Dio, abitare fra gl’infedeli Sarraceni, che fra la gente di Roma o d'Italia». ‘Illegali’, ‘clandestini’, le sarebbero parsi termini insulsi, l’unica legittimazione era per lei quella del battesimo.

Standole la questione particolarmente a cuore, ricorreva a metafore materne per fortificare il padre: «A me piace la buona fame, che egli ha della salute degl’infedeli; ma non mi piace che egli voglia tollere il padre alli figliuoli legittimi, e il pastore alle pecorelle congregate nell’ovile. E mi pare che voglia fare di voi, come fa la madre del fanciullo, quando li vuole tollere il latte di bocca che si pone l’amaro in sul petto, acciocchè senta prima l’amaritudine che il latte; sicchè per timore dell’amaro abbandoni il dolce: perchè ’l fanciullo s’inganna più con l’amaritudine, che con altro. Così vuole fare costui a voi, ponendovi innanzi l’amaritudine del veleno e della molta persecuzione, per ingannare la fanciullezza dell’amore tenero sensitivo, acciocchè per paura lassiate il latte; il quale latte di Grazia séguita dopo il dolce avvenimento vostro. E io vi prego da parte di Cristo crocifisso, che voi non siate fanciullo timoroso, ma virile. Aprite la bocca, e inghiottite l’amaro per lo dolce. Non si converrebbe alla vostra santità d’abbandonare il latte per l’amaritudine. Spero per la infinita e inestimabile bontà di Dio, che, se vorrete, vi farà grazia, a noi, e a voi; e che voi sarete uomo fermo e stabile, e non vi muoverete per verano vento, nè illusione di dimonio, nè per consiglio di dimonio incarnato; ma seguiterete la volontà di Dio, e il vostro buono desiderio, e il consiglio de’ servi di Gesù Cristo crocifisso». Grande pietà verso gli altri mostrava Caterina, centrale era la salvezza degli infedeli ma primaria la cura dell’ovile-ecclesia di cui il papa era il pastore.

Nell’ultima epistola a Gregorio, incoraggiandolo come al solito, si lasciava andare a un’affermazione che a noi in questi tempi risuona suggestiva: «dovete usare le virtù e le potenzia vostre: e non volendole usare meglio sarebbe rifiutare quello che è preso: più onore sarebbe e salute dell’anima vostra sarebbe». Ovvero, a differenza di Dante, la santa Dottora riteneva che nel caso il papa si sentisse venir meno il coraggio per governare degnamente la Chiesa affidatagli, sarebbe opportuno ridare indietro la potestà delle chiavi di Pietro, insomma parlava di onorevoli dimissioni.

(Tutte le citazioni sono tratte da Lettere a papi e cardinali, a c. di G. Pensabene, Roma, 1968)

venerdì 19 luglio 2013

Tristi arti

~ FLAUBERT E I SIMPSON PER DISTOGLIERE
DA UNA VISITA ALLA BIENNALE,
NONOSTANTE IL PADIGLIONE DI SUA EMINENZA ~

«Il Corriere della Sera» in un sussulto encomiastico ha pubblicato una stroncatura del pensiero critico conservatore, quello che resiste agli ultimi colpi inflitti dalla Modernità (sia pure in modo maldestro per i troppi traumi subìti). E con la confusione delle polemiche giornalistiche si strizzava l’occhio al lettore, cercandone la complicità dal momento che prendeva di mira l’intellettuale (che invero è una figura progressista) e ne sottolineava con facile gioco l’aspetto macchiettistico, il tutto per ripetere quella «glorification historique de tout ce qu’on approuve», come sintetizzava, al solito splendidamente, Flaubert a Louise Colet, una delle prime volte in cui provò a parlare all’amante del suo Dictionnaire des idées reçues. Del resto che altro può fare il più venduto dei giornali italiani se vuole mantenere il suo gigantesco pubblico? Deve appunto dimostrare che «le maggioranze hanno sempre ragione e le minoranze torto», immolando democraticamente «i grandi a tutti gli imbecilli, i martiri a tutti i carnefici, e questo in uno stile spinto all’eccesso» (citiamo sempre della lettera flaubertiana che risale al 1853). Anche nelle pagine culturali si ritrova la stessa «apologia dell’umana canagliata». È ancora il romanziere a spiegarlo: «Così, per letteratura, il che verrà facile, stabilirò [nel Dictionnaire] che il mediocre, risultando alla portata di tutti, è il solo legittimo, e che bisogna dunque disonorare ogni genere di originalità come pericolosa, insensata, ecc.». Figurarsi nelle arti che non si vogliono più belle, nel visivo che pretende tralasciare il legame con i sensi (vista compresa) per saltare nel concettuale: probabilmente Flaubert troverebbe troppo malinconico un dizionario di tali gesti e ancor più delle parole che li commentano.

Se un giornalone ambisce a cancellare ogni soffio critico, un piccolo «Foglio» può rilanciare, replicando ai venditori del progressismo; magari per evitare d’essere accomunato ai cavillosi messi alla berlina dal «Corriere», Alfonso Berardinelli replica concordando con il fastidio provato da tutti nei confronti delle contorsioni intellettuali e perciò taglia corto, forse un po’ troppo corto per i nostri gusti, secondo un metodo leggermente avanguardistico, definitorio, assertivo, proclamante alla maniera dei ‘manifesti’ di un tempo, ma la sostanza è sottoscrivibile: «in materia di belle arti sono così ‘moderno’ da ritenere che dopo il 1960 nessun artista, in nessuna delle arti tradizionali (letteratura, musica classica o d’avanguardia, pittura e scultura) abbia superato un regista come Stanley Kubrick. Ma non riesco a considerare graffiti e tatuaggi come una novità artistica e di costume paragonabili alle avanguardie di primo Novecento, per quanto potessero scivolare ogni tanto in una geniale imbecillità. […] Mi pare per esempio che una serie televisiva come ‘I Simpson’ sia superiore al novanta per cento dell’arte (suppostamente d’élite) offerta al pubblico della Biennale di Venezia».

Discutibile la data cui fa risalire l’inizio del male contemporaneo, discutibile coinvolgere direttamente la letteratura e la musica, ma come non essere d’accordo sul fatto che viviamo in un periodo di arti fragili e tristi in ogni campo, con risultati estetici assai miseri. Checché ne pensi l’Eminenza culturale del Vaticano che ha voluto partecipare alla «canagliata» veneziana, una visita alla Biennale è esercizio frustrante, volto a ingannare i semplici che, convinti dagli altri media della nefandezza televisiva, dello strumento che l’altro ieri li alfabetizzò, accorrono in cerca di nuove forme di pellegrinaggio, di altri feticci da venerare.

lunedì 15 luglio 2013

Lo scimmione intelligente

~ L’OLTRAGGIO È ALLA CULTURA CATTOLICA ~

A tal punto si è affermata la dittatura del comico, la guerra della satira, la cultura dello scherzo stupido, che un senatore italiano ha prima oltraggiato una donna ministro – dimentico della regola che le signore di qualsiasi sangue siano non si insultano (villanzone longobardo!) – e poi si è scusato dicendo di celiare, credendo così di rifugiarsi in una enclave al riparo delle buone maniere. Dall’altra parte, chi difende la dama offesa, mostrando grande scandalo, dimentica che per i paladini del darwinismo – in gran schiera tra gli scandalizzati – la somiglianza con lo scimmione non è un’offesa bensì una verità scientifica, un dogma del sapere, l’icona che trionfa sulle arcaiche immagini bibliche. È dal tempo dell’illuminismo che si è messa in ombra la scena del Dio creatore dell’uomo «a sua immagine e somiglianza», scena raffigurata con somma virtù da Michelangelo nella Cappella Sistina, per sostituirla con un laboratorio dove gli scienziati procedono alla misurazione dei crani, dei nasi e della distanza degli occhi, via via fino ad arrivare agli incroci delle razze come se ne era parlato soltanto nei trattati di zoologia, teorizzando in modo lieve e allegro di uno «scimmione intelligente» che per qualche misterioso accidente governa l’universo ma che negli ultimi tempi, per paura di concedere ancora qualcosa alla metafisica, è visto sempre più come il frutto, al pari di altri animali, dell’onnipotente ambiente e delle formule chimiche, a loro volta risultato dell’evoluzione genetica. In quel sinistro laboratorio sembra esserci pure Kant, nonostante che per retaggio cristiano gli restasse ancora un’idea politica dell’eguaglianza, ma poi nell’osservazione della natura, nella libera ricerca scientifica, nella confusione tra animali e umani, veniva fuori la classifica delle razze (a quella negra, per il filosofo della coscienza, toccava l’ultimo posto). Anche in questo campo Kant ebbe un’influenza spaventosa sulla modernità. Sarebbe bastata un affermazione del medioevale Tommaso d’Aquino per vanificare questi razzismi biologici: «Natura fecit omnes homines acquales in libertate, non autem in perfectionibus naturalibus». La cultura cattolica lo ripete da millenni, quel che conta è la scelta evangelica, il verbo e il sacramento che liberano dalla necessità naturale – a cominciare dalla morte –, non le presunte perfezioni di una razza o dell’altra, non la bellezza o la bruttezza che la natura distribuisce malignamente. Ma ormai perfino sui banchi della scuola primaria si apprende che la comune origine è nello scimmione, l’antenato dunque un orango, logico se ne colgano le somiglianze. Lo sgarbo selvaggio naturalmente esisteva anche nel mondo pre-moderno e il sempliciotto faceva un facile accostamento ricorrendo all’epiteto di scimmia ma le similitudini animalesche non contenevano ancora il veleno biologico che i positivismi anticattolici hanno diffuso sulla terra. Perciò oggi una battuta si trasforma in uno sfregio.

Le battute però hanno una loro pesantezza di pietre anche quando sono pronunciate dai comici, i nuovi sacerdoti dell’etica laica e democratica attuale. I loro sermoni grevi vengono invece considerati sempre magistrali, ogni sboccata caricatura, ogni vile improperio è subito citato dai giornali come fosse una nuova apposizione riferita alla vittima dello sberleffo, offesa che in circostanze extra-buffonesche provocherebbe querele, condanne, riparazioni. Ma nell’inferno della risata (i Padri del deserto si immaginavano che nel Regno di Satana si imponesse una ridarella continua e demente), in quel ‘sacro’ capovolto che esige più rispetto di quello vero, nessuno osa mai prendersela per non incorrere nel peccato mortale di mancanza di ironia, nessuno salvo in certi peccati speciali, ovvero quelli che la sinistra considera tali. Basta per esempio che il comico abbia ‘generalizzato’ o come in questo caso che non si tratti di un comico bensì di un politico. E avanza l’idea ‘forte’ del «contesto», che nelle architetture intellettuali dei progressisti è tutto. Così se trovi un orinatoio in un negozio di sanitari è appunto un orinatoio, ma nel contesto di un museo e con la firma di Duchamp appare come un’opera d’arte; se un attore sghignazza su una deputata bellina e la ribattezza puttana è l’incarnazione della Vox populi, se un politico parla della bruttezza di una sua collega risulta un mascalzone maleducato. Anche la darwiniana «struggle for life and death» una volta tolta dal contesto biologico dove è considerata scienza purissima e trasportata sul piano sociale diventa «darwinismo sociale», espressione che a quelli del 'contesto' suona come una parolaccia.

giovedì 11 luglio 2013

Fiori nel Mediterraneo

~ SI CONCEDA A DEI DONCHISCIOTTESCHI
DI RICORDARE LE ALTRE VITTIME
DEL MARE CHE CI CIRCONDA ~

«In questa pietà popolare si guadagna in sensibilità e si perde in visione. Se sentivano meno, altre epoche vedevano di più, anche se vedevano con l’occhio cieco, profetico, insensibile dell’accettazione, vale a dire della fede. Ora in assenza di questa fede siamo governati dalla tenerezza. Una tenerezza che da tempo, staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas».
Flannery O’Connor, A Memory of Mary Ann, 1961

«Negli ultimi tempi, secondo Giovanni, gli uomini saranno “con parvenza di pietà ma rinnegatori di quel che ne è l’essenza vera” (2 Tm 3,5). E infatti mai come ora si riconoscono diritti a tutti, si nega la schiavitù, si parla della nobiltà dell’uomo, di giustizia di pace di libertà di fratellanza».
Sergio Quinzio, Diario profetico, 1958


Dedicando un po’ del lento tempo estivo alla rilettura del Don Chisciotte, si era giunti questo lunedì 8 luglio – ovvero proprio nel giorno in cui i media macinavano barchette, fuggiaschi, naufragi – ai capitoli XXXIX-XLI della prima parte del romanzo, dove si interrompono le avventure del folle hidalgo per narrare le più tragiche storie dei prigionieri di guerra, delle vittime dei saccheggi, dei bottini umani che a quel tempo i musulmani facevano tra i cristiani (talvolta con la complicità o la concorrenza di qualche cristiano). Cervantes conosceva la materia: arruolatosi da giovane nella guerra benedetta dal papa, era finito per capriccio della fortuna nelle mani dei mori subito dopo aver vinto la battaglia di Lepanto. Cinque anni nelle galere, remando in catene nelle navi facili al capovolgimento, di volta in volta venduto dai mercanti islamici di carne umana, dalla Grecia ad Algeri, sognando di tornare nel mondo cristiano. Uno dei massimi scrittori della letteratura che chiamiamo universale, un campione del canone occidentale, patì le sofferenze di decine di migliaia di uomini e donne che trascorsero parte della loro vita in cattività presso i nordafricani d’altra religione. Dal XVI secolo al XIX si contano un milione di martiri cristiani, un milione di morti. Nessuno lancia più un fiore per loro nelle acque mediterranee. Nessun pastore celebra il ricordo degli eroi che resistettero al rinnegamento della verità evangelica, gesto che avrebbe permesso loro un ritorno tra gli umani, secondo le regole ‘tolleranti’ dell’islam. Per lenire tali sofferenze perciò, per strappare quei giovani europei alle umiliazioni, alle violenze, ai ricatti, san Giovanni de Matha, seguendo le indicazioni degli angeli – raccontano gli agiografi – fondò la compagnia dei trinitari, con la missione di liberare gli schiavi cristiani. «In exitu Israël de Aegypto» è il salmo che cantavano i prigionieri appena liberati tornando in patria e andando a ringraziare solennemente Dio nelle chiese. Cervantes fu salvato proprio da un frate di san Giovanni de Matha. Francesco d’Assisi volle conoscere questo intrepido fondatore: gli diventò amico, condivise la missione, quell’amore per i fratelli in Cristo. In altra occasione, Francesco che non era un predicatore di sentimentalismo invocò battesimi di sangue, propose ordalie: non varcò il mare per compiacere i mori ma per testimoniare il vangelo anche presso di loro. Un fiore per il santo provenzale e un fiore per Francesco d’Assisi. E un fiore per san Pietro Nolasco, che organizzò l’ordine dei mercedari con il medesimo scopo di sottrarre uomini alla schiavitù islamica. Ma Braudel ricorda nel suo smisurato studio del Mediterraneo che anche prima di Maometto, dalle rive africane partivano attacchi di pirati pagani contro l’Europa e soprattutto contro la penisola italica che si distendeva verso quei lidi. Quante guerre e quanti morti nelle acque che i visionari ‘multietnici’ immaginano come un laghetto alpino, un pelago di dialoganti. Nel Novecento le fantasie degli europei che non inseguivano la modernità atlantica tornarono a concentrarsi sul bacino dove sorsero le nostre civiltà, sui loro dèi, le loro leggi, i traffici mentali che ci inorgoglirono. Da Ortega y Gasset, che ritrovava le abitudini socratiche anche sulle lontane coste spagnole, a Gottfried Benn che si inebriava delle colonie doriche e dei loro «cori oscuri». Anche chi stravedeva per gli islamici e ne venerava il monoteismo esemplare, il cattolico Louis Massignon arabista eccelso, pregando nelle notti mediterranee accanto all’eremita del deserto Louis de Foucauld (beatificato da Benedetto XVI), leggeva la storia tra i bagliori mistici e pensava a una missione silenziosa per far maturare i germi cristiani nascosti nel mondo musulmano.

Cervantes dunque fa dire a un nobile prigioniero che nel giorno della vittoria di Lepanto – in chiave autobiografica appunto sta parlando –, mentre si gioisce per la liberazione di quindicimila cristiani, viene fatto schiavo. Comincia una piccola serie di tormenti consueti nella condizione di schiavitù. I mori ‘tolleranti’, secondo la prassi dei rapitori ancora adesso in corso, premevano sui rapiti affinché scrivessero ai parenti per chiedere un riscatto, una somma cospicua che permettesse di riavere il giovanotto tenuto per anni alla catena, forzando magari un po’ le cose con tagli delle orecchie o delle mani che intenerivano chi in patria piangeva la loro sorte. I più poveri non avevano speranza, i più fieri non si piegavano al ricatto. La decapitazione o l’impalamento era il rischio di chi provava a fuggire. Ma c’era anche chi rinnegava la religione cristiana e diventava aguzzino dei suoi ex correligionari, occupando in poco tempo ruoli importanti, per la gioia degli apologeti degli ottomani che potranno farci riflettere ancora oggi sul potere multietnico che laggiù vigeva. Il narratore alla catena ricorda invece che «sebbene qualche volta, anzi quasi sempre, ci tormentasse la fame e non avessimo di che coprirci, nulla ci addolorava tanto come l’udire e il vedere ogni momento le orribili e inaudite crudeltà che il mio padrone [il rinnegato] commetteva sui cristiani». Cervantes inventa per la storia incastonata nelle avventure del cavaliere della Mancia un piccolo miracolo mariano e un piccolo miracolo d’amore a prima vista. Evangelizzazioni sottovoce di schiave cristiane che si rivolgono alle loro giovani padrone, lacrime di pentimento dei rinnegati, furbizie di altri rinnegati che desideravano tornare in patria e avevano bisogno di testimonianze scritte dei loro prigionieri per vantare un po’ di umanità, come nelle vicende dei campi della guerra mondiale, come nelle prigioni sovietiche. Dimenticata del tutto questa epopea mediterranea, questa epopea cristiana, cancellata dall’album dei ricordi, mentre già nella scuola elementare si riempie la testa dei bambini con le Crociate da dannare, senza un accenno a quell’ardimento per difendere i confini della geografia biblica, senza fornire le spiegazioni ideali che furono accampate nei secoli, riducendo invece tutto, come si fa oggi in ogni campo, a una faccenda di soldi. E senza avvertire grandi e piccini che una simile autoflagellazione dell’occidente, ovvero tanto spirito critico così introvabile altrove deriva pure da quel cristianesimo che ci ricorda a ogni piè sospinto di essere tutti peccatori, «mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa», come recita il messale tridentino, che prescrive anche di accompagnare le parole del Confiteor con il gesto di percuotersi il petto.

Ci si è dimenticati nel frattempo che, secondo il verbo coranico, cristiani ed ebrei erano una sottospecie umana e per questo dovevano pagare tanti soldi in cambio della sopravvivenza. Così che quella che oggi chiamano miracolo della tolleranza pare a dire il vero più uno scambio mafioso, mentre i cristiani che volevano convertire tutti perché volevano salvare tutti i viventi di questo mondo sono bollati come fanatici. Ci siamo dimenticati che i nostri eroi, El Cid, Orlando e i suoi nobili Paladini (su cui formammo, spettatori dei burattini, il nostro senso dell’onore), insieme a tutti i divini personaggi di Ludovico Ariosto, combattevano in difesa di questa riva. Quanti Gano di Magonza con abituccio culturale si vedono in giro. Dimentichi anche del catalano Raimondo Lullo, il gigantesco logico medioevale, l’autore dell’Ars magna, il maestro di Pico della Mirandola e di Leibniz, l’anticipatore delle intelligenze artificiali, il geniale alchimista che percorse le coste mediterranee per predicare una crociata filosofica, e che fu a stento sottratto al linciaggio dalle parti di Tunisi, tra gli ‘inventori’ della tolleranza (come insegna il dogma delle banalità contemporanee). Per i morti di Otranto, per il massacro degli ottocento salentini, ci volle l’arte barocca di Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi; papa Ratzinger li volle santi ma rendendone nota la canonizzazione insieme all’annuncio delle sue dimissioni da pontefice, questa clamorosa notizia fece subito ridiscendere l’oblio su quelle povere ossa. Dimenticata allora anche da Roma la lunga pagina della persecuzione cristiana nel Mediterraneo, si conceda a dei donchisciotteschi, come son tutti gli scribacchini dei blog, di renderle omaggio con un fiore.

«Voi non siete del mondo… per questo il mondo vi odia» (Gv 15,19). Si provi pure a mitigare l’odio terribile, si venga a compromesso, secondo il realismo romano, ma quando quel mondo riecheggia le nostre parole, quando plaude perché il cattolico parla come il laico più corrivo, perché celebra il medesimo rito, qualche dubbio sarà legittimo nutrire sullo snaturamento della Chiesa.