sabato 28 novembre 2009

minima / Bandiera rossa

Nella Polonia per mezzo secolo asservita al comunismo dei russi, oggi proibiscono l’esibizione della bandiera rossa. Con un certo ritardo, vent’anni dopo la fine di quel regime, un po’ come successe nell’Italia dei Settanta, quando per motivi contingenti si riscoprì l’«antifascismo». Ma i simboli, ancorché clandestini, non sono facilmente cancellabili, anzitutto dal cuore.
.
Sergej Nicolaevič Bulgakov fu un economista e un rivoluzionario russo, amico di Rosa Luxemburg, avversato da Lenin. Davanti alla Madonna Sistina di Raffaello a Dresda, digiuno di conoscenza estetica, ebbe una esperienza estatica, tornò a interessarsi alla fede dell’infanzia. Allora l’«insolenza rivoluzionaria» gli apparve come lo spirito dell’Anticristo. Rientrò nella Chiesa ortodossa, chiese l’ordinazione sacerdotale, divenne uno dei massimi teologi del Novecento, un amico di Pavel Florenskij. All’inizio degli anni Trenta, padre Sergio, ormai esiliato dall’Urss, era a Londra dove si trovò a passare per Hyde Park in un Primo maggio freddo in cui cadevano fiocchi di neve. Racconta un pope che era con lui: al passaggio delle bandiere rosse, una «nube di bandiere rosse» nel cielo grigio e bianco, «mi meravigliai nel vedere con quanta eccitazione, con gli occhi scintillanti, padre Sergio osservasse questo spettacolo per me rivoltante. Egli ammise di sentire un’emozione, un entusiasmo a lui ben noti… ‘È complicata la lira dell’anima umana’, disse. ‘L’armonia in essa si mescola con la dissonanza’».
......................................................................................................

venerdì 27 novembre 2009

minima / Kulturmarkt e paure

Scherzammo, qualche settimana fa, sulle grandi truffe del «global warming» e del «contemporaneo» (The Great Swindle, 25 ottobre 2009). La recente scoperta della clamorosa manipolazione dei dati, per dimostrare il surriscaldamento della Terra, all’interno dell’University of East Anglia’s Climatic Research Unit, un santuario scientifico che detta legge nel mondo; l’affondamento odierno del Dubai, patria dell’architettura vacua e del postmoderno maomettano, sembrerebbero dar ragione all’«Almanacco» e al buonsenso. Ma c’è poco da gioire. Il grande pubblico non vuole accorgersi di queste cose e, a modo suo, ha ragione. Le crisi attuale del consumo, infatti, gli sbandamenti in Borsa, non sono risposte, purtroppo, alle domande decisive: perché si crede ostinatamente in questa Apocalisse senza Rivelazione? Perché tanto parlare di arte a proposito di merce?

«Molto resta ancora da dire circa il rifiuto del godimento visivo della sensibilità moderna», scrive Jean Clair. Che volete che se ne possa ricavare dai grafici del Kulturmarkt? Meglio Jünger: «Viviamo in tempi indegni dell’opera d’arte; soffriamo senza scusanti. Non resterà di noi che il rumore della sheol. Anche oggi la costrizione trova consensi. Ma insieme cresce la tristezza, che si dilata fino ai negri, e la mia malinconia ne partecipa».
......................................................................................................

sabato 21 novembre 2009

Cortesie per gli ospiti

~ SI TIENE OGGI NELLA CAPPELLA SISTINA UNA STRANA CERIMONIA: LA CHIESA SEMBRA MENDICARE UN PO’ DI ARTE DA CHI PER LO PIÙ APPARE ESTRANEO ALL’ARTE. ~ QUI SI PROVA A FARE ENTRARE BAUDRILLARD NELLA ELETTA ADUNANZA PER SPIEGARE LA NUOVA ICONOCLASTIA: «LE IMMAGINI DOVE NON C’È NIENTE DA VEDERE» ~

Giulio II, eccelso committente, si appassionava talmente all’opera richiesta da scappargli qualche volta una bastonata per l’artista troppo lento nell’esecuzione. Accadde a Michelangelo, lo narra Vasari. I pontefici contemporanei dovrebbero munirsi di auree clave e distribuire copiose randellate su alcuni tipacci che imbrattano le chiese cattoliche. Ma i papi degli ultimo secolo sono di tutt’altra pasta. Pazienti, cortesi, meno mondani dei loro predecessori, sembrano quasi chiedere scusa quando intervengono con affabilità e discrezione negli affari del mondo moderno. Così l’intera Chiesa, che fu la massima mecenate dell’arte occidentale, adesso mendica un po’ di favori estetici anche da chi non è in grado di donare alcuna bellezza. E chiede venia se, glorificata dai maggiori artisti, architetti e poeti della storia, non benedisse benevola da subito i wc delle avanguardie.

Partono per il mondo cinquecento inviti a un incontro conciliante con il papa, si distribuiscono generosamente patenti di ‘artista’ da cattedre altissime, anche a sghignazzanti caricaturisti dei pontefici, e soltanto la metà risponde con un sì. Prevalentemente italiani. E già questo non va bene per l’universalismo romano, oltralpe difficilmente faranno caso a un «Sanremo in Vaticano». Ci sono inoltre nell’elenco gruppi di musica assai pop che neppure nei villaggi rurali hanno più qualche ascolto, comici da avanspettacolo, figurine della moda televisiva. Cormac McCarthy non c’è. «A vivere oggi si respira nichilismo. Dentro e fuori la Chiesa è il gas che si respira»: così annotava Mary Flannery O’Connor, la grande scrittrice cattolica del Novecento. Chissà se lei sarebbe venuta sulla tomba di Pietro con simili compagni di pellegrinaggio?

La Chiesa dialoga giustamente con quel che passa il convento, ossia con chi lavora in campo estetico nel nostro tempo. Ma forse dovrebbe chiedersi se in quel campo non sia accaduto qualcosa che impedisce il dialogo. Non per cattiva volontà, rigidezza, passatismo, non per «incomprensione», come ci si autoaccusa ossessivamente. E se, anzi, proprio la Chiesa avesse capito bene fin dall’inizio? Mica si crederà davvero alla favola delle forme nuove che richiedono tempo per essere digerite, sulla falsariga delle grandi innovazioni linguistiche nella storia dell’arte. Il «contemporaneo», la post-avanguardia, il postmoderno, comunque lo si chiami, è un’altra cosa. I più diretti dei loro presentatori lo dicono senza remore, come questo che abbiamo scelto soltanto perché più sintetico: «Volendo essere drastici, il criterio ispiratore dell’arte oggi non è più l’amore del bello e del vero (secondo la poetica definizione di John Keats) ma sono principalmente i soldi, l’ego e la ricerca della notorietà» (va precisato che il tizio lo afferma con compiacimento, fiero anche della patetica «ricerca di notorietà» che lo accomuna alle adolescenti sognanti le luci della ribalta). Bene, legittime aspirazioni – che cosa c’è di più comune, volgare, che voler fare soldi e gonfiare l’ego – ma che c’entra la Chiesa?

Gli affossatori della bellezza – quindi, un po’ satanici, ma solo per ‘fare soldi’ – si auto-trasformano con un atto di magia nera in artisti, cioè nella categoria umana più simile a quella divina. Il nome auratico serve per catturare la fantasia del pubblico come quando si vuole imporre un detersivo (del resto, già i sarti e i dipendenti del sistema reclamistico del ‘sempreuguale’ presero in prestito niente di meno che il titolo di creatori e creativi). Che c’entra la Chiesa con simili trucchi?

Nei corsi universitari dedicati al «sistema economico dell’arte» si insegnano i presupposti epistemologici del «contemporaneo». Ne riportiamo una presentazione contenuta nei programmi di un prestigioso ateneo (scusandoci per la terminologia gergale), ma è vulgata di ogni manuale, sorpresi che prelati coltissimi non ne traggano le dovute conseguenze: «… La causa, ma in certi casi anche la conseguenza, di questi “cedimenti” oppositivi è da ricercarsi in una serie di mutamenti sia teorici, sia tecnici sia disciplinari, di importanza epocale, esprimenti, se non sempre una realtà data, quanto meno una forte linea di tendenza: la complessità si è sostituita alla linearità, il rizoma alla radice e all’albero, l’ibridazione alla selezione, il mutante al tipo, la performance all’oggetto d’arte, la dispersione alla concentrazione, il digitale all’analogico, il multimediale al mediale, la simultaneità al tempo, la televisione al cinema, internet a posta, fax, telegrafo, telefono, le onde e le fibre ottiche ai cavi di rame, la biogenetica e la chirurgia alla medicina, le scienze neuronali alla psicologia e alla pisicoanalisi, la clonazione alla procreazione, il bilinguismo alla monolingua, il globale al particolare, l’imperfetto al perfetto, il virus all’identitario». Chi parte da simili premesse dovrebbe illustrare il Verbo?

Un personaggio che ricorse pure a tali gerghi, inventandoli però, non limitandosi a ripeterli, ebbe a un certo punto un sospetto. A furia di decifrare i segni del nostro tempo, Jean Baudrillard cominciò a parlare di «arte che scompare». Era già un dato, ma tale scomparsa veniva ancora abbellita: «L’arte oggi – diceva negli anni Ottanta – non esiste che nella forma della scomparsa. Ma essa può giocare la sua scomparsa per molto tempo con degli effetti sublimi». Anche qualche chiesa deve aver creduto in tali effetti speciali e commissionato delle opere a coloro che si industriavano per far sparire l’arte. Baudrillard continuava intanto a scrutare il magma del «contemporaneo»: «la merce – scriveva – è leggibile, in opposizione all’oggetto che non svela mai il proprio segreto, la merce manifesta sempre la propria essenza visibile, il proprio prezzo». Questa «arte» del tutto trasparente era dunque soltanto merce. Si affermava la preponderanza del significante: l’«onnipotenza di un sistema di lettura su un mondo diventato un sistema di segni», ciò che deve essere letto, il leggendario. Non era più questione della « verità del mondo e della sua storia, ma solamente della coerenza interna del sistema di lettura». Trionfava la tautologia. Brillavano allora nei saggi dello studioso francese delle importanti intuizioni: «Come i barocchi, noi siamo creatori sfrenati di immagini ma segretamente siamo iconoclasti. Non di quelli che distruggono le immagini ma di quelli che ne fabbricano una profusione dove non c’è niente da vedere». Le immagini «dove non c’è niente da vedere» attraevano forse i nostri teologi negativi, illudendosi in un risvolto metafisico, non capendo che si trattava di puro consumo.

Suscitando scandalo internazionale, Baudrillad fece il passo decisivo. Nel 1996 pubblicò un articolo dove denunciava Le complot de l’art. Stavolta i suoi sofisticati fans ebbero difficoltà a salvare l’immagine progressista del maestro. Baudrillard metteva insieme il sesso della pornografia – senza più segreto e senza più desiderio – e l’«arte contemporanea» senza più rappresentazione. Distingueva perciò dagli ultimi esiti le avanguardie, il modernismo estremo rappresentato da espressionisti e cubisti, che volevano «forzare il segreto del desiderio e dell’oggetto». Resisteva nelle loro opere l’«enigma in negativo», il «mistero in filigrana», ossia una traccia di «autenticità» che ammaliava gli spiritualisti d’ogni religione. Nel post-moderno però anche l’aspetto segreto veniva meno. «Che cosa se ne sta rincantucciato dietro a questo mondo falsamente trasparente?» si chiedeva riassumendo le aspettative di chi per bisogno di arte sembra poi accontentarsi di tutto. La risposta era netta: «ci si appropria del banale, del rifiuto, del mediocre come valore e come ideologia», anzi una confessione di banalità «eretta a valore». Baudrillard cercava la chiave di questo «godimento estetico perverso» e distingueva dentro la ricerca nichilista. Dovrebbero prestare attenzione a queste riflessioni gli amanti degli astrattismi e dell’arte anoressica che danno fiducia agli installatori. Il pensatore francese separava il Nulla della mistica eckhartiana (anche se non la chiamava così), il nulla come «qualità segreta», dai «falsari del nulla», dallo «snobismo della nullità». «Pretendono esser nulla: “Non sono nulla! Non sono nulla!” e in effetti non sono proprio nulla». Si tratta allora di una strategia commerciale della nullità, alla quale «danno una forma pubblicitaria» e la «forma sentimentale della merce». In tal modo «si nascondono dietro alla propria nullità e dietro alle metastasi del discorso sull’arte, che si adopera generosamente per fare risaltare questa nullità come valore», anzitutto, naturalmente, sul mercato. In un simile quadro non c’è più «alcun giudizio critico possibile», soltanto un «convivio della nullità». I presuli che guidano allegri la brigata nei Sacri Palazzi non condividono certo quel nichilismo da strapazzo di alcuni ospiti ma il ‘complotto dell’arte’, direbbe Baudrillard, è contagioso. L’altro aspetto del «bluff della nullità» è infatti quello di «forzare la gente, a contrario, a dare importanza e credito a tutto questo, con il pretesto che non può essere che sia solo una nullità, che vi si nasconda qualcosa». È la trappola appunto in cui cadono gli spettatori in buona fede. Su di loro impietoso, con tono pamphlettario, Baudrillard concludeva: «L’arte contemporanea gioca su questa incertezza, sull’impossibilità di un giudizio di valore estetico fondato, e specula sul senso di colpa di chi non capisce niente o che non ha capito che non vi era niente da capire».

Temiamo allora che, sia pure con le migliori intenzioni del mondo, non ci si potrà aspettare da un installatore niente di bello. Con le prediche di papi e vescovi discese su di lui sarà forse più ispirato ma continuerà a mancargli tecnica e talento. È comprensibile d’altronde che si provi una certa stanchezza per la traversata nel deserto iconoclasta e che, per quanto riguarda l’arte sacra, la liturgia abbia bisogno urgente di forme adatte, ma non conviene ripiegare sulla imitazione di un qualsiasi passato – il gioco dei revivals è parte integrante del post-moderno –, sull’idolatria del passato che è altra cosa dalla tradizione. Se le arti figurative devono ancora attendere, niente di apocalittico. Sarà una quaresima, una settimana santa con le immagini velate, la storia mostra altri austeri periodi per le arti belle. Pascal pensava addirittura che fosse finito il tempo della Biblia pauperum, ormai sostituita pienamente dalla parola piena, dalla preziosa prosa seicentesca. Meglio comunque un periodo di eclisse, penitenziale, che un autoinganno con le astrazioni, con l’emotività facile, con immaginette edificanti. Nel frattempo ci si rifarà magari con la letteratura, dove si scrive ancora e, per fortuna, non si ripetono più le filastrocche dell’avanguardia d’antan. Il Concilio di Trento definì la pittura «letteratura per illetterati». Oggi, una folla di illetterati, soltanto a causa dell’alfabetizzazione, inganna il tempo leggendo libri che non lasciano un segno. Sembra che non si abbia più bisogno della pittura né della letteratura ma di intrattenimento per il «tempo libero» dei carcerati. Eppure, come scriveva Guido Ceronetti: «Forse c’è là, nel groviglio delle vite, qualcuno che aspetta di ricevere i nostri versi per mangiarne la luce e fortificarsi, indebolendo la morte, allontanando per un attimo la paura?». Ecco, una scrittura per «indebolire la morte», per sbalestrare il sistema nichilistico: quanti degli invitati in Vaticano operano in tal senso?

Il soave «culto delle immagini» che predicava Baudelaire diventa pernicioso nell’epoca delle immagini «dove non si vede niente». Ogni liturgia deve diffidarne. Tenendo gli occhi bene aperti onde non confondersi con quelli che ormai ammettono a chiare lettere che le loro merci hanno solo valore economico, che il contemporaneo è un modo di far girare i soldi. Altrimenti - spiace per le buone maniere del clero odierno - di fronte ai mercanti nel tempio (tema peraltro ricorrente di molti capolavori pittorici) bisogna, come il Salvatore, rovesciare i loro banchi, il senso del loro mercato, e buttarli fuori con la frusta.
......................................................................................................

giovedì 19 novembre 2009

minima / Le croste dei Musei Vaticani

Per colmare la «divaricazione tra fede e arte» son stati convocati in Vaticano sabato 21 novembre degli strani ospiti: qualche rispettabile scrittore, musicisti di vario genere, rari scultori, molti cinematografari, canzonettisti, fotografi, ballerini e mondani che fanno i soldi con le ‘installazioni’ ridanciane. Dio solo sa come tutta questa gente possa contribuire anche nel più contorto e miracoloso dei modi alla rinascita dell’arte sacra. Comunque alla vigilia dell’incontro con il papa nella Cappella Sistina, gli ospiti saranno accompagnati in un luogo poco frequentato dei Musei Vaticani, quello dedicato ai contemporanei, dove sono riunite opere per lo più tristanzuole, per esempio quadri e bozzetti, molti bozzetti, su infelici e malati, quasi che nella modernità l’arte cattolica fosse ridotta a una specie di Croce Rossa estetica. Alain Besançon, nella prefazione al suo L’image interdite (che i lettori dell’«Almanacco» trovano spesso citato), ricorda che fu tra l’altro l’esplorazione di questa appendice dei Musei, dove l’arte sacra diventa sentimentalismo scontento, dolorismo senza speranza, a spingerlo alla poderosa riflessione sull’iconoclastia dei nostri tempi: «Un segno di cattivo augurio fu la visita della sezione contemporanea dei Musei Vaticani, che segue quelle antiche e le collezioni di pittura raccolte dai papi di un tempo. Davanti a queste croste, si è colpiti da uno spavento che va al di là dell’arte. In nessuna altra parte l’angoscia del cristianesimo moderno appare in una luce più cruda – una luce da ospedale. Davanti a queste povere cose aggressive (ci si abbassa fino a Bernard Buffet!), invano si cerca il più effimero riflesso della maestà che Raffaello, nelle Logge lì accanto, trasmetteva dal divino e al divino». Se questo è il modello…
......................................................................................................

martedì 17 novembre 2009

minima / Mecenati

I Wiener Philharmoniker, il Coro polifonico della Fondazione Bartolucci (tra i maggiori interpreti di Perluigi da Palestrina), il Palatia Classic Brass Ensemble; nelle precedenti edizioni, le principali orchestre sinfoniche europee, e direttori come Riccardo Muti, Daniele Gatti, Leopold Hager, Franz Welser-Möst. Tutto gratis et amore Dei. Sfondo: le absidi delle basiliche romane. È il Festival internazionale di musica e arte sacra giunto all’ottava edizione, che si svolge nelle quattro basiliche patriarcali, cioè in territorio vaticano dal 18 al 22 novembre. Una fondazione, la Pro Musica, mecenate d’altri tempi piuttosto che sponsor, regala al popolo romano concerti di gran classe. Benché la crisi economica si sia fatta sentire anche qui, costringendo a ideare per quest’anno un programma con molto organo e poche orchestre, resta un modello di intervento pubblico, anche se fatto da privati.

Lo scorso anno, nella basilica di San Paolo, all’inaugurazione era presente pure il papa, e la scena del suo arrivo ricordava una Roma ottocentesca: nonostante la prestigiosa orchestra che si esibiva, i Filarmonici viennesi appunto, la curiosità del pubblico era tutta rivolta al vecchio sovrano vestito di bianco che attraversava la navata per sedersi su un tronetto tra due guardie svizzere con l’alabarda. L’osservatore cosmpolita, il nostro massimo scrittore vivente, Alberto Arbasino, commentava: «A San Paolo i Wiener sono perfetti e l’acustica insolitamente ottima, nonostante l’assenza di apparati visibili». Diverso dal misero Auditorium tanto atteso dalla città di Roma, e pagato di tasca nostra, dove gli amanti della musica vanno via a metà esecuzione, irritati per i difetti dell’acustica. Mentre gli amanti della bellezza sono umiliati dal fabbricato in mattoncini, con i portici che, al meglio, evocano il neorealismo architettonico delle borgate romane del dopoguerra.
......................................................................................................

venerdì 13 novembre 2009

minima / La domenica del globetto

Si inaugura per l’ennesima volta, e non è l’ultima, il mausoleo del Maxxi, opera di un’architetta irachena (è la globalizzazione, bellezza!), cemento grigiastro planato tra le caserme della polizia e i casermoni borghesi inizio Novecento, portando un carico di malinconia islamica in un angolo di Roma già non particolarmente allegro. Fa pensare a certe periferie di Istanbul in giornate piovose, quando la religione maomettana appare severa, tetra: un monoteismo che ha il terrore di contaminarsi con i sensi, uno sconfinato campo di battaglia, i fedeli come guerrieri, le donne come ombre. Comunque, tra vent’anni risulterà più vecchio delle trimillenarie Mura serviane. Vezzo di una stagione.

Questo costosissimo vezzo avrà in dote per il prossimo anno quattro milioni di euri garantiti dal governo di destra. Per farci che cosa? Non si sa, basta scatenare la fantasia, lo Stato paga. Per adesso, tanto cemento profuso serve a mettere in mostra la tela tagliata dell’italiano, una delle minestrine in scatola del pubblicitario statunitense et similia. Il popolo romano esulta. Le scolaresche son state mobilitate da tempo. Gli assessori si inorgogliscono. La città ne sentiva un profondo bisogno. Non si voleva restare dietro a nessuno, e finalmente la domenica come a Helsinki, come a Dallas, provenienti dalle lontane periferie, sul tram che trasporta i tifosi all’attiguo stadio, porteremo i nostri piccoli a vedere le tele tagliate e le minestrine americane.
......................................................................................................

martedì 10 novembre 2009

minima / La festicciola della libertà

Racconta Billy Wilder che quando uscì a Berlino il suo brillantissimo Uno, due, tre – un film sulla città divisa, tratto da una pièce di Ferenc Molnàr (quello dei Ragazzi della via Pàl) ma complicato strada facendo dalla costruzione del Muro, tirato su mentre la troupe stazionava lì nei pressi – «nessuno aveva voglia di ridere di una commedia sui rapporti tra Est e Ovest ambientata a Berlino, mentre altri berlinesi rischiavano la vita saltando dalle finestre oltre il muro, oppure cercando di attraversare i canali a nuoto sotto il fuoco delle mitragliatrici. Non che non si possa scherzare anche con l’orrore…». In pochi lo hanno menzionato in questi giorni, eppure è stato il film più feroce sul comunismo tedesco, preferendo evidentemente le ironie bonarie da diario adolescenziale, da murales appunto. E quei berlinesi che non avevano voglia di ridere con la satira di Wilder chissà quali epiteti avrebbero usato per la festicciola della libertà in salsa turistica, organizzata a Roma. Ieri dicevamo che altre cerimonie meritava la riconquistata libertà in Europa, concerti come quello diretto da Barneboim alla Porta di Brandeburgo, che metteva insieme Wagner e Schönberg, la preghiera di riconciliazione con le massime autorità tedesche in una chiesa berlinese, perfino la retorica dei capi di Stato di mezzo mondo. E naturalmente la festa popolare con tanto di fuochi d’artificio.

Anche da noi un concerto, un grande nome della musica, si poteva ottenere, non siamo ancora alla periferia del mondo. Invece, si passa per via Condotti sotto la pioggia e si scorge sul fondo, un obbrobrio grigiastro. Si affretta il passo per veder meglio quell’incubo che invade la mente e si scopre che sulla scalinata di Trinità dei Monti, proprio là dove il ripido pendio del Pincio si addolcisce nelle soluzioni scenografiche dell’ingegno barocco, qualche dissennato ha pensato bene di costruire un Berliner Mauer con tanto di coloracci acidi degli writers. Intorno, nelle misure delicatissime della singolare piazza, accanto alla Barcaccia berniniana, una specie di ‘festa dell’Unità’, con la solita plastica degli accampamenti, con la solita plastica delle sedie, con pile di amplificatori per diffondere rock davvero cheap sotto lo sguardo smarrito di branchi di giapponesi grondanti. Strapaese mixato con l’elettronica del «contemporaneo», il risultato è una discoteca burina. Collocare il tutto a piazza di Spagna suona come una bestemmia. Passi la scalea barocca sfruttata dalle case di moda per farne una passerella, ma un muro per fini pedagogici è una trovata bestiale (con le migliori intenzioni del mondo, s’intende: in modo che lo shock sia più truculento, secondo la vecchia storia avanguardistica dell’imbrattamento della Gioconda, della bellezza violentata, dei pugni nello stomaco; solo che a lungo andare vien voglia di rispondere pugno su pugno e dare così una bella lezione a questi picchiatori estetici). Esulando da Berlino, insopportabile è ormai la continua profanazione delle opere d’arte romane, l’Auditorium essendo il luogo ideale per simili imprese. O i nuovi spazi del Maxxi o del Macro. Se poi, nonostante i soldi pubblici spesi, queste architetture non fanno abbastanza sensazione, non sono riconoscibili, non si prestano a essere offese e umiliate da gesti blasfemi, neppure dai muretti berlinesi, peggio per loro e per chi le ha volute.

In questo ultimo anno più volte è venuto il sospetto che le nuove autorità cittadine non si rendano bene conto di operare nella città di Roma: la cultura dell’urbe non prevede le feste paesane, i nomi di chi si esibisce nei luoghi sacri della città devono essere di tutto rispetto, le archistar vanno tenute a bada ma i dilettanti allo sbaraglio sono ancor peggio. In tutta Europa le differenze destra/sinistra sull’arte, l’architettura e l’urbanistica appaiono sempre più sfuggenti ma a Roma, di fronte a tanto spirito gregario nei confronti della cultura dei predecessori, viene quasi da rimpiangere gli originali.

lunedì 9 novembre 2009

minima / Oltre i graffiti, il sangue

Avevano teorizzato con Marx alla mano, letto in originale, nella madrelingua, la «fine dello Stato», e in effetti uno Stato tedesco venne giù, abolito da un giorno all’altro, estinto con il suo apparato. Pensionati i generali, i capi della polizia, cacciati senza pensione ministri e deputati, smascherate le spie, liberati i prigionieri politici, mandato al macero il denaro… La fiaba marxiana si avverò vent’anni fa. Ma i suoi fedeli lettori non esultarono perché lo Stato abbattuto, l’unico nella storia occidentale, fu proprio quello dei loro sogni, che doveva approdare al comunismo. Bloccato nella fase intermedia.

Per difenderlo nel mezzo secolo della sua durata si ricorse alle armi come nessun altro Stato fece in Europa. Armi di dissuasione e armi che sparavano su cittadini inermi. Una storia terribile, senza eguali. È vero, negli anni del dopoguerra in Europa non si andava troppo per il sottile, a Parigi abbatterono nelle strade decine di algerini gettandone i cadaveri nella Senna (per gli islamici perseguitati si mossero allora solo i cattolici di Louis Massignon), in Gran Bretagna si combatteva una specie di guerra civile contro i cattolici dell’Irlanda del Nord, una vera e propria guerra civile si ebbe in Grecia sul finire dei Quaranta, con strascichi golpisti fino ai Settanta, in Polonia si scatenavano nuovi pogrom contro gli ebrei e stavolta con la benedizione degli «antifascisti» al potere, in Ungheria i carri armati sovietici schiacciarono una rivolta di «comunisti», a Praga i medesimi carri armati terrorizzarano gli apprendisti riformatori, spietatezze insomma che tolgono rilievo in confronto alla stagione del terrorismo italiano, però in nessun posto dell’Occidente si tenne una metropoli in gabbia, divisa per trent’anni con muri e filo spinato e torrette di guardia, da vero Lager, e cani addestrati e militi con i mitra spianati pronti a sparare. Che all’occorrenza spararono, freddando duecento concittadini sul punto di evadere da quella galera. Una volta, a un diciottenne centrato nell’atto di scavalcare, capitò di essere lasciato in quella scomoda posizione a dissanguarsi per parecchie ore fino alla morte. Non fu consentito ad alcun samaritano di prestare aiuto. Si era agli inizi, doveva servire da monito. Nessuna organizzazione di sinistra intitolò a quel giovane migrante un suo circolo. Si chiamava Peter Fechter. Lo ricorda una croce. Chissà se i giudici europei oseranno proibire quel simbolo anche lì.

Non erano bastate le armi per frenare la fuga popolare attraverso le frontiere, il governo «democratico» costruì un muro, centocinquanta chilometri di muro, assediò i berlinesi che non volevano credere nella religione comunista. A quei tempi le commissioni europee si preoccupavano poco delle discriminazioni religiose, si prodigavano invece, pieni di realismo e di buonsenso, perché si dialogasse con i signori che discriminavano e che apparivano assai crudeli. Né i movimenti giovanili, in anni tumultuosi in cui una manifestazione non si negava a nessuna causa, provarono ad abbattere sia pure simbolicamente quella oscena barriera nel cuore d’Europa (negli anni Ottanta si divertiranno a ricoprirne il lato occidentale con scritte e scarabocchi in forma punk, immagini di successo ancor oggi, che nascondono nei media la parete grigia vista dalle vittime). Neppure gli intellettuali firmatari sprecarono un loro autografo per la causa tedesca, anche perché un intervento pur generico poteva costare loro il mancato ingresso nella suggestiva Berlino Est, il viaggio in una metropolitana con stazioni per soli stranieri, il soggiorno di ospiti privilegiati all’inferno; un appello e una firma cioè poteva privarli del visto per la DDR e del biglietto per il teatro brechtiano che li confortava nei loro princìpi: il fascismo e il capitalismo messi in burletta sulla scena socialista, diavolo di un drammaturgo epico!

Vent’anni fa, il 9 novembre questa immondizia ebbe fine. La data andrebbe ricordata come il nostro 25 aprile, come quella dell’ingresso delle truppe alleate nei campi di sterminio nazisti, come il giorno della sconfitta della Germania hitleriana. Cioè con cerimonie solenni, ispirate alla gravità di una storia europea poco spensierata anche nel dopoguerra. Alla maniera di Rostropovich, un altro fuggiasco, che nella notte della liberazione suonò Bach tra le macerie della barriera comunista. Invece, chissà perché, per commemorare l’abbattimento del Berliner Mauer si ricorre all’ironia, come se fosse la festa di quei murales che le autorità cittadine hanno saggiamente lasciato decomporsi senza spendere un solo euro per il restauro. Inimmaginabile un «giorno della memoria» dello sterminio ebraico a colpi di segnacci spiritosi e di canzonette, di writers e di rock. E chi mai tenterebbe di spiegare Auschwitz ai ragazzi con giochi di simulazione sulla vita nei campi, con Lager elettronici a fini didattici? Ma per rammemorare gli uomini e le donne, i bambini (anche decenni) e i vecchi (anche ottantenni) uccisi dai poliziotti su quella «striscia della morte» (si veda la voce ‘Muro’ di Wikipedia per ripercorrerne le principali vicende), a Roma si prevedono canzonettisti sanremesi, installazioni, videoclip, murales, trenta performances, ‘eventi multimediali’ vari: il «contemporaneo» si impadronisce dell’occasione e sparge il suo spirito parodistico. Gli ex frequentatori del Berliner Ensemble adesso si dedicano a un genere di moda più faceta.

Nei giorni scorsi, a Roma, i funzionari comunali preposti alle cose della cultura hanno organizzato un convegno sui ‘muri’ in genere, sulle barriere politiche e psichiche. Il Muro comunista diventa così una muraglia metaforica. In altri ambiti si parlerebbe di banalizzazione dell’orrore. Gira gira, si tirerà fuori anche il muro israeliano per evitare gli attentati. Come se i cittadini tedeschi dell’Est fossero stati dei kamikaze, degli shaid pronti a esplodersi. Meglio spendere i soldi pubblici per diffondere nelle scuole un piccolo libro dal tono pariniano che Arbasino scrisse per il novembre dell’Ottantanove e a cui mise un titolo settecentesco:
La caduta dei tiranni. Meglio una semplice informazione su quanto avvenne a Berlino: il Muro, prima di esser colorato dalle bombolette spray fu macchiato dal sangue.

giovedì 5 novembre 2009

minima / Immagini vietate

Più iconoclasti di così: i giudici europei proibiscono l’esposizione dell’immagine della croce. Avevamo commentato a caldo la sentenza con una battuta sull’Europa che vuole perdere e perdersi nello sciocchezzaio corretto rifiutando la promessa della Provvidenza a Costantino Magno. Ma vista la serietà della questione, la stoltizia cioè di molti europei oggi, che si sentono più liberi senza la «spes unica» della croce celebrata in un anonimo inno latino e invocata nei Lager con le medesime parole da Edith Stein, vogliamo tirar fuori dall’archivio dell’«Almanacco» alcuni titoli. Non certo per citarci quanto per riportare le citazioni nascoste in quegli scritti.

A cominciare da quella di Heinrich Heine, quasi una impressionante profezia: «In un certo modo il cristianesimo – e questo è il suo merito più alto – ha calmato la furia bellicosa di germani, senza peraltro eliminarla del tutto, e se un giorno si spezzasse la croce, il talismano che placa le passioni, si scatenerebbe di nuovo la violenza selvaggia degli antichi guerrieri, l’irrazionale brama di distruggere cantata dai poeti nordici». Il poeta d’origine ebraica, il bardo delle rivoluzioni, l’amico di Marx aveva intuito che il giorno in cui la croce fosse stata tolta di mezzo e sostituita dalla parodistica forma uncinata, l’Europa sarebbe stata travolta da una forza distruttiva mai vista: «usciranno dalle loro rovine le antiche divinità di pietra, si toglieranno dagli occhi la polvere millenaria, e Thor, con la sua mazza enorme si ergerà pronto a distruggere le cattedrali gotiche…». Per leggere il testo nella sua integrità, una pagina che commosse i cattolici tedeschi che combattevano il nazismo, si vada al titolo Letture / Il tuono tedesco del 27 settembre 2008, nella colonnina qui a fianco, e vi si clicchi sopra.

Per riflettere su questa iconoclastia aggressiva si veda: minima / Il giudice che teme la croce del 24 novembre 2008; minima / Se l’Occidente cancellasse la croce del 26 novembre 2008.

Infine, nessuno ricorda che l’arte italiana nasce con un crocefisso, quello di Cenni di Pepi, il Cimabue, di cui Giorgio Vasari dice che ruppe per primo con la «scabrosa goffa e ordinaria maniera greca», cioè bizantina. Sicuramente gli autori della sentenza iconoclasta non ne sapevano niente, né potevano capire che proprio partendo dal Cristo che muore, l’immagine umana di Dio, la nostra arte figurativa riuscì a spingersi così in alto. Devono però avere intuito che per colpire al cuore la civiltà occidentale bisogna cominciare dalla croce.

martedì 3 novembre 2009

minima / In hoc signo vinces

L'Europa vuole perdere.

lunedì 2 novembre 2009

Rito romano

~ UN CATAFALCO NERO E ARGENTO, UN PALCO PER LA VITTORIA PROVVISORIA DELLA MORTE, VIENE INNALZATO OGGI NELLA CHIESA DELLA TRINITÀ DEI PELLEGRINI, E LA COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI ASSUME TONI BAROCCHI. ~ MA PER TUTTO L’ANNO L’ANTICA LITURGIA CHE RIPRENDE VITA IN QUESTA CHIESA DI ROMA HA LE FORME SONTUOSE DI RUBENS, LE CADENZE DI PALESTRINA. ~

a D. P.
in memoriam

Nulla invecchia maggiormente delle opere estetiche moderniste. Basta guardare gli oggetti dell’avanguardia del dopoguerra, le piccole utopie ribelli seguite alle grandi ribellioni che produssero il disastro, i segni puerili della dissoluzione: che aria polverosa, d’altri tempi, di irrimediabile estraneità; realizzati negli anni della nostra infanzia, sono già bisognosi di perenni quanto ardui restauri; l’effimero, artificiosamente custodito oltre il suo giorno, si sbriciola, muore. E si metta a confronto simile paccottiglia ludica, e ormai assai malinconica, con le sculture dell’ellenismo o con la radiosa pittura del gotico senese: nonostante i molti secoli trascorsi, la vitalità dell’arte resiste. Chi invece fa del nuovo assoluto la sua bandiera crolla nel giro di una stagione, e appena passata la moda è dannato al marchio del «démodé». Anche la liturgia della messa uscita dal Vaticano II, volendo cancellare troppe pagine della tradizione, credendo di trovarsi all’incrocio decisivo della storia dell’umanità, finì per risentire terribilmente dell’arte e della cultura anni Sessanta, oggi in via di sparizione. Quei fragili esperimenti pretendevano, nei casi migliori, fare tabula rasa dei linguaggi che avevano reso possibili i grandi massacri, sperando con fede magica che la cancellazione delle parole portasse via anche gli incubi della storia. I corsi e ricorsi culturali potevano correggersi di generazione in generazione – in breve ci si accorse infatti della impossibilità di vivere nell’abrasione del passato e con un idioma inventato, del tutto artificiale –, mentre la messa novecentesca, troppo legata a tali mondani interessi, restò con le stigmate delle assemblee politiche e del teatro cosiddetto dell’assurdo (ossia di un mistero che non trova scioglimento, né parola finale di verità). L’influenza teatrale era evidente, a cominciare dalla scenografia spoglia; l’influenza politica trascinava al centro la plebs Dei, popolo non più genuflesso e orante ma assiso intorno al prete alla maniera delle assemblee operaie, dove alcuni fedeli andavano all’ambone come si sale alla tribuna per pronunciare un intervento. Del resto, ancora oggi, le nuove chiese sono l’ultima traccia dell’architettura industriale in via di sparizione, templi dell’ideologia pauperista quasi mai sfiorati dai vezzi e dai lussi del pur onnipotente post-moderno. La casa di Dio è diventata un fabbricone acromatico, uno spazio dell’angoscia sociale, in stretta continuità con le peggiori brutture del mondo. In quegli edifici che nulla mantenevano dunque della gaudiosa architettura cattolica, elastico divenne il cerimoniale, i silenzi si protraevano a piacere, sopraggiungevano contributi imprevisti dei presenti, canti aggiunti, preghiere inventate ex novo, si moltiplicavano insomma le varianti. Il tempo liturgico, che dovrebbe riflettere quello eterno, si trasformava in un fragile contenitore dove l’attualità poteva entrare a ogni istante con il suo strascico di miserie. Le asimmetrie dei candelieri, della croce, del tabernacolo, riecheggivano le tavole eleganti imbandite dalle dame alla moda in anni sghembi che introducevano la rivoluzione negli ambienti borghesi. Design di gusto adorniano, coltivato in quel Nord Europa già addestrato dalla severità protestante; architettura del Bauhaus che rinnegava l’arte per la comunicazione; rifiuto se non disgusto fisico per le forme mediterranee dove si ebbe la coltura del cattolicesimo («esiste un’affettività antiromana» sostenne Carl Schmitt con buon fiuto). In queste traversie estetiche fu approntata la liturgia del tardo Novecento. C’era però un grosso problema: le «arti» e i linguaggi nuovi sembravano indirizzati da un destino beffardo verso un unico approdo: l’ironia e la parodia. Poteva la cerimonia del divino ricorrere a simili forme espressive?

Con una punta di ingenuità, gli ideatori della nuova messa credettero nella trasparenza delle lingue volgari, come se bastasse ricorrere al «gergo della massaia al mercato», secondo la celebre indicazione del Lutero traduttore biblico, per rendere eloquente la parola divina. Né d’altra parte si vedevano schiere di geniali Lutero forgiare la parola moderna, anzi neanche mezzo luccicò, soltanto dei buoni studiosi che si arrovellavano ad aggiornare – termine fatale – l’arcaico lessico ebraico-aramaico-greco, non prevedendo la rapida usura che sarebbe sopraggiunta quando si fanno parlare i profeti come degli scrittori garbati piuttosto che con la sonorità dei poeti latini. Ma, al di là dei modelli letterari, la facile credenza nella parola trasparente portava alla conclusione che bastasse la traduzione per illuminare i fedeli: doveva essere alla portata di tutti quel succo difficile, che risultava incomprensibile anche ai sommi teologi e filosofi, in modo da ridurre il mistero alle semplificazioni del nostro tempo, al sapere democratico che mastica ogni cosa con noncuranza e guarda con timore e tremore soltanto alla scienza. Tale atteggiamento suscitava l’arguzia di un celeberrimo interprete, maestro nella resa in lingua italiana di alcuni capolavori ebraici e latini, Guido Ceronetti, che si chiedeva quanto la popolana, sempre tirata in ballo in simili controversie, capisse della risposta «e con il tuo spirito» rivolta al celebrante, la formula restando altrettanto ostica, in quanto ricchissima di significato, anche trasposta nel lessico quotidiano. Più in generale, Montaigne riteneva che le lingue moderne fossero troppo languide per trattare temi gravi, noi senza Dante, Montaigne, Lutero, Goethe, senza neppure i loro epigoni ottocenteschi, osammo ricostruire la lingua di Dio avendo nelle orecchie le dissonanti formule del Gruppe 47 o del nostrano Gruppo 63 se non il forzoso periodare e il fumosissimo lessico di saggi e articoli di una triste stagione, forse tra le più magre della storia letteraria europea.

L’uso del latino nei sacri riti non fu cancellato dal Concilio, come spesso viene creduto, si mise mano al novus ordo anzi quando i padri conciliari se ne erano tornati a casa. Procendendo da indicazioni generiche, si accantonò allora il «rito romano antico», per meglio dire lo si tolse proprio di mezzo, lo si proibì come un’eresia, senza sfumature, senza periodi di trapasso, senza il rispetto che il Concilio di Trento ebbe per i riti in vigore «da almeno duecento anni», senza aspettare che le generazioni di vecchi morissero con le formule di sempre. Furono privati delle loro preghiere i cristiani che ebbero la sventura di invecchiare in quel tempo. Erano abituati a distinguere il sacro dal profano, l’altare da tutto il resto, avevano nel cuore la segreta cortina che circonda il sancta sanctorum, la loggia degli angeli, dove accedevano reverenti solo privilegiati fedeli, di sesso maschile, in genere con apposite vesti; abbattute le balaustre, furono costretti a vedervi donne in pantaloni e uomini in magliettina che leggevano i sacri testi. Repressione dei sentimenti più semplici, delle passioni più tenere, educazione forzata, secondo l’uso rivoluzionario, che è l’opposto della carità cristiana, da parte di pretini saccenti. Piccole guerriglie iconoclaste sottrassero quadri di santi ai loro devoti, profanarono amate reliquie, vendettero agli antiquari sacre suppellettili, nascosero le antiche preghiere, sostituite con tante chiacchiere, riverbero della nevrosi assembleare, abolirono il canto gregoriano, la polifonia, il suono degli organi a canne, per strumenti elettronici chiesti in prestito al rock. I più incolti dei contadini avevano biascicato in chiesa il latino, mescolando sonorità, adattando ad sensum, spesso con strafalcioni, sempre rosicchiando le desinenze, proprio come avevano fatto gli antenati quando diedero vita alla lingua volgare. In nomine Domini, Dio parlava loro così, consolava così. I nostri padri e madri furono sepolti con parole corrive, sconsacrate, che sembravano non tenere a bada la morte, le forze dell’Inferno.

Per decenni, anche nell’urbe santa, il rito romano fu «imbavagliato» (Ceronetti). Più recentemente, i suoi fedeli erano costretti a radunarsi in una chiesina sconosciuta ai più, in una viuzza cieca, in una clandestinità da catacombe durante la persecuzione pagana. Ovviamente qui nessuno perseguitava nessuno, ci si limitava allo scherno per i nostalgici, gli ignoranti, i «fascisti» si disse pure. Un tedesco che si era distinto per intelligenza e sapere nel Concilio novecentesco, Joseph Ratzinger, si mostrerà colpito da tanta acrimonia: «Rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia». Già, perché il rito romano non risale al Concilio di Trento, come spesso si fa credere, condannandolo in questo modo al discredito che in certi ambienti clericali ancora avvolge la Controriforma, bensì al cristianesimo delle origini. Gregorio Magno lo codificò, gregoriano perciò dovrebbe esser chiamato prima che tridentino. San Pio V, nello spirito conciliare, con immenso scrupolo, anche filologico, redasse un messale che riordinava una tradizione più che millenaria.

Invano uno stuolo di letterati, artisti, musicisti, filosofi e cineasti chiese al papa di lasciare sopravvivere, magari in qualche tempio marginale, il segno della continuità con la Chiesa del genio cattolico. L’appello era promosso da Cristina Campo e firmato da Wynstan Hugh Auden, José Bergamìn, Robert Bresson, Benjamin Britten, Jorge Luis Borges, Cristina Campo, Pablo Casals, Elena Croce, Fedele D’Amico, Luigi Dallapiccola, Giorgio De Chirico, Tammaro De Marinis, Augusto Del Noce, Salvador De Madariaga, Carl Theodor Dreyer, Francesco Gabrieli, Julien Green, Jorge Guillén, Hélène Kazantzakis, Lanza Del Vasto, Gertrud von Le Fort, Gabriel Marcel, Jacques Maritain, François Mauriac, Eugenio Montale, Victoria Ocampo, Nino Perrotta, Goffredo Petrassi, Ildebrando Pizzetti, Salvatore Quasimodo, Elsa Respighi, Augusto Roncaglia, Wally Toscanini, Philip Toynbee, Evelyn Waugh, Marìa Zambrano, Elèmire Zolla. Quando mai si adunò un numero di tanti eletti personaggi d’ogni continente per una pubblica richiesta?

Un vero paradosso intanto si produceva: veniva riconosciuto il diritto all’esistenza in seno al cattolicesimo del rito ambrosiano, greco, armeno, melkita, copto, maronita, mozarabico (in un viaggio in Spagna, Giovanni Paolo II celebrò nel canone ‘visgotico’ come pure è chiamato) e vari altri, ma per il rito latino non c’era più posto. Tollerante e benigna verso gli arcaismi di tutte le culture, la Chiesa di Roma riservava per sé la modernità assoluta. Nonostante questa ‘clandestinità’ durata alcuni decenni, il rito romano rifulge ancor oggi, classico. A cominciare dalla sua lingua, il latino. Era parlato dai popoli che formavano l’Impero, era il simbolo dell’universalismo, l’esatto contrario del radicamento romantico del linguaggio nel suolo, resta la forma salda che cede meno di altre al corso dei tempi, «corazza d’oro della Chiesa» lo chiamò qualcuno.

Nella Roma rinascimentale, tra Campo de’ Fiori e il Tevere, un eroe della Controriforma, Filippo Neri, accoglieva e ospitava i derelitti nelle case private di suoi generosi amici, poi l’opera pia si trasformò in un immenso ospizio (ospedale, albergo, luogo di conforto) che da allora, per secoli, funzionò da dormitorio e mensa per le immense folle dei giubilei seicenteschi e per i viaggiatori di mezzo mondo che quotidianamente venivano a pregare sulla tomba di Pietro. La attigua chiesa della Trinità dei Pellegrini deve il nome a questa impresa di carità cristiana (nell’ospedale, il giovane Mameli, l’autore dell’inno d’Italia, venuto a combattere il papa tra i volontari della Repubblica romana, fu assistito nella sua agonia). In questa chiesa che si presenta con una facciata tardo-barocca disegnata da Francesco De Sanctis, l’autore della scalinata di Trinità dei Monti, si celebra tutti i giorni, finalmente alla luce del sole, la messa di «rito romano antico», naturalmente in latino. È un dono di Benedetto XVI alla sua diocesi. Lo sguardo profano lo considerà come il confinamento in una ‘riserva indiana’, quello metafisico vi intravede il polmone nascosto della Chiesa.

Ieri la festa d’Ognissanti era celebrata alla Trinità con un pontificale dalla maestosità rubensiana, oggi, nel giorno consacrato alla commemorazione dei defunti, una messa solenne esorcizza i trionfi della morte. I celebranti indossano i paramenti neri, al centro della chiesa, tra sei candelieri con i ceri accesi, si eleva un catafalco sormontato da un simbolico feretro. Il catafalco ormai è sconosciuto ai più. Un tempo, invece, soltanto le bare degli aristocratici, per estremo atto di umiltà dopo una vita sfarzosa, venivano deposte sulla nuda terra. Gli altri cristiani in morte erano innalzati: il corpo umano diventato cadavere saliva su questo barocco apparato, giustappunto un palco secondo una spiegazione etimologica, rivestito di drappi liturgici neri trapuntati d’oro o d’argento, circondato dai ceri. Riconsacrato ancora una volta, a segnare davanti alla comunità che lo accompagnava nell’ultimo viaggio il fatto, incontrovertibile per i cattolici, che mentre comincia il processo di decomposizione della carne si apre anche una glorificazione della medesima carne che troverà in Cielo il suo massimo splendore alla fine dei tempi. Nei funerali post-conciliari, il violetto sostituisce il troppo luttuoso nero, quasi si dovessero smorzare le tinte del dramma, la bara è abbandonata sul pavimento, lasciata sola fisicamente mentre le chiacchiere profane dei parenti e degli amici si mescolano alle parole liturgiche del sacerdote, in un rito che somiglia talvolta a quello civile tanto il sacro si ritira, appena rischiarato dal cero pasquale, in un timido accenno all’immortalità. Non c’è comunque il memento mori che discende da quel palco, il grande spettacolo della morte cristiana che grida il dolore di essere strappati a questo mondo e promette una vita ancor più bella nell’aldilà. Per un simile rituale cattolico, per le messe da requiem in rito romano, composero i massimi musicisti dell’Occidente, da Mozart a Verdi; a quei tempi i luterani provavano la mancanza di un culto che appariva insuperabile per alleviare il dolore umano e, nel tentativo di riecheggiarne i modi, Brahms scrisse Ein deutsche Requiem, un Requiem tedesco.

I gesti, gli inchini dell’antica liturgia: ogni atto conferma una gerarchia, nel rito romano. C’è un imperatore del mondo, dice la Chiesa delle origini, con una metafora certo appartenente a quell’epoca ma compresa o comunque intuita per secoli e a ogni latitudine. È arduo del resto immaginare un Dio presidente della repubblica, una partecipazione democratica della creatura alla volontà dell’Assoluto. La collaborazione di Adamo alla creazione divina, alla creazione della lingua umana (Genesi, 2,18-20), è una bellissima premessa alla nostra storia ma non ha nulla di ‘democratico’, e se proprio un riferimento storico va cercato, si potrebbe parlare di un investimento feudale. Sarà meglio evocare la lotta di Giacobbe, il tentativo di forzare il Creatore, una battaglia d’amore, un drammatico scontro padre e figlio su scala universale, conflitto riproposto da Cristo sulla croce. Un mistico scontro insomma piuttosto di una conta di voti, piuttosto di un’assemblea che dà mandato al suo Dio. Sarà pure un valoroso compito allora, nella confusione del moderno, stabilire una traduzione di quella traditio spesso oscura ai nostri occhi – e negli ultimi due secoli, con sofferenza e ingegno nobili figure del cattolicesimo si impegnarono in tal senso – ma ci deve essere un originale ben saldo e splendente, un testo netto e sempre rintracciabile da cui tradurre, per non esporci ai pericoli di ricollocare nelle origini l’idolatria del senso comune attuale. Inoltre, l’originale deve essere riconosciuto come un testo sacro, non soltanto storico, altrimenti si finisce in una letteraria querelle degli antichi e dei moderni.

C’è un apologo sorto nell’ebraismo chassidico, riportato da numerosi narratori jiddish, che potrebbe fungere da sentenza sulla soglia dell’opera non solo letteraria di Kafka, e che rischiara la parabola discendente della religione nello stentato compromesso con il moderno più devastante: «Quando il Baal-Schem si trovava di fronte a un compito difficile, andava in un certo luogo del bosco, accendeva un fuoco e meditava pregando, e sempre fu eseguito quel che egli aveva deciso. Una generazione dopo, quando il Magghid di Meseritz si trovò di fronte al medesimo compito, andò allo stesso posto del bosco e disse: “Accendere il fuoco noi non possiamo più, ma le preghiere possiamo ancora dirle”, e quel che desiderava divenne realtà. Ancora una generazione più tardi, Rabbi Moshé Leib di Sassov, di fronte a un analogo impegno, andò anche lui nel bosco e disse: “Non siamo più in grado di accendere il fuoco e non conosciamo più le meditazioni segrete che fan parte della preghiera, ma il posto del bosco dove tutto questo avvenne lo conosciamo, e questo dovrebbe bastare”. E infatti bastò. Ma quando un’altra generazione dopo, Rabbi Israel di Richine si trovò di fronte al medesimo dovere, si sedette sulla sua poltrona dorata nel suo castello e disse: “Il fuoco non siamo più in grado di accenderlo, le preghiere non sappiamo più dire e neppure conosciamo più il posto preciso, ma possiamo tuttavia raccontare il fatto come in realtà è avvenuto”…» (versione di Shmuel Yosef Agnon). Della tradizione non resterebbe che il racconto, la letteratura come religione dei nostri giorni, il rito sostituito dalle letture e dalle omelie. Il moderno, è vero, spezza la catena delle generazioni, rovescia la superiorità sapienziale dei vecchi sui giovani, del modello sulla copia, si inorgoglisce della sua potenza che svilisce la forza del passato, che rende incerte le antiche fedi e mette perciò a rischio l’ebraismo riformato come il protestantesimo; la tradizione cattolica, la continuità apostolica, prova a resistergli proprio in virtù del possesso del messale che conserva fedelmente i sacri testi e in virtù della pratica dei sacri riti che al messale del Vetus Ordo Missae si attengono.

Cristina Campo viene in soccorso di questo «Almanacco» per quanto lo riguarda più da vicino, la questione cioè dell’arte oggi, ricollegando il problema estetico con il discorso svolto fin qui: «L’odio moderno per i riti… Il rito per eccellenza questa esperienza di morte-rigenerazione. So di parlare di qualcosa che i più non sanno che cosa sia, che qualcuno appena ricorda, che sopravvive soltanto in pochissimi luoghi sconosciuti. Sono quelli, io credo, i veri modelli, gli archetipi della poesia, che è figlia della liturgia come Dante dimostra da un capo all’altro della Commedia». Infatti, una liturgia informe e un’eclisse dell’arte vanno di pari passo. Bernard Berenson sembrava offrire un appoggio alle parole della scrittrice, pur parlando della scultura tardo-romana: nelle periodiche crisi «l’artista rimane abbandonato a se stesso, senza un modello che gli sia di mèta: intaglia e gratta, spalma e imbratta, per un vago impulso che gli urge da dentro, ma senza ben sapere che cosa vuol fare e dove vuole arrivare. A caso, uno dei meno incapaci, dotato di naturale talento per il proprio mestiere, può produrre qualcosa che appaga la sua vanità. Comunica la propria soddisfazione agli amici letterari: costoro raramente non riescono a convincere colui che esercita un’arte manuale, che i suoi prodotti, scolpiti o dipinti, sono un esempio di meditata, deliberata, metafisicamente fondata, cosmicamente inestimabile – novità» (L’Arco di Costantino o della decadenza della forma, Electa 1951).

Se non vuole finire nel disorientamento tratteggiatto da Berenson, nella parodia del «cosmicamente fondato», l’artista, l’arte, ha bisogno della liturgia e prima ancora della teologia. Andò così fin dalle origini, dalla scultura greca che dalla concezione della divinità derivava la bellezza umana: l’unica forma dignitosa per gli dèi era quella umana, e la perfezione si impadroniva allora dell’antropomorfismo divino come del teomorfismo umano. Per la pittura medioevale, rinascimentale e barocca, è ancora più evidente che nella Commedia di Dante la dipendenza dalla liturgia.

Estraneo alla cultura greca, il danese Kierkegaard si sdegnava per la ricerca di una immagine di Dio, dovendo l’Assoluto restare soltanto un mistero. Questa però è la cupa religiosità luterana, il cattolicesimo sottolinea invece l’incarnazione, la ostensione di Dio, di cui l’arte vuole essere l’eco. Iconofilia è anche credere al volto visibile del Mistero. I piccoli Kierkegaard senza tormento del nostro tempo criticheranno come idolatrica l’antica liturgia, ripeteranno l’accusa di estetismo. Certo, si dovrebbe replicare, la liturgia si svolge in forme umane, esteriori, non è un delirio né una visione interiore, può essere accompagnata dal «Kitsch linguistico, musicale, pittorico…» di cui parla Martin Mosebach nel suo L’eresia dell’informe (edito in italiano da Cantagalli di Siena) – titolo che allude alle commistioni con i veleni estetici di oggi –, oppure essere sorretta dall’arte contrappuntistica di Palestrina e discepoli che mette in musica la parola divina. E si può avere come in questa chiesa romana, quale vigoroso sussidio per la vista, la pala d’altare di Guido Reni (del soave Guido, come fu sempre chiamato dai contemporanei pure abituati ai toni sublimi) o un inguacchio di un tardo transavanguardista, commissionato o meglio subìto in quel di San Giovanni Rotondo da frati incolti che orecchiano la voga.

È dunque la bellezza cattolica a fare scandalo tra i negatori della immagine fisica di Dio. La qualità della preghiera, del rito, che non cede alla credenza diffusa secondo cui l’espressività informe sarebbe più adatta all’incontro con il divino. La domenica, nella chiesa della Trinità, si può constatare la potenza nell’universo sacro dell’arte visiva e dell’arte musicale rigorosissimamente strutturate. Il cerimoniale rigido, che prevede genuflessioni e inchini, gesti e precedenze, ha la stessa disciplina ed esattezza di un’opera d’arte, disegna una forma che si fa speculare della corte celeste. Al momento in cui il Simbolo costantinopolitano, cantato polifonicamente, professa coralmente la fede nel visibilium et invisibilium, lo sguardo corre per l’abside, alla ricerca delle cose visibili che rinviano a quelle invisibili, ai segni che qui sono pitture come la Trinità di Guido Reni, la Trinità raffigurata nelle fattezze umane. Moltissime chiese romane, potrebbero esser definite «il santuario della bellezza del corpo umano», come dice George Weigl della Sistina. Questo è il sentire cattolico.

Credo, scandisce il coro, in «unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam» davvero fatta carne, in continuità fisica con gli apostoli attraverso la catena di papi, vescovi e sacerdoti che si snoda nei secoli. La promessa divina ad Abramo si svolge nel tempo mediante la continuità di sangue, la stirpe ebraica; quella cristiana va oltre la filiazione di sangue ma ricorre ugualmente a un contatto fisico, il battesimo, la consacrazione sacerdotale degli eredi di quel drappello apostolico con l’imposizione delle mani, con l’unzione.

«Et exspecto resurrectionem mortuorum» si canta con la massima solennità. Aspettano tutti la «vitam venturi sæculi», e nella speranza la cerimonia si illumina di Paradiso. Amen.