martedì 6 novembre 2012

La rivoluzione e la morte

~ GLI SCRITTI DI DON DE LUCA ~
~ SECONDA PUNTATA ~
~ SI PUÒ CAMBIARE IL MONDO? ~

Proseguiamo nel ricordo di Giuseppe De Luca a cinquant’anni dalla sua morte.
Nella basilica di San Pietro, la Porta di Giacomo Manzù, opera considerata allora scandalosa e opera che celebrava il Concilio, aveva dietro il battente sinistro, incisa dall'autore, una dedica: a don Giuseppe De Luca; non era insomma un reazionario malvisto quel prete che frequentava Roncalli e Togliatti. Nel primo anniversario della sua scomparsa, il capo dei comunisti italiani lo commemorò in un articolo su «Rinascita», rievocando i loro incontri (il politico ateo leggeva i Trattati antimanichei e chiedeva un parere al sacerdote su una nuova traduzione; certo che altra cultura anche tra i dirigenti della sinistra), articolo che «l’Unità» del 15 marzo di quest’anno ha riportato nelle sue pagine ed è perciò facilmente rinvenibile: vi si legge un Togliatti devoto del letterato in tonaca, con espressioni addirittura di «venerazione» per il piccolo prete del Sud. Un cattolico di sinistra, dunque, don De Luca? Uno che cincischiava con le verità cristiane per dare una patina di nobiltà alle questioni umane troppo umane? No, don Giuseppe era l’amico fidato di Alfredo Ottaviani, il guardiano delle verità dogmatiche, e proprio per la saldezza del suo credo cattolico poteva parlare con chiunque senza timidezze. Nelle poche righe che citiamo qui sotto egli mostrava come tutti i più sottili problemi sociali fossero nulla di fronte ai Novissimi, ovverossia Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso. La redenzione è un fatto cristiano, sosteneva il prete-letterato, sarebbe «da pazzi» credere in una redenzione sociale che risolva i punti-chiave della vita. Le ideologie socialiste, le ideologie in genere, diventavano in questo modo delle fatuità o, nella migliore delle ipotesi, dei piccoli e pur rispettabili tentativi di cambiare i dettagli del mondo (a maggior ragione, più frivole del Settecento francese sono le attuali battaglie ‘politiche’ per imporre le nozze parodistiche, le invidie salottiere delle auto blu, gli sguardi viziosi nell’intimità dei governanti...). È l’obiezione decisiva contro la politica totalizzante e di massa dell’ultimo secolo. E se gli anni Sessanta del Novecento furono ripieni della parola ‘sviluppo’ – il cattolicesimo montiniano ne farà addirittura una bandiera ecclesiastica –, all’inizio di quel decennio, pochi mesi prima di morire, don Giuseppe sembrava svuotare di senso le parole-chiave del progressismo laico e cristiano.

«Che questa vita terrestre via via possa anche migliorare (Dio voglia che non peggiori, non dico nella tecnica, dico nello spirito), che le condizioni del vivere sociale possano anche alleggerirsi, ingentilirsi, nessun dubbio; quantunque io non so che redenzione sociale sia quella che viene innanzi di pari passo con ferocie inaudite: deportazioni in massa, campi di concentramento, nazioni recinte (come greggi infetti) da filo spinato, coazioni materiali strazianti, manipolazioni della psiche, atrocità spirituali di ogni sorta, bombe atomiche, per tacere d’altri congegni dell’identica asprezza e barbarie. Tutto sommato, peraltro, un riscatto sociale è indubbiamente in atto.

Che sia possibile arrestare il dolore fisico, la malattia e la morte, disperdere l’angoscia, scongiurare la disperazione, a nessuno verrebbe fatto di sognarselo. Chi spegnerà dentro di noi un solo dei cento focolari e vulcani di peccato; chi abbatterà le insorgenti e in eterno ricorrenti furie; chi sradicherà la concupiscenza dalle radici, sì da pulirne il campo dell’anima, campo delle sementi e campo dei giochi; chi ricucirà alla fine nel nostro fondo più fondo la vena segreta della colpa? Nessuno, ed è inutile augurarselo. Crederlo possibile, sarebbe non vano ma pazzo. Nemmeno l’utopia lo ha mai contemplato.

Nessuna rivoluzione al mondo, nessun rivoluzionario ci si proverà mai, mentre pure il nostro guaio, il solo reale guaio sta tutto qui, non altrove; sta nel peccato, e per conseguenza nella morte. Per ciò che concerne la morte, poco o nulla serve discettarsi sopra e intorno; la cosa va da sé, lapalissiana. Nessuno può nulla contro la morte. Per quanto invece tocchi il peccato, lo si denomini come si vuol meglio, anche a non essere credenti, c’è anche lui, non lo si toglie di mezzo tanto facilmente. Nessun cuore d’uomo ignora il morso silenzioso, così insostenibile, del rancore; l’angoscia accanita dell’ambizione; la delirante e perfida incantazione della lussuria; la sedizione (è una vera e propria sedizione, durissima) dell’odio: nessuno. Inutile farla da gentiluomini e galantuomini: chi dicesse d’essere essenzialmente buono, o è un fatuo (beato lui), oppure è, non fosse che per codesta affermazione, un fannullone. Non un cattivo, ma un fannullone. Non ci si può dare spavaldamente per ciò che non si è, e nessuno può dirsi buono, perché nessuno è buono, nessuno. Lo ha detto il Signore. E chi buono è, quando è, non è buono alla stessa maniera come è corto o come è lungo. Sarebbe comodo. E sarebbe bella: diremmo, quando fosse così, che la signora del piano di sopra è buona, quella del piano di sotto invece è cattiva; sarebbero nate così, le poverine. No, come si è dotti, come si è tecnici, come si è atleti a questo modo si è buoni, a questo patto, a questo prezzo. Ci si diventa, insomma, per una disciplina; e qualsiasi disciplina, per entusiasmante che paia, almeno sulle prime, è dura, durissima. La disciplina della bontà (lasciamo dire agli sciocchi, quelli che fanno parlando un vocino filato, flautato, non perché colmi d’unzione ma perché untuosi), la disciplina della bontà si chiama di nome con un nome solo: si chiama la croce.

Non esistono, ahimè, rivoluzionari i quali si pongano in cuore di fare una rivoluzione contro la morte, contro il patimento fisico, contro l’amarezza inesauribile, incolpevole, cocente dell’animo, contro i moti sregolati e subitanei del cuore. Le rivoluzioni che finora si conoscono scoppiarono tutte, dal più al meno, non sopra il pane quotidiano, bensì sul maggiore o sul minore agio. Il quale agio è altra cosa, ben altra cosa dal pane quotidiano: l’agio è la prima, ancora innocente, quasi bella e cara, maschera della ricchezza. I Santi, di fatto, come alla ricchezza, così non si sono affidati mai con troppa fiducia al’agio. Ci si odia nelle rivolte e nelle sommosse, ci si combatte e uccide non per altro scopo. Il pane è come il sangue: sta più su. Il pane e il sangue, cioè la vita. […]

Noi non si ha bisogno, alla fine, di questo, di quello, di quell’altro: tutte trappole, nuove trappole e nuovi inganni. Si ha bisogno di gioia. Se il paradiso è, come è, il luogo della gioia, chi quaggiù ne ottiene anche un minimo, di questa gioia, ristabilisce per quanto è in lui e riapre il paradiso terrestre[…]». (da Bailamme, Morcelliana, pp. 284-291)