sabato 7 maggio 2011

Tristezza in fiera

~ UN WEEKEND A ROMA PER IMPOVERIRE LA SENSIBILITÀ ~

«Uno spettro si aggira per il continente post-moderno, nella Wasteland inaridita dell’intelletto; uno spettro mimetico e multiforme, e questo spettro è il concettualismo degradato di massa che trasforma ogni cosa sensibile in un’astratta formalizzazione intellettuale, e credendo di ‘aggiornarsi’ si aliena all’esperienza». Siamo ricorsi alle parole di Raffaele La Capria (La mosca nella bottiglia, 1996) per commentare un fine settimana in cui Roma è invasa da futilità estetiche, una delle periodiche fiere dove si smercia il Contemporaneo, si espongono e si mettono in vendita gli spettri. Chi meglio dell’allegro e saggio scrittore napoletano può scherzare sull’indottrinamento intellettuale che altera «la sfera della sensibilità impoverendola più che arricchendola»?

La fiera testaccina raduna gente del denaro (i rivali di Arcore) e maniaci dell’inutile, per fare commercio di garbugli. E noi ne sorridiamo con La Capria: «“L’essenza dell’arte non è la Bellezza bensì il Significato degli oggetti (dicono i maestri concettualizzatori). Ma al mio senso comune non importa proprio niente del Significato, vuol essere sedotto e abbagliato dalla Bellezza”. Separare l’arte dalla Bellezza, voltare disgustati la faccia dall’altra parte non appena la bellezza tentatrice sfolgorava come la dea Afrodite, è stato il compito di chi ha voluto rendere il mondo più triste, eliminando a uno a uno tutti gli dèi e sostituendoli con l’esercizio della contrizione». Non lo si legga banalmente come l’operazione cristiana di sostituire gli dèi falsi e bugiardi con più oneste e luminose creature (i santi) che mediavano tra Cielo e Terra, bensì come un’allusione ai saccenti quanto rozzi spacciatori dell’arte non bella.

Le caricature delle immagini, le deformazioni, le loro violazioni, non sono una esclusiva del nostro tempo, risalgono come minimo all’iconoclastia protestante: con la satira ci si emancipava più facilmente dal culto delle immagini, dalla liturgia cattolica; con lo sberleffo visivo ci si assicurava meglio che il potere della Bellezza era davvero abbattuto. Ma poi lo stesso Lutero si rendeva conto dell’errore capitale che si veniva a creare e se la prendeva con i più accesi dei suoi seguaci, perché «accade che essi eliminino immagini esterne ma per riempire il loro cuore di idoli» (in una predica del 1522). Se infatti un tempo le immagini erano il pubblico riflesso di quel che alimentava il cuore dell’uomo, adesso quanto cova nell’animo si forma e si esprime disordinatamente, capricciosamente, senza chiarezza alcuna, e si nasconde nella confusione delle onnipotenti emozioni. La febbre emotiva si accontenta di parole, di «icone delle parole» (Hans Belting), non riuscendo proprio a sopportare la seduzione delle immagini, la potenza visiva. Malinconici e inappagati si aggirano i pubblici del Contemporaneo messo in mostra. Compiono pellegrinaggi per inginocchiarsi davanti a idoli disgustosetti.

«Se si parla di Bellezza si è subito sospettati di Kitsch», diceva Balthus negli anni Settanta, quando si vedeva attorniato dagli aggressivi semiotici. Da allora, ci si ritrovò senza bellezza e con molto Kitsch, un po’ dappertutto.