giovedì 19 giugno 2014

Resistenza romana

~ QUANDO LA CAPITALE CATTOLICA
SI OPPONEVA AL MONDO ~
  ~ DAL DIARIO DI JULIEN GREEN ~

Nel paludoso terreno del Nuovo Mondo fondato principalmente sulle fortune pecuniarie anche la Chiesa cattolica, e già molto prima del pasticcio conciliare – lo si è visto nel precedente articolo dell’«Almanacco» con il reportage anni Trenta di Mario Soldati – cedeva ai sincretismi, ne pareva quasi costretta dai meccanismi della modernità. Però va pure sottolineato che, nei medesimi anni,  l’alma città di Roma restava eroicamente al di sopra della mischia del Novecento. Nonostante che, dal 1870 in poi con l’invasione italiana del più antico stato d’Occidente, l’Urbe si spaccasse in due, nonostante la convivenza forzata della città santa con la città dei massoni prima e con la città dei fascisti dopo, nonostante l’annacquamento dell’universalismo millenario per il veleno nazionalistico iniettato nelle sue vene urbane, la Roma più piccola per estensione, asserragliata nella valle dove fu sepolto Pietro, era quella  a cui si guardava da tutto il pianeta. Svettava sulle miserie dell’epoca, mostrava autorità, bellezza, saggezza, sapienza. E una dignità unica con la quale resisteva alle cadenze del nuovo, alle attrazioni del precipizio. La capitale della forma era, allora, del tutto indifferente agli espressionismi montanti.

Roma restava avvolta dal mistero e si ammantava di oscuri significati simbolici. Ne approfittavano anche importanti letterati, pronti a scendere nei sotterranei vaticani per evocare ed equivocare quei segreti dell’eternità, speculandoci romanticamente, giocando in modo facile sull’accostamento del sublime al tenebroso, al complotto sinistro, magari per mano gesuita o di monaci arcaici, come già avevano fatto, sia pure con maggiore rigore, gli autori primo Ottocento del Viaggio in Italia, a cominciare dal magico Hoffmann nel suo Elisir del diavolo. Manteneva, inoltre, l’oppido cattolico forti legami con le antiche religioni pagane, dal momento che i sagaci padri della Chiesa avevano strappato le cose buone alle credenze idolatriche per accoglierle nel patrimonio apostolico. In pieno Novecento, dunque, capitale del culto, corte degli emissari del trascendente, incaricati dal Dio incarnato di tenere i rapporti tra Cielo e Terra, di rappresentare quella incarnazione nella storia, di ospitare il vicario del Verbo fatto uomo, ovvero colui che ne continua l’opera sua su questo mondo, nella lunga attesa del suo ritorno, disbrigando gli affari correnti e straordinari, talvolta atroci, dell’umanità, cancellando e perdonando il male umano, indicando il culto angelico, anticipando quaggiù, sulla tomba del «Principe degli Apostoli», come si amava ancora dire, le liturgie del Paradiso. Che effetto poteva fare tutto ciò a un letterato parigino turbato dal mistero della carne?  

Convertitosi a sedici anni dal protestantesimo alla religione di Roma, cattolico entusiasta fu Julien Green, eroico come molti convertiti; eppure a venti se ne allontanò, l’attrazione omosessuale parendogli più prepotente. Ci mise del tempo per rientrare nell’alveo cattolico, per misurarsi con le proprie tentazioni, per vivere in modo aristocratico l’omofilia, per conciliare il gusto dell’universo maschile con la morale di Roma. Quando nel 1935 scende sulle rive del Tevere è dunque  critico verso la rigidezza di questa religione fedele ai precetti biblici. Diffidente verso la veneranda istituzione. Eppure se apriamo il suo Diario al volume che va dal 1935-1939 (traduz. italiana di Libero de Libero, Mondadori, 1946) leggiamo il racconto di una seduzione. All’epoca del viaggio, il mondo si incamminava nella via crucis del nuovo conflitto mondiale, il secondo in pochi anni. Basta qualche riga del suo taccuino per ritrovare col senno di poi le anticipazioni di quel suicidio europeo. Notiziole che precedono leggere il rimbombo della più devastante guerra mai combattuta su questa terra. «6 febbraio 1936. - Ciapaiev, film russo che si proietta al Panthéon. Episodio della guerra fra russi bianchi e rossi. Il pubblico applaude con trasporto il massacro dei soldati bianchi. Ciò mi ha disgustato e me ne sono andato prima della fine protestando a voce alta. Sono dell’opinione che tanto qui come altrove la folla è proprio sinceramente incivilizzabile» (p. 49). Oppure, passando dal cinema alla realtà: «24 luglio 1936. - Da una settimana è scoppiata la “rivolta spagnola contro il bolscevismo”. Notizie scoraggianti. Ieri alcuni comunisti hanno decapitato tre gesuiti e ne hanno portato in giro le teste su vassoi d’argento, tra gli applausi di una folla delirante.  Un po’ dovunque, villaggi saccheggiati, chiese in fiamme e preti sgozzati» (p. 56). E spostandoci nell’isola britannica dove pure regna ancora la pace: «9 ottobre 1936. - In questa settimana l’Adelphi Terrace è scomparsa; un po’ della civiltà inglese che se ne va. A Londra tutto quanto ha più di cento anni è minacciato. Si sventrano giardini pubblici, si demoliscono chiese» (p. 60). I bombardamenti completeranno l’opera.

Lontanissima se non dal mondo – come diceva del suo eremitaggio un monaco del Monte Athos – dalle banalità del mondo, dai discorsi inconcludenti, dai progetti nichilisti, appariva Roma. «11 aprile 1935.-  A Roma. Ẽ ridicolo non essere completamente felice qui. […] Stamane a San Pietro. Troppo oppresso per capire, per vedere anche. Tutto in questo edificio tende a sbalordire, a intimidire il visitatore…» (p. 15). Si agitano i fantasmi puritani, i dubbi tormentosi del protestantesimo dell’infanzia.  Torna l’eterno sospetto che la città sia rimasta la capitale del paganesimo, secondo la più scontata delle interpretazioni. Un gigantesco problema per le anime semplici, Il frate sassone se ne afflisse nel suo convento agostiniano come nella sede di Pietro. La Babilonia, la Grande Prostituta. Ribelli e senza speranza non ne afferravano i caratteri straordinari: il «general intellect» dell’ultraterreno, la centrale strategica della conquista del Paradiso.

«4 aprile. - In San Pietro per la cerimonia delle Palme. Il clero attraversa la basilica in tutta la sua lunghezza dentro una nebbia di incenso. Due cori si rispondono, quello della processione e quello d’una tribuna nei pressi dell’altar maggiore. Effetto stupendo.  […] Non posso fare a meno di pensare che in tutto ciò ci sia un ricordo del Tempio, poiché la Chiesa è la memoria dell’umanità» (p. 15). Nel cuore della corte suprema dove risiedevano i custodi della tradizione e, allo stesso tempo, gli araldi di quel nuovo assoluto che è il messaggio evangelico.

«17 aprile. - A San Giovanni in Laterano. C’erano canti  che mi hanno commosso a tal punto da farmi cadere in ginocchio insieme a tutti. […] Ero andato a guardare il soffitto dorato e i grandi mosaici, e quella liturgia m’ha scombussolato» (pp. 15-16). L’arte come squisito pretesto, l’aperitivo di cui parlava Baudelaire.

La liturgia della Settimana santa  non aveva ancora subìto la riforma/semplificazione dei primi anni Cinquanta. Molti dettagli dei tanti riti accessori che si svolgevano nella basilica vaticana  sono dimenticati ormai anche dai più vecchi di noi. «18 aprile. - Giovedì santo. In San Pietro a veder lavare l’altare. Tale cerimonia richiama molta gente e noi siamo entrati con difficoltà. Intorno a noi si parla a squarciagola. In un angolo della basilica una fila interminabile di fedeli passa sotto la lunga ferula d’un canonico semisvenuto per la stanchezza: è un grosso vecchio pallido, vestito di moerro porpora con ermellino; la sua mano stanca fa un gesto incerto per inclinare la ferula penitenziale sul capo di tanta gente. Somiglia, sul trono, a un funzionario romano in un affresco di Piero della Francesca. Frattanto i ceri si spengono e l’ultimo salmo ha termine. La folla fluisce verso il grande altare barocco del Bernini. Enorme baccano. I fedeli si mettono allegramente a chiacchierare; i canti vanno da un punto all’altro della basilica, si rispondono, si richiamano e sembrano cercarsi come ciechi. Si versa acqua sull’altare, dopo che uno strepito di tuono ha annunciato che Cristo è stato catturato. Il clero si dirige allora verso l’altar maggiore. Tre vescovi prima, poi il cardinal Pacelli asciugano l’altare con strofinacci di paglia fissati a delle bacchette. Seguono altri prelati (fra essi un parente del re di Sassonia), canonici e beneficiati, alla fine ragazzi del coro che non interessano nessuno. […] Il cardinale passa proprio in quell’istante. Ha una dignità stupenda, con grandi occhi fissi e un che di strabico nello sguardo. Faccio appena in tempo a riconoscerlo, poiché cammina svelto e scompare quasi subito. Dietro un filare di ceri accesi, un prete da una tribuna mostra il velo della Veronica e la Sacra Spina. Proprio a me vicino, un giovane ecclesiastico prega, con gli occhi chiusi, il volto esangue, piuttosto simile al ritratto di San Benedetto Labre che ho visto, il giorno prima, a Palazzo Corsini. […] Esco e mi ritrovo sotto il colonnato del Bernini, incantato e insieme sconcertato. Ma che m’aspettavo? Speravo forse che il cielo s’aprisse?» (p. 16). C’è un gioco di rimando con l’arte: dai palazzi e dai musei i personaggi dei dipinti si specchiano nei prelati e nei fedeli che animano i riti. Si ripetono le mirabilia Urbis che mossero milioni di pellegrini. Il «vecchiarel canuto e stanco» di Petrarca che «viene a Roma, seguendo ‘l desio, per mirar la sembianza di colui ch’ancor lassú nel ciel vedere spera». Ossia quella reliquia della Veronica la cui ostensione oggi avviene nel disinteresse di turisti perplessi, accecati dalle immagini del digitale.

« [A Frascati, nella Villa Mondragone, allora noviziato dei gesuiti]. Dalla finestra scorgo l’immensa pianura bluastra in mezzo alla quale Roma fa una grande macchia rosa. Ho pensato agli allievi e ai professori che sbadigliano dinanzi a quel paesaggio meraviglioso» (p. 20). Al Pincio c’è «una gioia tale nell’aria che non ho potuto resistere a lungo al contagio».  Nella chiesa sulla Via Appia contempla il san Sebastiano cui il tempio è dedicato: «sta sdraiato sotto un altare in una di quelle pose voluttuose che giustificano il malumore dei protestanti a Roma, ma è bellissimo. Troppo bello. Ẽ un Apollo che fa degnamente il paio con la Santa Teresa in Santa Maria della Vittoria. Il dio pagano s’è infilato in una chiesa pagana per dormire tranquillamente sotto l’altare del suo rivale» (p. 21).  Ancora patemi d’animo nel separare le forme pagane da quelle cristiane. E se invece  l’incarnazione consistesse nel prendere oltre che l’involucro umano anche le forme pagane, la beltà degli antichi trasfigurata dalla promessa biblica, dalla Rivelazione?

Già si parlava di capitale dell’immateriale, ma era proprio così? I corpi avevano un ruolo essenziale in questa santa religione. «7 maggio. - Roma. San Bonaventura, non lontano dall’arco di Tito, è una chiesa piuttosto insignificante, ma che cela sotto i suoi altari, singolari reliquie. Bisogna chiedere la sagrestano un lume e lui vi darà un candeliere del quale ci si deve contentare. Coricato in una bara di vetro, sotto il primo altare, uno scheletro in perfetto stato ostenta una posa elegante della quale non si osa sorridere: ha le gambe incrociate e con un gomito riposa su un cuscino rosso, la testa vuota s’appoggia su una mano delicatamente piegata. Ẽ vestito pressappoco come un cantante in un’opera del diciottesimo secolo: il torace chiuso in una corazza di tulle e di ricamo d’oro, il cranio impennacchiato di piume bianche un po’ grigie, le rotule ornate di roselline. Ẽ San Floriano martire, che hanno bardato in quel modo duecento anni orsono.

«Una donna gli sta dirimpetto sotto il secondo altare, vestita invece d’un grazioso abito azzurro di re di rose rosse che avrebbe incantato Nattier. Nella sua mano guantata di tulle argenteo un fiore di vetro che lei sembra odorare. Per sostenere il peso della testa calva e grinzosa, il suo braccio si appoggia con civetteria su dei cuscini rosa che appena preme. Chi è? Non hanno saputo dirmelo.

«Finalmente, sotto l’altar maggiore, una mummia spaventosa in un abito da bigello, e quella cosa tutta calcinata dal tempo è quanto resta di San Leonardo, morto nel 1751» (pp. 25-26). E qualche giorno dopo: «22 maggio. - Tornato a San Bonaventura per osservare più attentamente i santi barocchi. Non si guarda mai così da vicino senza che qualcosa vi sfugga. San Floriano porta, in verità, una corona di rose, e ai suoi piedi sta il casco d’argento adorno di fasce da lutti; con una mano regge una specie di palma di carta su cui è scritto il suo nome. La santa che gli sta dirimpetto si chiama Colomba; la gonna è orlata di rosa turca;  i suoi guanti di filigrana d’argento somigliano a guanti che portano le nostre donne oggidì. Così come sono, l’uno e l’altra, quanto sarebbero piaciuti a Baudelaire» (p.32). Ma se oggi Baudelaire si arrampicasse fino a questo conventino campestre in mezzo al Foro Romano resterebbe deluso: dappertutto cartelli che enfatizzano una ‘spiritualità francescana’ piuttosto sentimentale; i corpi morti, nell’attesa beata della resurrezione, restano ormai nascosti agli occhi dei fedeli. Lo scandalo cristiano va occultato per rispetto delle mode e del mondo.

Infine. «Ieri sera, al cinema di piazza Barberini. Nell’intervallo il soffitto s’apre in due come una porta scorrevole. Appare allora, sopra di noi, palazzo Barberini con le sue finestre severe, chiuso in un sogno da cui noi siamo esclusi…» (p. 32).     

Trent’anni dopo l’universo cattolico era stravolto. Roma resisteva con sempre maggiori cedimenti. Ma restava pur sempre fondata su un basamento granitico per opporsi al mondo; la rocca, la pietra ne fu l’epitome. Green, tornato da lungo tempo alla religione cattolica per restarvi fedele fino alla morte, assisteva smarrito alla protestantizzazione dei ‘papisti’. Ma osava parlare ancora negli anni Ottanta di «bile protestante». Eccentrico nella cultura del tempo. La Riforma non conquistava più i cuori dei suoi fedeli ma irretiva i teologi cattolici, l’aveva vinta sulle loro timidezze. Ci si vergognava infatti della gloria, del mistero. Guardando indietro, Green si accorgeva che un «mezzo arianesimo» aveva ispirato i maestri della sua infanzia, compresa la venerata madre: non riuscivano proprio ad adorare il Cristo Dio, a piegarsi davanti al Crocefisso. Per loro Dio era una sostanza e Gesù un’altra; ovvero, un uomo straordinario, non di più. La stessa critica che Newman rivolgeva all’anglicanesimo. Adesso quella «mezza eresia» si diffondeva tra vescovi, preti e catechisti post-conciliari. Per Green i dubbi giovanili erano superati. Quel che aveva visto nelle basiliche romane lo mantenne soggetto allo splendore cattolico per tutta la sua lunga vita di novantotto anni. I rapimenti dell’anima e del corpo avevano fatto cadere i pregiudizi e le diffidenze. Le abitudini pigre erano abbattute dalla bella forma. Al momento della riforma liturgica sottoscrisse l’appello romano di Cristina Campo e quello britannico di Agatha Christie. Nel suo L’expatrié. Journal 1984-1990 (Ẽditions du Seuil, 1990), alla data  1° ottobre 1989 annotava: «Questa mattina, messa a Chaumont, sulle rive della Loira. La chiesa, della fine del XIX secolo è in stile gotico, senza mistero. Ma la messa – oh, meraviglia – è detta come si deve all’altar maggiore. I bambini del coro sono in bianco dalla testa ai piedi. In latino i canti, il simbolo di Nicea; il prete giovane, alto e largo di spalle, celebra la messa in modo tale che mi vedo di nuovo nella Chiesa cattolica verso la quale sono andato con grande slancio di fiducia e di amore all’età di sedici anni. Tutte le parole dell’officiante arrivavano distintamente fino a noi e ho potuto notare che al momento della consacrazione, ha pronunciato quelle parole che di solito, non so perché, vengono omesse e che riguardano le mani del Salvatore: “in sanctas et venerabiles manus suas”. I fedeli cantavano in modo conveniente come nei tempi passati. Non sono integralista, e lo sottolineo, poiché l’integralismo ha preso una piega politica e si è separato dalla Chiesa, ma apprezzo il beneficio di una messa che ci è restituita senza per questo separarci da Roma. Sono stato così contento che ho chiesto di conoscere il prete di questa indimenticabile domenica ed egli ha avuto la grande gentilezza di recarsi da me. Ẽ un bretone dal colorito vivo e chiaro. Mi dice che la messa non gli provoca alcun problema con il suo vescovo, il quale mantiene saggiamente un atteggiamento equilibrato. L’effetto sui fedeli è stupefacente. Come me, come molti altri, si sentono perfettamente a casa in questa messa classica. Ricordo al mio interlocutore l’origine dell’altare nella sua forma attuale: Edoardo VI era ferocemente avverso alla messa cattolica, qualificata come sacrilega e blasfema nei trentanove articoli del  Libro della preghiera comune. Benché giovane – morì a sedici anni di un cancro alla gola –, era di una intelligenza molto superiore e di un senso politico acuto. Aveva dunque capito che per abbattere la Chiesa in Inghilterra si doveva colpire la messa. In maniera assai logica, ordinò allora, per sopprimere il sacrificio, la distruzione degli altari, che venivano rimpiazzati da un modesto piccolo tavolo posto accanto al coro. Noi tutti abbiam visto quel tavolinetto…» (p. 499).