martedì 20 marzo 2012

L'inflazione culturale

~ «TROPPI MUSEI, TROPPI TEATRI»,
SOSTIENE UN LIBRO TEDESCO. ~
QUALCUN ALTRO ANDAVA RIPETENDO
SIMILI PARERI MA IN UN ALTRO CONTESTO ~


Allarmatissimi i notiziari italiani nel parlare di un libro tedesco, Der Kulturinfarkt, scritto da quattro signori che si occupano di pubbliche istituzioni culturali. Da noi, ce lo ricordiamo bene, a ogni taglio dei fondi statali per musei e concerti, c’era chi additava l’esempio della Germania felice: laggiù – si diceva in tono celebrativo – sanno bene che «la cultura è un business», che fa crescere il Pil. L’affermazione era inquietante, che gli squisiti piaceri estetici fossero mediati dalle gabbie economiche e finalizzati a maggior gloria del capitalismo risultava una immagine da brivido, ma adesso i quattro tedeschi, dall’alto della loro esperienza smentiscono questa diffusa convinzione e confermano i sospetti dell’«Almanacco»: la spesa ‘culturale’ è ormai insostenibile e folle. Ancora più aberrante, dunque, l’accoppiata tra l’arte e la ‘scienza triste’.

Il libro ancora non uscito pare – secondo i riassunti delle agenzie – riporti cifre impressionanti: dal 1981 il numero dei musei è triplicato e, dopo la riunificazione tedesca, raddoppiato il numero dei teatri, con le sovvenzioni pubbliche che sono schizzate a 9,6 miliardi di euri all’anno. Jean Clair lo va dicendo da decenni, la proliferazione dei musei, non soltanto in Germania, la museificazione del mondo («all’alba del secondo millennio il monaco Glaber guardava con meraviglia ‘il bianco mantello delle chiese’ distendersi sull’Europa. Alla fine dello stesso millennio ci si potrebbe stupire nel vedere il grigio mantello dei musei coprire l’Occidente»), è un problema su cui riflettere, non un record per far emettere gridolini giulivi agli apologeti delle magnifiche sorti e progressive del museo. Addirittura all’inizio del Novecento, lo abbiamo ripetuto tante volte, Hermann Broch metteva in guardia su siffatti pericoli: «Assolvendo i suoi doveri nei confronti della tradizione Vienna scambiò per cultura la passione per i musei e divenne essa stessa […] un museo. […] La musealità era dunque riservata solo a Vienna; come segno di declino, come segno del declino dell’Austria. La decadenza verso la miseria porta alla degradazione nella vita puramente vegetativa, ma la decadenza verso la ricchezza porta al museo. La ‘musealità’ è appunto un vegetare nella ricchezza, un vegetare nella serenità. E l’Austria allora era un paese ricco…». Adesso però sono dei manager di musei e teatri che «chiedono di mettere fine allo spreco di fondi pubblici», e subito i media si inchinano devoti. Con la pedanteria dei tedeschi che controllano sempre lo scontrino all’uscita dei supermercati, gli autori fanno quattro conti e si pongono una domanda: «Sarebbe forse un’apocalisse se sparisse la metà dei teatri e dei musei e alcuni archivi e sale da concerto venissero raggruppate?». Sul libro ancora in allestimento si apre un dibattito, le pagine della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» ospitano degli interventi a favore di una soluzione drastica, l’eco arriva fin qui e terrorizza le corporazioni che su quei soldi pubblici campano e prosperano. Ma circa un anno fa, nel dicembre 2010, le stesse cose le aveva dette con garbo torinese e con linguaggio meno sociologico Guido Ceronetti in un articolo per «La Stampa»; furono rubricate tra le stravaganze di un vecchio. Chi si ricorda del suo amen di fronte al denaro che scarseggia per le imprese culturali? Provava a immaginare un’Italia priva della Scala, evitando le nostalgie delle soubrette in pensione: «Se con un bilancio divoratore della Scala la saggezza dello Stato (mai ci fosse) potesse restaurare degnamente Pompei, non esiterei un momento a dar tutto agli scavi e a proteggerli dall’incuria e dalla sporcizia. […] L’Opera, come il cinema, vixit. Il suo illanguidimento progressivo è inevitabile». Per concludere con una frase scandalosissima all’orecchio dei bigotti: «se la Scala chiude, che male c’è?». Questo «Almanacco» plaudì, quasi solo.

Un’altra discussione suscita il libro dei tedeschi, portando altre cifre che colpiscono come dardi l’opinione pubblica: «A interessarsi all’offerta culturale è solo un’élite colta e ricca, al massimo una percentuale della popolazione compresa tra il 5 ed il 10%», ma «i politici preferiscono inaugurare un nuovo museo o un altro festival, invece di chiedersi il senso di queste nuove istituzioni». Le centinaia di pagine dell’opera di Fumaroli sul senso del contemporaneo, ora uscita pure in italiano, lasciano indifferenti intellettuali e politici; forse l'élite è meno colta di quel che si pensa, forse solo ricca. Il birignao rococò sulla elevazione spirituale delle masse fa breccia.

All’origine dell’inflazione culturale troviamo l’assunto che l’arte è alla portata di tutti. Se si tratta di emozioni, chi non è capace di provarne? Ed ecco la ‘critica’ del «Corriere della Sera» informarci oggi sulla sua esperienza al Pac di Milano. Sotto la direzione di un’anziana punitrice di se stessa, del proprio corpo, anche lei come altri giornalisti e spettatori si è sottoposta a piccoli esercizi di molestia fisica per vivere il pathos di un artista corporale, convinta di essere stata ingranaggio di un’arte «che si è proposta di elevare lo spirito umano verso le cose ultime». Che esagerata: da una parte si trasforma in arte ogni batticuore, dall’altra la si eleva a qualcosa che soltanto la religione ambiva rappresentare, essendo l’arte tradizionale, quella di Tiziano o di Canova, tecnica elaboratissima, non ancora introduzione al Paradiso.

Ad ascendenze più rustiche sembra invero richiamarsi l’usanza del pubblico costretto a esibirsi. Già una trentina di anni fa il teatrino di Raimondi e Caporossi bendava e chiudeva in un sacco lo spettatore ancora fuori dell’edificio per trasportarlo impacchettato in un luogo misterioso. Un passo successivo potrebbe essere la bastonatura crudelissima, chiamiamola body art, il salto mortale che risolve annullandolo il complicato concetto di rappresentazione. Il passo precedente era quel che capitava agli ingenui disposti a salire sul palco dell’avanspettacolo, a far da cavia all’elettricità della platea trucida. Si ricorda al liceo un professore di greco che, spiegando il teatro antico, le lascivie delle rappresentazioni pagane vituperate da sant’Agostino, si raccomandava: «ragazzi, non vi prestate mai a essere il parafulmine dei lazzi del pubblico», chissà forse memore di un’esperienza personale in cui magari l’Angelo Azzurro si era posato su di lui. Fellini aveva messo in scena nelle Notti di Cabiria la sventurata donna che faceva il passo fatale, lasciando il suo posto in platea per offrirsi alle luci del varietà, manipolata dal mago e dagli spettatori complici. Performer borgatara, era l’eroina di un racconto cinematografico, non «si ribaltavano le parti», come direbbe la signora sul «Corriere», il pubblico non giocava all’artista secondo vecchie inversioni romantiche, secondo «il teatro nel teatro», una trovata di Ludwig Tieck nel 1797.