domenica 4 settembre 2011

Quando i laici gridano al sacrilegio

~ IL TEMPO DELLE FESTE E DEI PONTI ~

I laici hanno strepitato alla sola ipotesi di spostare la festività del Primo Maggio e di due altre ricorrenze civili, i parroci invece, consapevoli delle difficoltà economiche del momento, hanno lasciato scivolare le celebrazioni dei santi patroni alla domenica seguente. Se ancora qualcuno dubitasse che le feste laiche – che gli hebertisti e i giacobini inventarono per i loro culti spettacolari, che i bolscevichi adattarono in Russia, i socialdemocratici tedeschi ripresero negli anni di Weimar e i nazisti affidarono alla regia di Leni Riefenstahl – sono una traduzione di quelle religiose, un succedaneo della liturgia, adesso, davanti alla protesta trepidante per le «feste civiche» rese mobili, forse se ne farebbe una ragione. La sola ipotesi che il due giugno, anniversario della vittoria a un referendum, possa essere santificato il quattro viene considerata dai vocianti un insopportabile sacrilegio. La scansione tempo sacro e profano, tempo della festa e tempo del lavoro, è alla base di ogni religione. L’interruzione dello scorrere ordinario dei giorni, del sempre uguale, l’irrompere dello straordinario, apre le porte al trascendente, ecco perché anche i ‘dissacratori’ avvertono confusamente che con il calendario non si scherza.

Per il Primo Maggio hanno protestato in tanti ma pochissimi saprebbero dire il perché di una data tanto sacra. Né si capisce bene quale lavoro si celebri, se la fatica inumana della fabbrica, la maledizione del travaglio salariato, o quello artigianale, libero. E neppure si può argomentare che in mezzo mondo il «lavoro» si commemora in date diverse: il «May Day», la pioggia di rose in Walter Crane e negli affiches russi, la tradizione di poco più di un secolo che allude però al «Ver Sacrum», basta per ritenere quella data inviolabile, coperta da un tabù, appunto.

Uno spolverio sinistro la avvolge nel Problema di Aladino (Adelphi), allegro romanzo tanto citato da questo «Almanacco», in cui Ernst Jünger narra beffardo: «Era un venerdì, Primo Maggio. In tutta Europa questo è un giorno di feste e di misteri. A Würzburg il diavolo traversava la città in una suntuosa carrozza. Sul Brocken danzavano le streghe; nella valle del Bode appariva Brunilde. Le anime dei morti si aggiravano spettrali sui fiumi, campane sotterranee rintoccavano. Da noi in Slesia c’è un detto: “Chi alla mezzanotte di quel giorno vede cadere una stella, scavi nel suo giardino: troverà un tesoro”. Adesso erano diventati d’obbligo i cortei, ma il giorno era rimasto, perché ogni regime vive del mito, seppure in forma attenuata. Nella folla doveva agire un ricordo che, dopo che le bandiere erano state arrotolate, la sospingeva all’aperto, dal vero signore della festa».

Nel tempo cattolico le feste dei santi danno un senso al calendario, lo rendono umano e lo glorificano: il dies mortis corrisponde al dies natalis nello splendore dell’Aldilà, all’accoglienza in Paradiso, le ricorrenze collegano Terra e Cielo, colorano le stagioni, offrono spiegazioni della varie facce della natura, prendono a prestito le scadenze della flora, i caratteri del clima, segnano il passaggio in questo mondo, talvolta nelle contrade protette dai santi in questione, di uomini e donne il cui il ricordo si è mantenuto nei secoli, ebbene, nonostante tutto ciò la Chiesa, che conosce l’arte del compromesso perché padroneggia davvero il tempo, sa venire a patti con le esigenze civili. Perfino una festa solennissima e millenaria come l’Epifania fu soppressa negli anni Settanta (e poi riammessa, anni dopo, per far contenti i venditori di giocattoli) senza troppo scandalo. Viene il sospetto che i laici e i loro sindacati covino in cuor loro il Culto Supremo del Ponte (frequentando le biblioteche romane, si è spesso disturbati dalle chiacchiere dei dipendenti che sembrano concentrarsi nelle strategie per costruire vacanze infrasettimanali, per viaggi-lampo in qualche isola esotica, per povere evasioni dal carcere del ‘tempo libero’).