sabato 7 febbraio 2009

Idola / Il contemporaneo

DOPO L’OSSESSIONE DELLA MODERNITÁ, SI AFFERMÒ QUESTO AGGETTIVO OPACO, SCARSAMENTE EVOCATIVO, A INDICARE IL VUOTO DEL NOSTRO PRESENTE. MA IL DEMONOLOGO KAFKA AVEVA GIÀ COLTO, ALL’INIZIO DEL NOVECENTO, I SEGRETI DI UNA SIMILE CONCEZIONE SOFFOCANTE DEL TEMPO
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«Forse non c’è scempiaggine pari a quella di passare la vita
a leggere scrittori mediocri perché nostri contemporanei
»
Nicolàs Gomez Dàvila, Escolios


Questo idoletto non ha più bisogno neppure del sostantivo arte, l’aggettivo si espande, si sostantivizza a sua volta, è un mondo vuoto e respingente, che contraddice l’esperienza comune e naturalmente il buonsenso, decorato di ironia petulante, chiuso nel museo che meglio sarebbe chiamare Borsa delle quotazioni.

È ovvio che il 2186 ci interessi poco, saremo tutti morti; in genere i posteri che stanno a cuore sono appena i sopravvissuti, i rivali più fortunati, al massimo i nipoti (bisogna esser assai egotici come Stendhal per mirare ai lettori del secolo successivo), ed è difficile immaginare i figli dei pronipoti. Ci si pieghi pure, allora, ai tempi familiari, alle faccende biografiche, abbandonando una concezione dell’arte che scommetteva sull’eterno, ma adesso contemporaneo non significa solo un panorama ristretto, un campicello gramo intorno alla tomba, vuol dire altro, agita tra mille sghignazzamenti la bandiera nera del nichilismo d’accatto.

Altrettanto terroristico degli ‘ismi’ di un secolo fa, ma più cinico rispetto alle utopie e ucronie del Novecento, ha come orizzonte quello piccolo borghese del proprio cortile, del proprio appartamentino ben sbarrato, tutto da consumare in vita, senza alcuna eredità, alcun lascito, senza raccogliere il testimone, casomai scopiazzare dal passato gli aspetti più esteriori, gli unici che si è in grado di afferrare. Da qui il saccheggio di tutti gli stili permesso dal postmoderno, simmetrico alle riproduzioni fotografiche dei capolavori che pendevano inutili e infedelissime nei tinelli a testimoniare l’emancipazione sociale del padrone di casa. Un Biedermeier di massa, privo di dignità e di istruzione.

Al primo punto della sua iattanza: irride l’eternità, relativizza ogni cosa, a cominciare dalla bellezza, ma sul carattere di irreversibilità delle suo operare estetico non ci deve essere dubbio. Guai se qualcuno potesse pensare che un secolo e più di sperimentalismo approdasse di nuovo a qualcosa di stabile, insomma se gli esperimenti risultassero proficui. Il dogma recita: «La nostra stupidità è insuperabile, non avrai altra arte che questa. Se qualcuno provasse ancora a dipingere ricada su di lui l’anatema del ridicolo». In tal modo la gang dei mediocri è garantita. E il circuito economico dei collezionisti ha un fido saldissimo. I massmedia contribuiscono a garantire quel fido ma senza fideiussione, ossia senza rischiare di rimetterci in proprio.

Elevarsi al di sopra del proprio tempo è uno sforzo sconosciuto ai protagonisti del contemporaneo. Picasso pensava alla fama come Velásquez, sapeva che la sua opera sarebbe sopravvissuta ai cubismi e alle chiacchiere dei critici, ma per loro basta far i soldi oggi, contare sul mercato finché dura. Del resto una sì fragile arte del guadagnar denaro non è proprio detto, con i tempi che corrono, che ce la faccia a scavalcare il mezzo secolo.

Il conformismo, la dipendenza totale dal giogo economico, la mancanza di scuole, di uno stile sia pure ridotto a cliché, la invenzione totalmente libera (che corrisponde all’afasia) hanno costretto questa attività ludico-economica a ricorrere a un termine temporale neutro. Il vocabolo ‘postmoderno’ era già troppo significativo, mostrava esplicitamente l’ulteriore degradazione rispetto al modernismo.

Ancora una ventina di anni fa, si udivano innumerevoli predicatori parlare di modernità gonfiandosi il petto. Lo si leggeva pure questo aggettivo passepartout in saggi e trattati dell’ultimo secolo: la questione meridionale si sarebbe risolta con la modernizzazione della penisola, la questione ebraica con iniezioni di modernità nel corpo sociale, ovvero cancellando gli ebrei in quanto tali (perfino Marx, il giovane Marx più ‘liberale’, si compiacque di simili trovate), l’arte modernista era sulla bocca delle attrici esordienti in ogni intervista rilasciata, riecheggiate dai vescovi conciliari che parlavano di ‘religione moderna’. Nella nostra Italia, ancora miracolata da angoli splendidamente arcaici, non erano bastate le lezioni storiche della prima metà del Novecento, per cui nella Germania modernissima, all’avanguardia, si tentò di risolvere definitivamente la ‘questione ebraica’ per l’appunto sopprimendo tutti gli ebrei e in maniera industriale, né ci si accorse dello scarsissimo fascino che aveva la ‘religione moderna’ nei paesi già riformati e protestanti, né al Sud si sapeva come i miliardi spesi e lo sconvolgimento di paesaggi e paesi per costruire le cattedrali industriali nel deserto avrebbero istituito dei santuari per le mafie locali. Poi, d’un botto, magari per mode importate di culto dell’ambiente, si capì anche qui che problema fosse la modernità, ci si vergognò delle espressioni ingenue pronunciate fino al giorno prima. E siccome non si sapeva a che formula ricorrere, siccome la parola ‘presente’ sembrava poco magica, poco adatta a sostituire, come i laici tentano sempre di fare, la Provvidenza, si giunse al tautologico ‘contemporaneo’. Dopo tante digressioni sul tempo, anche sofisticate, ci vennero a dire che ne esisteva uno solo, piatto piatto, dove saremmo stati inchiodati tutti quanti. Con-temporanei, compagni di tempo, compagni di noia, complici nella venerazione delle mode. Il tempo attuale come unico dominio, tutti idolatri della attualità: così in questo telegiornalone in tempo reale, come dicono, flusso della banalità, del sempreuguale, del democratico e così via, l’arte diventerebbe informazione. Oddio!

Ecco, con tale espressione si vuol dire solo che è impossibile andare oltre la barriera temporale della nostra vita – terribilmente mortale come noi –, che non ci trascende, che stiamo soffocati nell'angusto orizzonte. Viene ripetuto spesso: «il passato, la morte...». Affermazione rilanciata enfaticamente dai futuristi, drammatica, partorita all'alba del Novecento dalla fervida mente di Marinetti quando vide morire il fratello ventenne e provò ad accelerare il tempo per cancellare nell’avvenire la possibilità della Falciatrice di insinuarsi nelle nostre vite. Ma, come spiegavano i pensatori tedeschi, «il nuovo è fratello della Morte», o meglio ancora, geniale davvero, Giacomo Leopardi: «Madama Moda, Madama Morte!».

Riandando alle origini, alla disputa tra gli Antichi e i Moderni, prima ancora di quella francese di metà Seicento - con Perrault che affermava la superiorità dei cortigiani del Re Sole sui letterati augustei, mentre Bossuet, La Fontaine, La Bruyère, Racine ribadivano la supremazia degli antichi - la questione fu posta dagli italiani, e in maniera più articolata, sul finire del Cinquecento, lo ha ricordato egregiamente Marc Fumaroli nel saggio Le api e i ragni. Boccalini e Tassoni si misuravano con il mondo dei pagani per scuotere il loro presente. In nome della gloria cristiana, dunque, si affermava il moderno. In Francia i filomoderni si trasformeranno in apologeti del loro tempo mentre gli amanti dell’Antico si manterranno a distanza dall’attualità, introdurranno il pensiero critico. Nella penisola italica però, in mancanza di un forte potere politico da celebrare, la modernità appariva meno monocorde. L’abate olivetano Secondo Lancellotti, nel suo L’hoggidi overo il mondo non peggiore ne piu calamitoso del passato (1623), pretendeva, è vero, che il suo fosse il migliore dei mondi possibili, ma per offrire con questa prospettiva un antidoto alla sfiducia barocca, alla percezione del vuoto, alla depressione quietista; addestrato dal fervore cattolico vedeva la positività del creato e dell’esistenza, in una parola vedeva la bellezza del mondo, anche se un velo compariva ugualmente: la natura umana peccaminosa non variava con le stagioni della storia, e la scelleratezza albergava pure nella sua epoca. Per far risaltare la superiorità dell’«hoggidì», Lancellotti comparava con vasta erudizione tutte le arti e le scienze antiche e moderne ed esaltava quelle del suo tempo perché addirittura migliori delle classiche. Ben altro avviene nei moderni più vicini a noi. Cessata infatti la prosopopea dell’Ottocento positivista, oggi ci si vuole asserragliare nel contemporaneo ma senza vantare alcuna superiorità, anzi enfatizzando la decadenza, crogiolandosi nella decadenza che assume le forme della degradazione, effondendo i cattivi umori, mettendo in scena l’Occidente con il più nero pessimismo frammisto a sensi di colpa. Il quietismo dei nostri contemporanei, mancando di una qualsiasi metafisica, si tinge di rassegnazione e di modestia.

Tuttavia, non è forse un caso che i primi cantori della modernità, Alessandro Tassoni per esempio, invertano l’epica, introducano il carattere parodistico. Nulla di paragonabile, certo, al trionfo del comico, che sempre si accompagna al servilismo politico: l’affollamento di uomini e donne che satireggiano, l’ironia che travolge tutte le forme contemporanee, la dicono lunga su chi oggi indossa una livrea trasparente. Nel tramonto del Rinascimento si trattava ancora di grazia, di sprezzatura, talché c’è chi come il nostro mentore francese in questa disputa ha accostato il malinconico divertimento di Tassoni agli atteggiamenti di Baudelaire.

Destino del moderno l’aspetto ironico? Montaigne sosteneva che le lingue moderne sono troppo languide per trattare le cose gravi. I padri conciliari del Vaticano II non dovevano ricordarsene se proposero i volgari derivati dal latino e le lingue sintetiche e le lingue non sintetiche per dire il sacrificio della Messa, il difficilissimo dramma della vittima che si consuma sull’altare.

Dalla disputa in terra di Francia ‘modernità’ significa anche una qualche forma di frattura con il passato, di crisi. Poi, con il modernismo militante, diviene rifiuto del patrimonio tradizionale, uccisione del padre (la melassa post, certo, non si pone nemmeno questo conflittuale problema, finge di tenere tutto insieme). I migliori dei modernisti sostengono invece che una crisi irreparabile avrebbe investito la percezione, la conoscenza, la rappresentazione, ma talvolta noi abbiamo la consapevolezza, dietro le forme artefatte, di provare ancora sentimenti antichi, piaceri di sempre, dolori di sempre.

Il cattolicesimo «è l’unica realtà che libera le persone dalla schiavitù di essere un prodotto del proprio tempo», diceva Chesterton. Una cultura dell’eternità insegna a guardare oltre l’orizzonte esistenziale, senza per questo sperdersi nelle astrattezze romantiche dell’informe. E Cristina Campo si raccomandava: «il concetto di attualità va rimpiazzato con quello di presenza», perché solo così il tempo si lega al tempo, vengono fuori le analogie e si evita il feticismo della storia, del ‘valore documentario’, delle ‘esigenze dei costumi’. Del presente andava salvato solo quel che è vivo, quel che è «valido ed esemplare». Il «gioco delle novità» non lo prendeva nemmeno in considerazione.

A esorcizzare questo movimento vuoto, anzi questa stasi lunga decenni, circolare e noiosissima, ci viene in aiuto Franz Kafka. È lui il ‘classico’ del nostro tempo frettoloso. E per lui gli ‘spettri notturni’ dell’introspezione, della psicologia, della contaminazione dei linguaggi e delle culture sono il mondo della menzogna. Cui contrappone – è il dovere dello scrittore – l’«innalzare il mondo nel puro, nel vero, nell’immutabile» (corsivo nostro). Spiegava Marcel Granet: «In cinese leggere i classici si dice con la stessa espressione usata per recitare una preghiera». Questo forse il motivo per cui sembra di intravedere un tono sacro nei racconti dell’ebreo praghese. Sacro e classico distinti dalle diavolerie del contemporaneo. Lo scrittore demonologo ha le idee chiare sulla questione. Un aneddoto dice meglio di tante teorizzazioni, andrebbe riportato sui libri di lettura per le scuole dell’infanzia, servirebbe da contrappeso alla imperiosa réclame di titoli che l’industria editoriale diffonde tra i più semplici. Lo riporta un testimone diretto, Gustav Janouch nei suoi Colloqui con Kafka (in F. Kafka, Confessioni e Diari, Meridiani Mondatori, Milano 1972, p.1075):

«Kafka rimase sbalordito. ‘Quanti libri nuovi!’.
Vuotai la cartella sulla scrivania. Egli prendeva un libro dopo l’altro, lo sfogliava, leggeva un passo qua e là, mi restituiva il volume.
Quando ebbe terminato di scorrerli, mi domandò: ‘E lei li leggerà tutti?’.
‘Sì’.
Kafka torse la bocca. ‘Lei si carica di troppe cose effimere. La maggior parte di questi libri moderni è soltanto un riverbero sfiaccolante dell’oggi. E questo si spegne molto rapidamente. Lei dovrebbe leggere più libri vecchi. I classici. Goethe. Le opere vecchie presentano fin dall’esterno il loro più intimo valore: la durata. Ciò che è soltanto nuovo è la caducità personificata che oggi è bella per essere ridicola domani. Questa è la strada della letteratura’.
‘E la poesia?’.
‘La poesia trasforma la vita, ed è talvolta ancor peggio’.
Udimmo bussare. Mio padre entrò dicendo: ‘Il mio signor figlio è qui di nuovo a disturbare’.
Kafka rise: ‘No, no! Stiamo discorrendo di diavoli e demoni’».