giovedì 26 febbraio 2009

minima / Lezioni di realismo
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Contraddittorie lezioni di realismo ci vengono impartite continuamente. In arte, per esempio, è vietato immaginare opere durature, compiute e formalmente elevate; bisogna accontentarsi di quel che passa il convento contemporaneo – cioè un fritto misto di frammenti –, piegarsi docili al dominio del presente, ducunt volentem fata, nolentem trahunt, ci dicono minacciosi e con pessimismo degno di introvabili reazionari. Invertendo il buonsenso però sembra sia lecito fantasticare tutto il possibile proprio laddove la tradizione richiamava alle dure leggi della concretezza: nel regno della politica e dell’economia. Così ci si abbandona ai sogni adolescenziali e si invoca la correttezza delle banche, la trasparenza della politica, il dialogo con i terroristi, le leggi giuste che coprono l’arco della vita dalla culla alla bara, il superamento definitivo delle guerre, la convivenza felice di popoli estranei gli uni agli altri, l’armonia fourierista dei vizi, e le altre consuete amenità del genere. Nel Paese dei Balocchi, le arti si intrecciano allora con l’etica, diventando il coronamento di simili speranze: tutti creatori gli esseri umani e, chissà, quanto prima anche gli animali, a costo di rendere questa creatività democratizzata uno sciocchezzaio condito di estetica senza forma. E senza fede né bellezza.
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Legati alla catena delle mode imperanti, non si riflette più sul maggiore evento storico cui ci è capitato di assistere: la dissoluzione della massima utopia del Novecento che, travestita da scienza, benché assai infondata, escludeva con feroce sarcasmo tutte le altre soluzioni. I più giovani forse ignorano la portata dell’avvenimento, la Google generation non può rendersene pienamente conto, nonostante la rete a disposizione, l’eco si è attutita con rapidità. Per mezzo secolo almeno, in Europa si dette per scontata la vittoria conclusiva del sistema socialista, tutti gli intellettuali del vecchio continente, salvo rari isolati, ne facevano un dogma che resisteva a ogni smentita storica. Dopo che l’Armata Rossa aveva conquistato la parte orientale d’Europa, i frequentatori dei caffé parigini come i filosofi degli atenei italiani cominciarono a celebrare i nuovi vincitori. Inutile, si diceva, perdere tempo dietro l’arte e la religione quando un giorno il sistema sovietico si sarebbe impadronito del mondo; tutto suonava frivolo, mentre i borghesi avevano i giorni contati e l’uomo prometeico veniva forgiato dal comunismo. Questo andavano farneticando i Sartre e i Merleau Ponty, contro lo spirito pratico di Raymond Aron. Questo ripetevano nella Toscana machiavellica come nell’Emilia fattiva, in barba al buonsenso: si aveva bisogno di una religione moderna. Questa era la fede di milioni e milioni di persone in Occidente. Le ‘teste d’uovo’ americane si congiungevano alla internazionale dei dotti e criticavano i governanti poco propensi alla resa. Al di là della Manica, tra gli intellettuali meno ideologici d’Europa, erano ormai non pochi coloro che davano credito al trionfo del socialismo reale, qualche insospettabile lavorava addirittura per l’intelligence con la stella rossa. Certi economisti si facevano profeti di sventura, negando un futuro all’Occidente, che pure conosceva uno sviluppo mai visto, e accreditando misteriosi successi ai piani quinquennali di Mosca (le scienze, talvolta, possono apparire più assolutiste delle fedi). Il filosofo pacifista Bertrand Russell capeggiava il corteo dei capitolardi con lo slogan «meglio rossi che morti». Chi resisteva a questo senso comune planetario? La filosofia esistenzialista si incaricava di celebrare lo scacco, la rinuncia, al punto che molti, pur lontani dall’ideologia comunista, magari con posa stoica, accettavano per pragmatismo il pensierino debolissimo che l’Occidente fosse alle soglie dell’Apocalisse. Dei severi protestanti, per esempio, preferendo il materialismo degli indigenti al consumismo, si lasciavano fuorviare sui destini del mondo. Perfino un concilio ecumenico dedicò buona parte del suo svolgimento al tentativo di venire a patti con il gigantesco nemico. Quanti teologi ripeterono per anni che la Chiesa cattolica doveva guardare in faccia il socialismo che si era affermato a Est, gli Stati atei che rappresentavano l’avvenire. Equivocando sull’annuncio angelico «agli uomini di buona volontà», si accreditavano come tali anche gli sterminatori di cristiani e di israeliti (stranamente, nessuno rimprovera i «silenzi» delle confessioni cristiane sulle stragi degli ebrei nella Russia staliniana).

Appena l’altro ieri, si smise di fare la faccia cattiva e si introdusse la melliflua parola d’ordine della ‘coesistenza pacifica’, ma neppure per un istante si abbandonò l’idea della vittoria finale. Anzi, come ripetevano i pensatori del Partito comunista italiano quando imbonivano la base in preda alle pulsioni estremistiche, la coesistenza si basava proprio sulla certezza che alla fine i sovietici avrebbero vinto la Guerra fredda e senza ricorrere all’arma atomica l’Occidente si sarebbe arreso, l’umanità avrebbe riconosciuto Mosca come capitale del mondo. Invece, i missili reaganiani puntati contro l’Urss, il realismo politico avversato da tutte le anime belle degli anni Ottanta, pose termine alla Terza guerra mondiale, quella fredda appunto, e il comunismo irreale che i maestrini di cinismo avevano predicato essere l’unica salvezza del secolo, precipitò con un contorno di ridicolo e di patetico.
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Altri arroganti maestri di realismo, forse perché delusi dai loro modelli ideologici, si riciclano oggi con l’estetica, facendo la lezione, sempre con grossi sberleffi, a chi resiste al senso unico della storia. Solo che adesso si ispirano più schiettamente al «nichilismo reale». In confronto, però, quando verrà giù il sistema commerciale delle merci selezionate chiamato 'contemporaneo', avrà nomi meno altisonanti da fare arrossire.

venerdì 20 febbraio 2009

minima / La notte del Futurismo

Per celebrare il primo secolo della pubblicazione del Manifesto futurista, in Italia impazzano le commemorazioni stracittadine. Con la scusa del mito della velocità, diffuso da quel drappello di eroi fulminei, le pubbliche istituzioni che vogliono darsi un tono se la cavano con le corse podistiche. Si ricorda con acida pignoleria storicista, e con una scorta di antiquari, un gesto giovanile contro la storia. Una commemorazione a cento anni di distanza è quanto forse li irriterebbe di più. Furono una meteora e così vollero apparire. Già alla fine della Prima guerra mondiale, quando de Chirico e de Pisis passarono a trovare Marinetti nella sua casa milanese ebbero l’impressione di un uomo d’altri tempi, come di una diva sopravvissuta alla sua fama e al suo mondo, lasciarono scritto malignamente i due artisti. Anche la mostra romana inaugurata ieri alle Scuderie del Quirinale ci riportava a epoche lontanissime e, soprattutto le sale del piano superiore, dedicate alla diffusione del verbo marinettiano nell’arte europea, spargevano un’aria cupa, vi regnava la visionarietà da trincea. Una metamorfosi della gioia divina che in questi ambienti fuoriusciva dai quadri di Bellini ancora un mese fa.
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Tra qualche ora, nella città eterna poco amata dai velocisti si festeggia il futurismo con una freddissima ‘notte bianca’ ancora più miserella del solito, ed è proprio una cattiveria nei loro confronti, forse una vendetta. Ma anche l’ennesima conferma dei contraddittori esiti delle avanguardie: nate nella torre eburnea esoterica, finirono en plein air nel coincidere con i più sguaiati riti di massa, quel cult che è già un marchio di ignominia. La gloria delle avanguardie storiche del resto passò più rapidamente, come si addiceva ai loro ritmi. Il modernismo è subito decrepito.
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Stanotte si avranno le processioni democratiche per una squadra di ragazzi violenti poco consoni alle idee oggi dominanti: guerrafondai, nazionalisti, schiaffeggiatori di pacifisti nelle aule universitarie; e Marinetti, il loro leader, un miliardario che sapeva assoggettare i media, andò in giro con la pistola in pugno per le strade di Milano a caccia di socialisti. Ma il mercato culturale, si sa, con le sue ricorrenze, i suoi libri, i cataloghi, le mostre, i documentari, annacqua tutto. A quando, dunque, un tè di vecchie dame per il compleanno di Nietzsche, una partita di calcetto all’oratorio per qualche anniversario del marchese de Sade, una dedicazione di una scuola elementare a Gilles de Rais, una bocciofila intitolata a Gottfried Benn o un canile municipale a Hermann Nitsch?

martedì 17 febbraio 2009

minima / A un giovane comunista

In forma di raccomandazione. Un letterato francese ormai avvolto nell’oblio, André Suarès, «profeta della bellezza», innamorato dell’Italia e in particolare di Siena, a un giovane comunista che nel 1928 gli aveva scritto di essere pronto «a morire per la Rivoluzione» diceva: «Volete morire per il caos? Oh, signore, che errore è il vostro. Può la gioventù misconoscere così la bellezza del dono che le è stato fatto, d’altronde per un sì breve tempo? Non bisogna morire per la Rivoluzione. Bisogna vivere per la perfezione. Questo mondo è quello che è, di uno orrore enorme e di una bellezza divina. Si tratta semplicemente di preferire la bellezza all’orrore».

sabato 14 febbraio 2009

minima / Noi, i falsari

Un singolare destino ha colpito l’arte: quasi per contrappasso, viene incatenata al tempo più caduco, l’effimero, termine che nella Roma barocca indicava le architetture provvisorie, le decorazioni delle feste religiose (peraltro inserite nel tempo saldo della liturgia), il memento macabro della fine imminente. Chi si ribella a un simile imprigionamento è relegato tra i falsari, come successe all’inglese Eric Hebborn, che a Roma, nei decenni scorsi, disegnava alla maniera dei maestri rinascimentali, rinunciava alla propria firma (e alla fama), si nascondeva in un territorio sottratto al tempo. Hebborn sosteneva: «È possibile sfuggire all’influsso del tempo e del luogo in cui si vive e alle proprie inclinazioni stilistiche, ed entrare mentalmente nel mondo atemporale dell’arte dal quale traggono ispirazione gli artisti migliori». Perciò non si arrese al masochismo del contemporaneo, non si rassegnò a un mondo fatto soltanto di rifiuti, fu additato come falsario quando rivelò le sue tecniche, e subito dopo accusato di mentire perché non volevano credere che si potesse disegnare così nella nostra epoca. Lui fu convinto che l’arte vince alfine il tempo. Almeno per molti secoli.

martedì 10 febbraio 2009

minima / L’accento del nulla
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Raccontava Jean Paulhan in un saggio sul terrorismo letterario: «Nel monastero di Assisi c’era un frate con un accento terribile che si trascinava dalla sua Calabria. I confratelli lo prendevano in giro, egli si offese e non aprì più bocca se non per comunicare un qualche guaio, una disgrazia, un fatto talmente grave da lasciar passare inosservato il suo accento. Ma siccome gli piaceva parlare, cominciò ad annunciare catastrofi. E dal momento che era sincero si spinse fino a provocarle.

Ugualmente la nostra letteratura non richiederebbe con tanta cura il sensazionale, l’eccessivo e l’eccentrico se non volesse farci dimenticare che essa è letteratura, che usa parole e frasi. Poiché non si tratta di altro nel suo segreto: le parole le sembrano pericolose e il suo accento odioso». (
I fiori di Tarbes, 1941).

Sottile obnubilazione di un neoclassico potrebbe essere il titolo di questo aneddoto, ché più tardi i toni forti avrebbero smesso di sorprendere. Nelle avanguardie espressioniste, il più bravo di loro, Gottfried Benn, si spinse a riverberare in rima Strophe e Katastrophe, la poesia e il disastro. Adesso, in tutte le arti, contenuti ricercati per la degradazione fanno dimenticare che la forma è inesistente. E nella nostra vita quotidiana rimbomba perennemente il nulla sia pure nella versione minimalistica di una inezia, con l’accento burino di una pinzillacchera.

sabato 7 febbraio 2009

Idola / Il contemporaneo

DOPO L’OSSESSIONE DELLA MODERNITÁ, SI AFFERMÒ QUESTO AGGETTIVO OPACO, SCARSAMENTE EVOCATIVO, A INDICARE IL VUOTO DEL NOSTRO PRESENTE. MA IL DEMONOLOGO KAFKA AVEVA GIÀ COLTO, ALL’INIZIO DEL NOVECENTO, I SEGRETI DI UNA SIMILE CONCEZIONE SOFFOCANTE DEL TEMPO
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«Forse non c’è scempiaggine pari a quella di passare la vita
a leggere scrittori mediocri perché nostri contemporanei
»
Nicolàs Gomez Dàvila, Escolios


Questo idoletto non ha più bisogno neppure del sostantivo arte, l’aggettivo si espande, si sostantivizza a sua volta, è un mondo vuoto e respingente, che contraddice l’esperienza comune e naturalmente il buonsenso, decorato di ironia petulante, chiuso nel museo che meglio sarebbe chiamare Borsa delle quotazioni.

È ovvio che il 2186 ci interessi poco, saremo tutti morti; in genere i posteri che stanno a cuore sono appena i sopravvissuti, i rivali più fortunati, al massimo i nipoti (bisogna esser assai egotici come Stendhal per mirare ai lettori del secolo successivo), ed è difficile immaginare i figli dei pronipoti. Ci si pieghi pure, allora, ai tempi familiari, alle faccende biografiche, abbandonando una concezione dell’arte che scommetteva sull’eterno, ma adesso contemporaneo non significa solo un panorama ristretto, un campicello gramo intorno alla tomba, vuol dire altro, agita tra mille sghignazzamenti la bandiera nera del nichilismo d’accatto.

Altrettanto terroristico degli ‘ismi’ di un secolo fa, ma più cinico rispetto alle utopie e ucronie del Novecento, ha come orizzonte quello piccolo borghese del proprio cortile, del proprio appartamentino ben sbarrato, tutto da consumare in vita, senza alcuna eredità, alcun lascito, senza raccogliere il testimone, casomai scopiazzare dal passato gli aspetti più esteriori, gli unici che si è in grado di afferrare. Da qui il saccheggio di tutti gli stili permesso dal postmoderno, simmetrico alle riproduzioni fotografiche dei capolavori che pendevano inutili e infedelissime nei tinelli a testimoniare l’emancipazione sociale del padrone di casa. Un Biedermeier di massa, privo di dignità e di istruzione.

Al primo punto della sua iattanza: irride l’eternità, relativizza ogni cosa, a cominciare dalla bellezza, ma sul carattere di irreversibilità delle suo operare estetico non ci deve essere dubbio. Guai se qualcuno potesse pensare che un secolo e più di sperimentalismo approdasse di nuovo a qualcosa di stabile, insomma se gli esperimenti risultassero proficui. Il dogma recita: «La nostra stupidità è insuperabile, non avrai altra arte che questa. Se qualcuno provasse ancora a dipingere ricada su di lui l’anatema del ridicolo». In tal modo la gang dei mediocri è garantita. E il circuito economico dei collezionisti ha un fido saldissimo. I massmedia contribuiscono a garantire quel fido ma senza fideiussione, ossia senza rischiare di rimetterci in proprio.

Elevarsi al di sopra del proprio tempo è uno sforzo sconosciuto ai protagonisti del contemporaneo. Picasso pensava alla fama come Velásquez, sapeva che la sua opera sarebbe sopravvissuta ai cubismi e alle chiacchiere dei critici, ma per loro basta far i soldi oggi, contare sul mercato finché dura. Del resto una sì fragile arte del guadagnar denaro non è proprio detto, con i tempi che corrono, che ce la faccia a scavalcare il mezzo secolo.

Il conformismo, la dipendenza totale dal giogo economico, la mancanza di scuole, di uno stile sia pure ridotto a cliché, la invenzione totalmente libera (che corrisponde all’afasia) hanno costretto questa attività ludico-economica a ricorrere a un termine temporale neutro. Il vocabolo ‘postmoderno’ era già troppo significativo, mostrava esplicitamente l’ulteriore degradazione rispetto al modernismo.

Ancora una ventina di anni fa, si udivano innumerevoli predicatori parlare di modernità gonfiandosi il petto. Lo si leggeva pure questo aggettivo passepartout in saggi e trattati dell’ultimo secolo: la questione meridionale si sarebbe risolta con la modernizzazione della penisola, la questione ebraica con iniezioni di modernità nel corpo sociale, ovvero cancellando gli ebrei in quanto tali (perfino Marx, il giovane Marx più ‘liberale’, si compiacque di simili trovate), l’arte modernista era sulla bocca delle attrici esordienti in ogni intervista rilasciata, riecheggiate dai vescovi conciliari che parlavano di ‘religione moderna’. Nella nostra Italia, ancora miracolata da angoli splendidamente arcaici, non erano bastate le lezioni storiche della prima metà del Novecento, per cui nella Germania modernissima, all’avanguardia, si tentò di risolvere definitivamente la ‘questione ebraica’ per l’appunto sopprimendo tutti gli ebrei e in maniera industriale, né ci si accorse dello scarsissimo fascino che aveva la ‘religione moderna’ nei paesi già riformati e protestanti, né al Sud si sapeva come i miliardi spesi e lo sconvolgimento di paesaggi e paesi per costruire le cattedrali industriali nel deserto avrebbero istituito dei santuari per le mafie locali. Poi, d’un botto, magari per mode importate di culto dell’ambiente, si capì anche qui che problema fosse la modernità, ci si vergognò delle espressioni ingenue pronunciate fino al giorno prima. E siccome non si sapeva a che formula ricorrere, siccome la parola ‘presente’ sembrava poco magica, poco adatta a sostituire, come i laici tentano sempre di fare, la Provvidenza, si giunse al tautologico ‘contemporaneo’. Dopo tante digressioni sul tempo, anche sofisticate, ci vennero a dire che ne esisteva uno solo, piatto piatto, dove saremmo stati inchiodati tutti quanti. Con-temporanei, compagni di tempo, compagni di noia, complici nella venerazione delle mode. Il tempo attuale come unico dominio, tutti idolatri della attualità: così in questo telegiornalone in tempo reale, come dicono, flusso della banalità, del sempreuguale, del democratico e così via, l’arte diventerebbe informazione. Oddio!

Ecco, con tale espressione si vuol dire solo che è impossibile andare oltre la barriera temporale della nostra vita – terribilmente mortale come noi –, che non ci trascende, che stiamo soffocati nell'angusto orizzonte. Viene ripetuto spesso: «il passato, la morte...». Affermazione rilanciata enfaticamente dai futuristi, drammatica, partorita all'alba del Novecento dalla fervida mente di Marinetti quando vide morire il fratello ventenne e provò ad accelerare il tempo per cancellare nell’avvenire la possibilità della Falciatrice di insinuarsi nelle nostre vite. Ma, come spiegavano i pensatori tedeschi, «il nuovo è fratello della Morte», o meglio ancora, geniale davvero, Giacomo Leopardi: «Madama Moda, Madama Morte!».

Riandando alle origini, alla disputa tra gli Antichi e i Moderni, prima ancora di quella francese di metà Seicento - con Perrault che affermava la superiorità dei cortigiani del Re Sole sui letterati augustei, mentre Bossuet, La Fontaine, La Bruyère, Racine ribadivano la supremazia degli antichi - la questione fu posta dagli italiani, e in maniera più articolata, sul finire del Cinquecento, lo ha ricordato egregiamente Marc Fumaroli nel saggio Le api e i ragni. Boccalini e Tassoni si misuravano con il mondo dei pagani per scuotere il loro presente. In nome della gloria cristiana, dunque, si affermava il moderno. In Francia i filomoderni si trasformeranno in apologeti del loro tempo mentre gli amanti dell’Antico si manterranno a distanza dall’attualità, introdurranno il pensiero critico. Nella penisola italica però, in mancanza di un forte potere politico da celebrare, la modernità appariva meno monocorde. L’abate olivetano Secondo Lancellotti, nel suo L’hoggidi overo il mondo non peggiore ne piu calamitoso del passato (1623), pretendeva, è vero, che il suo fosse il migliore dei mondi possibili, ma per offrire con questa prospettiva un antidoto alla sfiducia barocca, alla percezione del vuoto, alla depressione quietista; addestrato dal fervore cattolico vedeva la positività del creato e dell’esistenza, in una parola vedeva la bellezza del mondo, anche se un velo compariva ugualmente: la natura umana peccaminosa non variava con le stagioni della storia, e la scelleratezza albergava pure nella sua epoca. Per far risaltare la superiorità dell’«hoggidì», Lancellotti comparava con vasta erudizione tutte le arti e le scienze antiche e moderne ed esaltava quelle del suo tempo perché addirittura migliori delle classiche. Ben altro avviene nei moderni più vicini a noi. Cessata infatti la prosopopea dell’Ottocento positivista, oggi ci si vuole asserragliare nel contemporaneo ma senza vantare alcuna superiorità, anzi enfatizzando la decadenza, crogiolandosi nella decadenza che assume le forme della degradazione, effondendo i cattivi umori, mettendo in scena l’Occidente con il più nero pessimismo frammisto a sensi di colpa. Il quietismo dei nostri contemporanei, mancando di una qualsiasi metafisica, si tinge di rassegnazione e di modestia.

Tuttavia, non è forse un caso che i primi cantori della modernità, Alessandro Tassoni per esempio, invertano l’epica, introducano il carattere parodistico. Nulla di paragonabile, certo, al trionfo del comico, che sempre si accompagna al servilismo politico: l’affollamento di uomini e donne che satireggiano, l’ironia che travolge tutte le forme contemporanee, la dicono lunga su chi oggi indossa una livrea trasparente. Nel tramonto del Rinascimento si trattava ancora di grazia, di sprezzatura, talché c’è chi come il nostro mentore francese in questa disputa ha accostato il malinconico divertimento di Tassoni agli atteggiamenti di Baudelaire.

Destino del moderno l’aspetto ironico? Montaigne sosteneva che le lingue moderne sono troppo languide per trattare le cose gravi. I padri conciliari del Vaticano II non dovevano ricordarsene se proposero i volgari derivati dal latino e le lingue sintetiche e le lingue non sintetiche per dire il sacrificio della Messa, il difficilissimo dramma della vittima che si consuma sull’altare.

Dalla disputa in terra di Francia ‘modernità’ significa anche una qualche forma di frattura con il passato, di crisi. Poi, con il modernismo militante, diviene rifiuto del patrimonio tradizionale, uccisione del padre (la melassa post, certo, non si pone nemmeno questo conflittuale problema, finge di tenere tutto insieme). I migliori dei modernisti sostengono invece che una crisi irreparabile avrebbe investito la percezione, la conoscenza, la rappresentazione, ma talvolta noi abbiamo la consapevolezza, dietro le forme artefatte, di provare ancora sentimenti antichi, piaceri di sempre, dolori di sempre.

Il cattolicesimo «è l’unica realtà che libera le persone dalla schiavitù di essere un prodotto del proprio tempo», diceva Chesterton. Una cultura dell’eternità insegna a guardare oltre l’orizzonte esistenziale, senza per questo sperdersi nelle astrattezze romantiche dell’informe. E Cristina Campo si raccomandava: «il concetto di attualità va rimpiazzato con quello di presenza», perché solo così il tempo si lega al tempo, vengono fuori le analogie e si evita il feticismo della storia, del ‘valore documentario’, delle ‘esigenze dei costumi’. Del presente andava salvato solo quel che è vivo, quel che è «valido ed esemplare». Il «gioco delle novità» non lo prendeva nemmeno in considerazione.

A esorcizzare questo movimento vuoto, anzi questa stasi lunga decenni, circolare e noiosissima, ci viene in aiuto Franz Kafka. È lui il ‘classico’ del nostro tempo frettoloso. E per lui gli ‘spettri notturni’ dell’introspezione, della psicologia, della contaminazione dei linguaggi e delle culture sono il mondo della menzogna. Cui contrappone – è il dovere dello scrittore – l’«innalzare il mondo nel puro, nel vero, nell’immutabile» (corsivo nostro). Spiegava Marcel Granet: «In cinese leggere i classici si dice con la stessa espressione usata per recitare una preghiera». Questo forse il motivo per cui sembra di intravedere un tono sacro nei racconti dell’ebreo praghese. Sacro e classico distinti dalle diavolerie del contemporaneo. Lo scrittore demonologo ha le idee chiare sulla questione. Un aneddoto dice meglio di tante teorizzazioni, andrebbe riportato sui libri di lettura per le scuole dell’infanzia, servirebbe da contrappeso alla imperiosa réclame di titoli che l’industria editoriale diffonde tra i più semplici. Lo riporta un testimone diretto, Gustav Janouch nei suoi Colloqui con Kafka (in F. Kafka, Confessioni e Diari, Meridiani Mondatori, Milano 1972, p.1075):

«Kafka rimase sbalordito. ‘Quanti libri nuovi!’.
Vuotai la cartella sulla scrivania. Egli prendeva un libro dopo l’altro, lo sfogliava, leggeva un passo qua e là, mi restituiva il volume.
Quando ebbe terminato di scorrerli, mi domandò: ‘E lei li leggerà tutti?’.
‘Sì’.
Kafka torse la bocca. ‘Lei si carica di troppe cose effimere. La maggior parte di questi libri moderni è soltanto un riverbero sfiaccolante dell’oggi. E questo si spegne molto rapidamente. Lei dovrebbe leggere più libri vecchi. I classici. Goethe. Le opere vecchie presentano fin dall’esterno il loro più intimo valore: la durata. Ciò che è soltanto nuovo è la caducità personificata che oggi è bella per essere ridicola domani. Questa è la strada della letteratura’.
‘E la poesia?’.
‘La poesia trasforma la vita, ed è talvolta ancor peggio’.
Udimmo bussare. Mio padre entrò dicendo: ‘Il mio signor figlio è qui di nuovo a disturbare’.
Kafka rise: ‘No, no! Stiamo discorrendo di diavoli e demoni’».

mercoledì 4 febbraio 2009

minima / Lacrime flaubertiane

«Voglio commuovere, far piangere le anime sensibili
essendone una io stesso. Ahimè!
»
G. Flaubert, Lettera a Mme Roger des Genettes, 1876

Dopo la meraviglia, nei primi Sessanta, per i sarti che pretendevano il titolo di artisti, si ebbero i pubblicitari americani che imposero i loro marchi con il nome di pop art; adesso tutto un sistema, aziendale, ben strutturato, vende champagne e abiti e vacanze con una cornice estetica. Va da sé che l’esteticità della cornice, la sua bellezza, risulta del livello di sartoria, piuttosto una trovata di moda, un tocco abile nel mercato dei desideri, un titillamento dell’inconscio – dopo che il profondo ritrovato nella superficie (Hofmannsthal) dalla grande arte del primo Novecento è stato messo da parte –, uno sfarfallio per gli occhi, uno spostamento nel sistema di segni che imprigiona gli umani di oggi, mimetico degli alti bassi della Borsa, senza più neppure scomodare i sentimenti. E i musei come degli show room.

In un confronto tra gli animatori di simili aziende del lusso (senza più alcuna eleganza) che si rivolgono aridi al pubblico pretenziosetto della 'cultura' e gli inventori delle televisioni commerciali che con i feuilleton fanno vibrare i flaubertiani cuori semplici, non saranno allora da prediligere questi ultimi, secondo l’insegnamento talmudico, «meglio nessuna cultura che un po’ di cultura»?

martedì 3 febbraio 2009

minima / Provinciali sotto la neve

Tanti anni fa, a Roma ci fu una grossa nevicata e si bloccò completamente il traffico. Imbiancandosi, la città entrava in un incantamento: ferma, silenziosa, vuota come di notte, oziosa come un giorno di festa. In pochi andarono al lavoro, in molti a cominciare dai bambini furono lieti per il raro evento atmosferico. Ma quei soloni dei giornalisti subito cominciarono a prendersela con l’arretratezza della capitale mediterranea, inquisirono i politici, i responsabili pubblici, le coscienze private; maledirono il dolce far niente italico, la pigrizia secolare della cultura cattolica, le abitudini accattone del regno papalino. E per giorni ripeterono che all’estero sarebbe stato impensabile, ché lì il mondo girava sempre bene, noi essendo l’eccezione negativa del pianeta. Da allora, ogni volta che nevica abbondantemente a Londra – ovvero quasi tutti gli inverni – ci si incuriosisce alle cronache sulle pagine estere dei giornali italiani, e tutte le volte la metropoli nordica si arresta né più né meno come da noi, le scuole sono chiuse e le autorità invitano a restarsene tutti a casa. Manca soltanto il codazzo dei commenti moralistici.

Lo stesso avviene per le faccende della politica come dell’arte. Nel Sud dell’anima si è oltremodo sensibili all’esotismo d’oltralpe, sembra sempre che al Nord moderno sia tutto rose e fiori. E si copia senza alcun riguardo per il clima unico della penisola. Si importano perfino architetti, che nulla sanno della luce romana.

domenica 1 febbraio 2009

minima / Arbasino sui bestemmiatori per soldi

Alle adunate del Contemporaneo, si usa sconcertare il pubblico, come al circo ma con minor rischio fisico, perciò in numeri da clown si espongono gli sfottò plastici, si vuole provocare, e poi si urla alla provocazione se qualcuno reagisce. Alle fiere si parla solo di soldi, e sempre più dei soldi pubblici, ma quando arrivano i carabinieri per una bestemmia estetica che cerca, con gesto facile, di farsi largo appoggiandosi alla fama divina o a quella del papa, si invoca l’arte e si sproloquia di censura (l’arte, come ogni linguaggio, non potrebbe esistere senza una qualche censura, «nelle opere dello spirito i valori sono inversi: sforzo di ingegno e perseveranza è crearsi una schiavitù e non liberarsene» diceva Caillois; un po’ lo stesso avviene nell’amore). La faccenda non è nuova, ne parlava nell’anno 2000 Alberto Arbasino, che non è un curato di campagna, in un pezzo su «Repubblica». Ne riproduciamo la parte attualissima che riguarda questa «arte della speculazione», condita di domande spregiudicate.

«Il sindaco di New York, Rudolph Giuliani, dopo aver visto al Museo di Brooklyn la foto artistica di una “Ultima Cena” con dodici apostoli neri intorno a una Gesù nera e nuda, si propone di formare una commissione per sorvegliare le sovvenzioni di fondi pubblici a queste forme di speculazioni commerciali. In California la storia si ripete da anni, col famoso Crocefisso a bagno nella pipì d’arte, con le Madonne d’arte che mostrano il sedere, con i Cristi d’arte alla moda sadomaso da pornoshop di cultura. E nel mondo della canzone, non passa giorno senza provocazioni e trasgressioni sempre su Gesù Cristo, la Madonna e il Papa. Il Papa spesso anche nelle installazioni e negli allestimenti, in posizioni per lo più imbarazzanti. Quanti decenni sono passati, da quando Paolo Poli faceva Rita da Cascia al cabaret, mentre le borchie piramidali sui nastri di pelle nera non si usavano in tutte le sfilate di prêtàporter per la casalinga... Ora si parla solo di sovvenzioni e di finanziamenti. Sennò, niente trasgressioni. Né galleristi, né "curators”, né iniziative, né cooperative, né eventi da non perdere. Soldi, soldi. […] Se qualche artista di speculazione si provasse a provocare scandali da reddito con sberleffi alla religione islamica o ebraica, lo Stato e le Regioni e le Province e i Comuni sarebbero tenuti a sovvenzionare le operazioni? O il Ministero e gli Assessorati riceverebbero qualche protesta dalle comunità non cattoliche? Basta vedere la commercializzazione dilagante per tutto quanto riguarda gli Olocausti. Ormai le folle di zombi mettono sia Auschwitz sia Hannibal in testa ai fatturati, perché attualmente piace qualunque serial killer molto cattivo. […] Ma se gli artisti e i cantanti trasgressivi facessero le prossime trasgressioni su Buchenwald o su Maometto, per fare cassetta, e mettessero un gran rabbino o un imam al posto del Papa, nelle provocazioni, come regolarsi col Politically Correct e coi soldi?».