venerdì 24 dicembre 2010

Natale

«Invece di credere in Dio, si crede provvisoriamente nel nulla», inebriandosi di destino e di lavoro, a volte anche di politica. Karl Löwith nel suo corpo a corpo con Nietzsche, arrivava a queste conclusioni. Il nulla può essere anche il Natale, una distrazione assai colorata nell’inferno quotidiano dell’acromia. Un luogo temporale dove concentrare per qualche settimana i pensieri, ottenendo in cambio sdolcinature e nostalgie che dovrebbe mitigare la celere violenza del tempo (sull’argomento si rinvia a «Natale romano», un post di questo blog del 2009). Tutt’altra faccenda è l’annuncio «Puer natus est»: per i cattolici dà senso alla vita e alla storia, riscatta anche coloro che sono già morti. Rimanda all’incarnazione del Verbo, al Dio che prende le forme umane e che a sua volta conferma una umanità «a sua immagine e somiglianza», in un sublime gioco di specchi intorno al medium del corpo, tanto sprezzato dalla sapienza extracristiana. Di questa incarnazione ha testimoniato l’arte occidentale. Ne resta traccia nella rappresentazione del presepio. Che i pochi lettori dell’«Almanacco» provino la gioia – è il nostro migliore augurio – di ascoltare l’introito della messa di Natale nella melodia gregoriana, naturalmente in latino: «Puer natus est nobis,/ et filius datus est nobis:/ cuius imperium super humerum eius/ et vocabitur nomen eius,/ magni consilii Angelus./ Cantate Domino canticum novum: quia mirabilia fecit». (Se nei pressi non troveranno una chiesa dove, secondo i dettami di Benedetto, si celebri in rito romano antico, che lo rinvengano almeno riprodotto questo «canticum novum» che gli angeli intonarono nella notte santa. Le canzoncine natalizie, anche le più commoventi, impallidiscono di fronte a un tale strabiliante proclama.)

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mercoledì 22 dicembre 2010

Una domenica senza Messiaen

~ LA DECADENZA DELLE BUONE MANIERE CATTOLICHE ~

Messa dell’Avvento in una parrocchia romana a pochi passi da San Pietro. Sotto l’altarino dove si celebra il sacrificio, le luci intermittenti di un presepio improvvisato danno il ritmo isterico delle discoteche, distraggono i fedeli e offendono il sacro rito. A un lato dell’altare, un alberello secco dove sono appesi foglietti con i desideri auguranti dei parrocchiani, come è d’uso ormai nelle grandi stazioni ferroviarie: lo spirito natalizio che scivola nelle mode adolescenziali dei lucchetti a Ponte Milvio, tradizioni inventate per ragazzi senza liturgia. All’altro lato dell’altare hanno trasportato addirittura un pianoforte, dove una volenterosa giovinetta e dei suoi amici con chitarre elettriche e acustiche strimpellano nenie che non sarebbero consentite neppure nel più paesano dei palchi rock. Questa dunque la modernità della Chiesa di Roma? Una sottospecie di una sottocultura? Modi luterani senza la serietà della forma tedesca? Veniva allora da pensare, anche per l’organo che stava lì accanto imponente e muto, a Olivier Messiaen, uno dei massimi musicisti del XX secolo, che per sessant’anni fu organista nella chiesa parigina della Trinité. Alla fine degli anni Trenta compose per il Natale il ciclo La Nativité du Seigneur: nei tempi tradizionalisti, preconciliari, in cui la Chiesa non si arrendeva al moderno, Messiaen accompagnava la liturgia con suoni dell’altro mondo (si ascolti il brano Dieu parmi nous, il più famoso del ciclo, che sommovimenti d’aria, che strabilianti ritmi), la Catholica sapeva tenere le redini di quell’impetuoso moderno che aveva inventato; oggi si deve umiliare la comunità dei fedeli con musichette e immaginette che nulla hanno a che fare con la grande cultura. Piuttosto, un surrogato povero della televisione più cheap. La decadenza delle buone maniere cattoliche rende tristi anche i ferventi giorni dell’Avvento.

mercoledì 15 dicembre 2010

Fiamme su Roma

~ GLI SQUADRISTI DELLA CULTURA
E LA SAGGEZZA DI CERONETTI ~

Ieri coloro che si battono contro i tagli alla «cultura» e alla scuola hanno ricevuto il battesimo del fuoco nel corso di una battaglia decisiva e suprema: mentre i congiurati agivano nel Palazzo contro il governo legittimamente eletto, con studiata sincronia i vezzeggiati studenti devastavano l’alma città di Roma, ne incendiavano le sue piazze più belle, ne manomettevano il delicatissimo cuore barocco. La cultura, quanto di più fragile, sfigurata da ben altro che dalle questioni dei finanziamenti, diventava una causa di tumulti, alla stregua del pane per le plebi affamate di una volta. Nelle medesime ore, Guido Ceronetti, una figura di fronte alla quale scompaiono tutti i pupazzetti idolatrati dai giovani devastatori (gazzettieri del culturame, televisivi pro morte, installatori sboccati…) inviava alla «Stampa» un articolo in cui, con la saggezza di certi vecchi, diceva il suo amen di fronte ai soldi che scarseggiano per le imprese culturali. Anzi, rovesciando i cliché dei piccoli conservatori, che non sanno concepire il sapere e la bellezza se non nei modi in cui li hanno appresi a scuola da insegnanti senza fantasia, Ceronetti provava a immaginarsi un’Italia priva della Scala, evitando le nostalgie delle soubrette in pensione. Quest’«Almanacco», che ricorda spesso come l’arte pittorica languisca da molti decenni, non si commuove per un museo che deve risparmiare o che chiude, anzi nei mesi scorsi ha ripetuto che ben vengano i tagli, ovvero i progetti per sottrarre i soldi pubblici ai party e alle inaugurazioni. Oggi perciò è lietissimo che anche Ceronetti scriva: «non chiamiamo ‘cultura’ un evento turistico estivo, costosamente mondano»; ed è lietissimo che il Maestro delle marionette, evitando di cadere nei trabocchetti feticisti, possa addirittura proporre delle scelte, discutibili come tutte le scelte, certo, ma ancorate al dato assai prosaico che i fondi dello Stato non sono un pozzo di san Patrizio: «Se con un bilancio divoratore della Scala la saggezza dello Stato (mai ci fosse) potesse restaurare degnamente Pompei, non esiterei un momento a dar tutto agli scavi e a proteggerli dall’incuria e dalla sporcizia. […] L’Opera, come il cinema, vixit. Il suo illanguidimento progressivo è inevitabile». Per concludere con una frase scandalosissima all’orecchio dei bigotti: «se la Scala chiude, che male c’è?».

Anni fa, lo scrittore aveva riportato nella sua rubrica la frase letta su un cartello inalberato da un giovanotto che era stato allontanato con violenza da un corteo di sinistra: «Sono un precario felice. L’idolatria del posto fisso è voglia di schiavitù». Un altro dogma della protesta attuale veniva così destrutturato. Nemico giurato del Luogo Comune, recentemente aveva bollato il nome che si erano dati i congiurati neofuturisti: «futuro è un tarocco che porta sgarro, mai adottare una parola così vacua, così flagellata dai venti del Nulla. Il futuro non lo puoi conoscere, non sai dove siano le sue stive, non esiste: la politica lavora (se è un lavorare) sul presente; se è saggia, il prossimo giro di presente ne ricaverà mirabilia, (forse)...».

lunedì 13 dicembre 2010

Schegge di dolore

~ L’ARTE DI UN MONDO IRREDENTO ~

L’arte di oggi – non gli inganni dei ciarlatani –, quella che pur esiste e resiste, ma che si addentra per la strada a senso unico, conducendoci nei meandri dell’angoscia – immagini che si negano il volto, versi che anche mirabili nella costruzione ritmica rinunciano alla punteggiatura, alle pause che smorzano le ossessioni, musiche che rifuggono impaurite da qualsiasi accenno melodico –, l’arte dell’asperità perseguìta ormai da eremiti alquanto nobili, lontani da mondanità e mode, somiglia impressionantemente alla religione protestante. Contraria alle consolazioni facili, finisce per rigore un po’ diabolico con l’ignorare qualsiasi consolazione. L’artista come il sacerdote universale luterano deve incaponirsi ad avvelenare la dolcezza del mondo per mostrare soltanto l’aspetto tragico. Nessun cibo per i sensi, nutrimento amaro invece per l’intelletto affinché demistifichi ogni illusione, testimoni con mistica scabra della vuotaggine del reale, anche se la mistica un tempo provava a dire la contentezza traboccante per ogni alba che si ripete. Quel forzare i confini del dicibile per eccesso di amore, da parte della creatura che prova a intonare un Magnificat straripante, era la sua gloria e talvolta la sostanza del linguaggio speciale dell’arte. Oggi, festa di santa Lucia, protettrice della vista, gli artisti che si denominano ‘visivi’ dovrebbero meditare sullo sguardo cattolico posato sul mondo redento e bellissimo. Nelle tenebre di quello che era, fino alla riforma gregoriana del calendario, il giorno più oscuro dell’anno, la Chiesa celebra la santa che richiama la luce anche nel nome: nella «valle di lacrime» terrena, l’occhio deve saper vedere lo splendore.

mercoledì 1 dicembre 2010

Sulla soglia del museo

~ RIFLESSIONI DI UN POETA INTORNO ALL’ARTE. ~
PAUL VALÉRY PARLA DELLA «SUPERSTIZIONE DEL NUOVO» E LE SOTTRAE GLI UOMINI «NATI PER CREARE», I MECENATI «INCORRUTTIBILI», GLI ARTISTI CHE «NON OFFRONO INTENZIONI MA MIRACOLI». ~

«L’art délicat de la durée…»
PAUL VALÉRY

«Ai miei occhi, l’arte appare come un combattimento contro quello che non è. […] Tutte le potenze umane devono impegnarsi per sostenere e mantenere in vita ciò che nasce e tende a ricadere nel nulla». Paladino dell’aspirazione all’eterno si presenta dunque, nella citazione riportata, l’ingegnosissimo Paul Valéry che meditò a lungo, e in modo elaborato, su quella singolare attività umana, la creazione, alla vigilia del suo totale stravolgimento a opera degli ultimi moderni. Il poeta ligure-francese, si sa, non era un tipo ingenuo, diffidente anzi verso le bonarie concezioni del bello, all’arte assegnava procedimenti intellettuali assai articolati, alla pari con la filosofia, considerata anch’essa «una questione di forme» (un po’ come i rinascimentali italici non distinguevano l’arte dalla scienza): artisti del pensiero, perciò, i suoi adepti – e la scrittura tentacolare dei filosofi francesi del Novecento dipende forse un po’ da questa lezione, e molto dalla soggettività sfrenata dell’esistenzialismo, per cui si confondevano con i letterati, talvolta trescando con l’ermetismo lirico. L’autore del Cimitière marin li incalzava con una domanda retorica: «Forse il filosofo pensa che un’Etica o una Monadologia siano cose più serie di una suite in re minore?». Non per questo sarebbe stato soddisfatto dal «concettuale» dei nostri contemporanei che esibisce con soverchia gravità pensieri pedestri, didascalie di immaginette primitive: lui cercava l’intelligenza nella pittura. L’appassionato di Leonardo sapeva anche che l’arte del suo tempo si andava sviluppando accanto all’«industria dell’utile», un sistema economico dell’inutile, con una propria stampa, un proprio mercato, una propria borsa e anche delle «grandi banche di deposito, dove si vengono ad accumulare gli enormi capitali» prodotti nei secoli: i musei. Antica del resto era l’avversione per il museo da parte del poeta che lavorava al ministero della Guerra, nulla a che vedere con il disprezzo avanguardistico per gli archivi, ben più elegante idiosincrasia lo muoveva, infastidito dal gesto del custode che gli sottrae all’ingresso il bastone da passeggio e dal cartello che gli vieta di fumare. Luogo senza voluttà, lo definì, dove ci si sente come a scuola.

Di fronte alla produzione estetica contemporanea, quel che appare più irritante è senz’altro la facilità delle sue trovate, di quelle che si ha l’impudenza di chiamare ‘opere’; mancanza di metodo, avrebbe sentenziato Valéry. L’inventore di Monsieur Teste, modello di lucidità asperissima (ispirato, sembra, al severo quanto scontroso Degas, maestro di rigore), risulta il più crudele fustigatore delle scempiaggini che già si intravedevano nella sua epoca. Ma non combatte i canoni sociali, fa brillare la perspicacia mentre oscura le teorie circolanti. Prevede senza volerlo, poco interessato al futuro, intuisce da subito quel che sta accadendo nel campo dell’arte. Sfogliando i suoi innumerevoli scritti sull’argomento ne abbiamo estratto delle piccole citazioni per accennare alle disavventure della Bellezza nell’Occidente che si pretende post-cristiano. Parigi, nella prima metà del Novecento, era ancora un ottimo osservatorio.

I l.. m i t o.. d e l l ’. o r i g i n a l i t à

«Non si vedono quasi più i prodotti scaturiti dal desiderio di ‘perfezione’. Osserviamo di passaggio che questo antiquato desiderio doveva svanire davanti all’idea fissa e alla sete insaziabile di originalità». Perché per ricercar la perfezione sono necessari «l’eredità, l’imitazione o la tradizione, gradi nella ascensione verso l’oggetto assoluto», mentre la spasmodica caccia all’originalità respinge il passato e i suoi gradi di perfezione, risiedendo «la sua essenza nel differire» (Lettera a Leo Ferrero, 1928).

L a ..n o v i t à

«Il nuovo è uno di questi veleni eccitanti che finiscono con il risultare più necessari di ogni nutrimento; una volta che ci padroneggiano, bisogna sempre aumentare la dose e renderla mortale. È strano che ci si attacchi in questo modo alla parte più deperibile delle cose, che è proprio la loro qualità di esser nuove. Voi non sapete allora che alle idee più innovatrici bisogna dare una certa aria di nobiltà, priva di fretta, piuttosto matura; tali idee devono apparire non insolite bensì in circolazione da secoli; e non fatte e trovate stamattina, ma soltanto dimenticate e ritrovate. Il gusto esclusivo della novità segnala una degenerazione dello spirito critico, dal momento che nulla è più facile dello giudicare la novità di un’opera» (Choses tues). «Nulla è più facile»: ecco perché i ‘critici’ d’oggi ci riempiono gli occhi con l’aggettivo nuovo nelle loro pagine anodine. Ma siccome hanno bisogno di «una certa aria di nobiltà» ricorrono ancora alla parola ‘arte’ e a tutto quel che di tradizionale evoca.

L a ..r e a l t à ..e s t e r i o r e

La strana mistica di sapore gnostico che conquista gli artisti del XX secolo viene giudicata con severità da Valéry. «Secondo un’opinione diffusa e fuori del tempo esiste una ‘via interiore’ da cui le cose esteriori sono escluse in quanto le risulterebbero nocive, e dunque i profumi, i colori, le immagini e forse anche le idee sono d’impaccio e di scompiglio alla sua perfezione; si pretende pertanto che gli esseri che vi si consumano nel desiderio, nella gioia o nel commercio segreto dello loro percezioni incomunicabili li sentano tanto più vivi e ne traggano i frutti più vivi quanto sono maggiormente avanzati nella loro profondità e nel loro disprezzo, più distaccati dall’esterno, da quello che considerano l’esterno. Alla vita che fa uso di sensi definiti e che si accontenta dei loro fantasmi, si oppone facilmente una certa ‘vita della mente’, o dell’anima, ovvero una vita dell’intelletto puro; l’una e l’altra sottratte alla agitazione superficiale che compone quel che si tocca e che si vede. In molti saggi si trova l’avvertimento formale di considerare i sensi come complici dell’Avversario, e di trattare gli organi essenziali come mezzani. ‘Odoratus impedit cogitationem’, dice tra l’altro san Bernardo. Non sono così sicuro che la meditazione sigillata e la deviazione interiore siano sempre innocenti, né che chi sta isolato in se stesso si perfezioni in purezza. […] Perché si vuole che il fondo, il preteso fondo di noi stessi, l’apparenza del fondo che troviamo in noi, per degli strani accidenti, o per una indefinita aspettativa, sia più importante da osservare […] che la figura di questo mondo? […] Una vita dedita ai colori e alle forme non è a priori meno profonda né meno ammirevole di una vita trascorsa tra le ombre ‘interiori’» (Berthe Morisot). Questa conclusione è la base morale della storia dell’arte in Occidente. Il Beato Angelico guida in Paradiso la schiera dei cantori della beltà terrena.

L a ..r e s i s t e n z a.. d e l.. m o n d o

Secondo lui, i successori degli Impressionisti avevano definitivamente eliminato l’Avversario, l’oggetto esterno, per impotenza o perché sedotti da scorciatoie che facevano a meno della rappresentazione. Suonano allora magistrali quelle righe celebri di Monsieur Teste che dicono bene anche della resistenza che l’autore, l’artista, trova nel forgiare le opere: «Non è vivere il vivere senza obiezioni, senza quella viva resistenza, quella preda, quell’altra persona avversaria, resto individuato del mondo, ostacolo e ombra dell’io – altro io – intelligenza rivale, insopprimibile – nemico il miglior amico, ostilità divina, fatale – intima».

L a ..s o m i g l i a n z a

Accordava una certa importanza alla somiglianza e alla rappresentazione. E diverse somiglianze sapeva cogliere: naturale, sociale e intellettuale. «Il problema del ritratto è uno dei più sottili dell’arte. Si tratta in effetti di eseguire un’opera che, per definizione, è assoggettata a una condizione non esclusivamente ‘artistica’, la somiglianza, la quale è soddisfatta dal confronto di una immagine con un modello, ovvero il richiamo non equivoco del ricordo di questo attraverso quella. La constatazione necessaria, e sufficiente, non ha alcuna relazione che si impone con il piacere dell’occhio […] Mi accorgo che l’epoca che ha visto deperire il gusto e la cura di rappresentare scrupolosamente il volto dei viventi vede trascurare altrettanto, se non abbandonare del tutto, la pratica secolare di copiare nei musei le opere dei maestri» (De la rassemblance et de l’art).

D e s c r i z i o n i

«Un’opera puramente descrittiva (come se ne fanno tante) non è altro in verità che una parte di opera. […] Inoltre, ogni descrizione si riduce alla enumerazione delle parti o degli aspetti di una cosa vista, e questo inventario può essere fatto in un ordine qualsiasi, fatto che introduce nella esecuzione una sorta di casualità. (Autour de Corot).

R e a l i s m o

Sì, il realismo pecca di ingenuità, la volontà di raffigurare realisticamente tradisce la realtà. Molto in anticipo sui neorealismi italici, non sembra esser stato granché citato nei dibattiti fumosissimi dell’intelligencija dei caffè di Piazza del Popolo. «Le arti di ‘imitazione’ si muovono tra l’idea ben definita di rappresentare ‘esattamente’ la ‘realtà’, di cercare di eguagliare ciò che si ottiene da una buona fotografia o da un’impronta, e gli effetti dell’intervento dell’organismo vivente che deve eseguire tale rappresentazione. Ma questo organismo vivente è ben lungi dall’essere simile a ogni altro della sua specie. Esso è fatto di collegamenti» (De la ressemblance et de l’art).

L’.i n f l a z i o n e.. d e i ..c o m m e n t i

«Gli artisti moderni si fanno dei sistemi che resistono per un po’ di tempo soltanto grazie all’ausilio di una letteratura appropriata. Ma né Tiziano, né Veronese, né Robusti detto il Tintoretto avevano bisogno di qualcuno che li ‘presentasse’. Bastava imporsi. A loro si dedicavano dei sonetti, non li si spiegava. Essi non offrivano delle intenzioni, ma dei miracoli […]. Che cosa c’è di più certo nelle sue intenzioni e di più certo nel suo effetto di un ritratto del puro Raffaello?» (L’art italien). L’arte dell’ultimo secolo invece è come un criptogramma, un rebus che ha bisogno di mozziconi di parole. Jean Clair ha scritto: «Poche epoche hanno conosciuto come la nostra un tale divorzio fra la povertà delle opere prodotte e l’inflazione dei commenti che anche la più insignificante di esse riesce a suscitare». Per forza, si appoggiano alla parola dal momento che l’immagine è abortita.

E l o g i o ..d e l l a.. l e n t e z z a

Davvero scandaloso in anni post futuristi: «Che si tratti delle Lettere o delle Arti, la fretta di pubblicare o di mettere in mostra ciò che si è fatto sembra generale. Vi è la pressione delle esigenze della vita, ma non si tratta della sola potenza in gioco. La nostra epoca è molto dura con tutte le virtù che ricorrono alla durata. Essa sprona, minaccia, stordisce, non tollera più che si passino vent’anni a provare a vivere dei secoli. Il lavoro del puro esercizio senza speranza di frutti immediati, la lunga preparazione di se stesso allo scarto del mondo, la volontà di sottomissione a delle costrizioni che sembrano inutili o che sono fastidiose: ci sono divenute impossibili o insopportabili. Al tempo in cui il tempo non costava nulla, poteva esistere un ideale di perfezione […]. Più io so, più io sono: ecco quel che fan dire attraverso tutte le loro grandi opere tutti i maestri. Queste opere sopportavano un esame prolungato. Esse valevano tanto da essere copiate. Non si pensava ancora che il disegno o l’arte di scrivere fossero, per un privilegio speciale, dispensate da quello che esige ogni nostra azione indirizzata verso qualche dominio dei nostri mezzi naturali. Il pianoforte, la mistica stessa, richiedono degli anni di formazione, le lungaggini, le riprese, la noia e i rancori di ogni apprendistato» (De la ressemblance et de l’art).

I n ..n o m e.. d e l l ’. a r t e ..i t a l i a n a

Raramente fu così critico verso la «superstizione della modernità» come nell’articolo dedicato all’esposizione dell’arte rinascimentale italiana del 1935, dove pensando ai nostri pittori dei grandi secoli esclamava: «Beati quegli artisti, viene da pensare, cui nulla impedì di consumarsi nel divenire grandi». In quel tempo che correva verso la guerra, scriveva: «I giorni che viviamo non sono meno difficili, né le circostanze meno inquietanti, né l’avvenire meno incerto nell’ordine delle creazioni superiori dello spirito di quanto lo siano nel campo politico e in quello delle necessità materiali. Possiamo davanti a questa smagliante raccolta di pitture e sculture incomparabili non riflettere assai amaramente sullo stato attuale delle nostre arti? […] Noi osserviamo attorno, negli uomini e nelle loro opere, come anche in noi stessi, gli effetti di confusione e di dissipazione che ci infligge il movimento disordinato del mondo moderno. Le arti non si accordano con la fretta. (L’art italien).

giovedì 25 novembre 2010

La statua di Mao

~ SINISTRI ARREDAMENTI ~

Il giornalista fascista Ugo Dadone, che nel dopoguerra ospitò a Roma l’esule Ezra Pound, teneva sulla tazza del cesso un ritratto di Badoglio e mostrava con rabbia la sistemazione del «traditore». Era una specie di vendetta che si concedeva in quell’appartamento di pochi metri, a pianterreno, dove si cucinava minestroni ineleganti che divideva con il poeta silente e talvolta con un amico del piano di sopra, un altro reduce della sconfitta. Nel piccolo rifugio dei vinti al Colle Oppio non c’erano santini ideologici, carabattole dei regimi spazzati via, ornamenti simbolici, soltanto delle misere suppellettili e lo sfregio nel gabinetto.

L’altra notte, scorrevano sul video televisivo immagini di una casa kitsch: apparteneva al rifondatore comunista che fu anche presidente della Camera, schierava divani immacolati e cuscini rossi, secondo le regole delle riviste patinate, sfoggiava chincaglieria da nuovi ricchi, era l’esatto pendant degli abiti che gli vedemmo indossare quando era per tutti i media. Affari di gusto, affari suoi. Ma la telecamera, soffermandosi devotamente enfatica sugli oggetti disseminati, incrociava numerose statue a figura intera e busti di Mao Tse Tung. Impressionante la pubblica sensibilità come reagisce in modo iniquo: se nel più remoto dei borghi si rinvenisse presso la casa di un consigliere comunale destrorso un ducetto-souvenir di una gita a Predappio, l’Italia urlerebbe all’abominio, riti costituzionali di riparazione subito si svolgerebbero in ogni dove, con grande commozione per l’offesa alle vittime di quel regime; ma se un signore che ha avuto cariche da padre della patria mostra nella sua dimora il sinistro simulacro, neanche ci si fa caso. Eppure, nonostante il glamour spruzzato dai pubblicitari pop sul sanguinario despota, nessuno tra gli assennati mette più in dubbio che il Grande Timoniere fece fuori molti milioni di cinesi, cifre ben più rilevanti di quelle degli stermini europei. Sappiamo, nelle epoche del tutto-uguale e del sempre-uguale, appena si parla di numeri ti obiettano l’espressione «calcoli macabri», e poi la Cina è così affollata che anche i massacri sono in scala. Ai tempi delle varie carneficine, i tardo-illuministi si affannavano a spiegare che forse, sì, Mao ne ammazzò come nessun altro nella storia moderna ma, grazie a lui, le masse furono alfabetizzate: il valore della scrittura, per i mandarini d’ogni latitudine, è sacrosanto. Qualcun altro ricordava che i campi di lavoro, i Lager utilizzati negli anni Cinquanta dai comunisti appena arrivati al potere, derivavano dalla tradizione imperiale, e sia pure. Anche nella Germania, l’usanza delle stragi di ebrei si possono far risalire alla peste del 1348 (quando da Roma il papa inviava i suoi messi a spiegare che l’epidemia non aveva niente a che fare con le sinagoghe e i buoni tedeschi continuavano imperterriti con le loro idee fisse), ma non sarebbe considerato un valido motivo, almeno si spera, perché i nostri dignitari, pur con la massima indulgenza per le scelleratezze consumate nel privato, riempiano i loro salotti e tinelli con le immagini del cancelliere in camicia bruna e baffetti. Né si vorranno fare odiose distinzioni tra vittime, computando in modo diverso gli ebrei e i contadini, o gli europei e gli asiatici. Dietro al comunismo c’era almeno un sogno di fratellanza – insistono gli apologeti – mentre gli sterminatori tedeschi erano soltanto ‘cattivi’. Chissà come si consoleranno le vittime del comunismo, torturate e uccise per un fine sì nobile cui erano chiamati a far da concime. Magari anche per dar lustro ai vezzi mondani di un vecchio capopolo.

I vinti di oggi fan finta di niente. Rifondano ostinati, affondano sornioni il rosso giocattolo, rinunciano alla violenza, rispolverano le idee più assolutiste, nascondono il georgiano baffuto, ostentano quello cinese, velato di esotismo. Naturalmente, dando continuamente lezioni di etica ai poveri peccatori veniali e ogni tanto perfino al papa. Sempre compiaciuti.

mercoledì 24 novembre 2010

L'odore del sangue

~ SULLA MOSTRA DELLE MASCHERE PRECOLOMBIANE ~

Fulminante recensione alla mostra romana su una delle civiltà precolombiane: «Teotihuacan. La città degli Dei» (e dei demoni, andrebbe aggiunto), che inalbera già sulla scalinata umbertina del Palazzo delle Esposizioni maschere mostruose che atterriscono gli umani. È una citazione di Ernst Jünger, l’abbiamo già riportata sull’«Almanacco» ma è perfetta per l’occasione e la ripetiamo: «Se la coscienza della libertà, se la pace devono diffondersi, non può mancare il freno interiore. Lo stesso vale anche per l’arte. […] Esiste una giustizia delle forme e delle linee che noi percepiamo come bellezza. […] Il gusto barbarico invece ci offende. Il mondo è pieno di opere che soggiacciono alla suggestione esercitata da dei, demoni e forze naturali, senza che l’uomo possa rispondere con la libertà. La cupezza, la pesantezza terrena, l’assenza di occhi, la stridente vivacità, la confusione, le dimensioni colossali, la forza lussureggiante, il volto da maschera ci opprimono: avvertiamo infatti che tutto ciò è collegato a sacrifici di sangue». «Se esistesse una metropoli in cui fossero ufficialmente adottati modelli e colori dell’antico Dahomey oppure edifici secondo l’antico stile messicano, ben presto vi sarebbero ufficialmente istituiti i sacrifici umani. Tuttavia non vi si vedrebbero l’orrore e il fasto di quegli antichi imperi, bensì una barbarie nuova, riscoperta»

domenica 21 novembre 2010

Prigione d'amore

~ IL MISTERO DELLE CLAUSTRALI ~

Magari dopo aver plaudito al nichilismo di matrice situazionista che seppellisce un oggetto elaborato in un bosco onde perderlo per sempre, a maggior gloria dell’insondabile «inutile estetico», l’opinionista si chiederà con utilitarismo estremista a che pro le suore di clausura stiano chiuse in un monastero. Già, nonostante le innovazioni ecclesiastiche, la liturgia modernizzata, il cristianesimo sociale, certe monache restano dietro le sbarre a scandalizzare i positivisti di sempre. In questa domenica la Chiesa celebra riconoscente la giornata «Pro orantibus» e risponde alla domanda polemica: quei monasteri sono i polmoni del cattolicesimo, perché da lì esce una speciale preghiera verso il cielo, attraverso il loro filtro la terra respira e non si danna. Questa la millenaria teoria dell’equilibrio ecologico, l’élite degli oranti che compensa la massa dei dissipatori di energie. Ci si chiude per una intera esistenza nella clausura, con ben altra radicalità di qualsiasi performance estetica, facendo impallidire le piccole afflizioni effimere della body art e i grandi tormenti delle passioni romantiche, infatti non è un gioco né tantomeno dell’autolesionismo, è la suprema follia amorosa, rivolta a Dio. Quella dedizione non si contrappone alla vita, la trasfigura, la illumina. Che ne sanno però i seguaci d’ogni prassi delle delizie contemplative? Il mistero delle claustrali e dell’eremitaggio in genere, resta un tabù per i moderni, chiusi come sono nelle gabbiette egoistiche delle loro nevrosi.

sabato 20 novembre 2010

Paesaggio senza museo

~ I BENEFICI DELLA CRISI ~

La media sociologica nasconde, si sa, le disperazioni individuali, ma talvolta fa sentire la fragranza di una stagione, offre la fotografia di gruppo con determinati colori, irriproducibili in un altro tempo, purché non la si idolatri come Zeitgeist, moloch a cui sacrificano i modaioli. L’ultimo Annuario Istat propone l’immagine di un paese più sobrio, senza troppe lamentazioni, anzi, abbastanza soddisfatto, che ritiene di avere «risorse adeguate», sotto sotto compiaciuto della svolta meno spendacciona intrapresa per paura della crisi economica. Ci si accorge così che si può vivere egregiamente senza le dissipazioni banali, senza cioè l’economia dell’inutile estetico. Per maggior parsimonia, adesso ci si interroga se un film raccomandato dalla pubblicità dei giornali o una mostra propagandata da critici che non possiedono la grazia della scrittura valgano la spesa del biglietto. Né si entra nelle librerie come se fossero supermercati dove riempire la sporta; «meglio dormire che leggere», osava dire Kafka, perché gli obblighi, i sensi di colpa, imposti dall’industria editoriale, a uno come lui gli scivolavano addosso. Perfino la transumanza culturale sembra arrestarsi qua e là. Laudato si’ mi’ Signore per sora Crisi. Benedetti i tagli agli eventi con le file bovine, benedetti i tagli alle ‘provocazioni’ pagate dal pubblico erario, benedetti i tagli ai concerti nelle biblioteche dove si dovrebbe leggere in silenzio, benedetti i tagli ai tappeti rossi dei festival, alle animazioni museali, alle notti bianche, ai giorni oscuri come l’anima offesa da tanti stimoli corrivi. Jean Clair scriveva che l’Europa delle cattedrali era stata sostituita da quella dei musei, sorti come funghi, spesso templi del consumismo culturale piccolo borghese. Chissà che il paesaggio di domani non stia già cambiando.

Che ne faremo allora degli installatori, dei curators, degli uffici stampa, dei critici in sovrappiù? Come tutti i mortali, quando è in corso il passaggio da un’economia all’altra, andranno in cassa integrazione, si riqualificheranno, si ridimensioneranno.

martedì 16 novembre 2010

La tirannia dei valori in tv

~ UN LIBRINO DI SCHMITT COME ANTIDOTO ~

Dopo gli eccessi del pubblico sciocchezzaio iersera, dopo gli elenchi farneticanti di due spacciatori di ideologia fuori tempo massimo, ci permettiamo di suggerire come antidoto un aureo librino di Carl Schmitt, La tirannia dei valori (Adelphi, a soli 5.50 euri), considerazioni di un giurista su questa strana parola – valore, appunto – che designa un concetto sconosciuto agli antichi, ai medioevali, ai rinascimentali, imprestato dalle scienze economiche, che riduce il mondo a merce da valutare soggettivamente. Per riflettere invece sulla antica virtù, un libro introvabile – salvo in qualche biblioteca – di Leo Strauss: Liberalismo antico e moderno, Giuffrè, 1973).

domenica 14 novembre 2010

Esilio

~ I FATUI CHE VOGLIONO ABBANDONARE L’ITALIA ~

Certi programmi rovistano in continuazione nella spazzatura per poi emettere giudizi morali. Fa parte del 'format' la coazione a guardare l’aspetto melmoso del mondo, dopo qualche puntata ci si deve sporcare assai, come degli spazzacamini, e tutto appare a quel punto come una catena di peccati. In una di queste trasmissioni della televisione pubblica sorte per supplire la politica dell’opposizione – dimostrando peraltro come oggi la politica sia abbastanza comica attività – i due conduttori hanno vagliato i pro e i contro di un esilio dall’Italia, fingendo di pensarlo sul serio. Indolore è un esilio se la grande passione brucia per l’esterofilia, rassomiglia piuttosto ai soggiorni in altri luoghi dell’Occidente che in molti si concedono ormai per lavoro e per piacere, ma il formularlo in guisa di esodo, benché senza alcuna proscrizione, suona osceno di fronte ai non pochi profughi che affrontano il mare aperto con omeriche barchette pur di mettere piede nel Belpaese.

Revival

~ A VOLTE RITORNANO E FANNO PAURA ~

Immagini di decenni trascorsi, che risalgono talvolta a mezzo secolo fa; fantasmi che provengono da periodi sepolti e appaiono come lampi, in questo nostro autunno, inquietandoci. Revival senza più «consonanza tra epoca e cuore» (Marina Cvetaeva). Spesso nei vagoni della metropolitana di Roma si vedono suonatori adulti con bambinetti che vanno in giro a stendere la mano. Da quanto tempo era insopportabilmente scandaloso un padre che facesse chiedere l’elemosina al figlio piccolo per impietosire con maggior turbamento? Ma l’indignazione vale solo per gli italici pargoli, se il bimbo appartiene a una diversa etnia può attraversare i vagoni con il piattino, avanti e indietro per ore, senza andare a scuola. I buoni per partito preso compatiscono i derelitti e per loro fanno una eccezione misericordiosa: la legge non conta. «Che millennio, cari, abbiamo adesso nel cortile?» (Boris Pasternak).

In televisione, un senatore inattuale, anche nei modi, ricorre a locuzioni ormai incomprensibili. Parla del rito dell’abdicazione del presidente del Consiglio, che «si deve dimettere per poi tornare», in una specie di penitenza laica, di Canossa moderna, di salita al Colle, di discesa dal Colle, di governo bis, di appoggio esterno, di accordo con questo o quel partito, di chi ci sta e chi non ci sta, di consultazioni con i padri della patria, di decisioni capitali del vegliardo che presiede il Quirinale, di governo tecnico, di ministri tecnici... Linguaggio «moroteo», si diceva in altre stagioni, piccole aristocrazie di legulei del Sud che parlavano in gergo per soggiogare i votanti. Almeno una generazione non conosce tali formule, ma riconosce le ambizioni grossolane che vi si nascondono. «Che millennio, cari, abbiamo adesso nel cortile?», ci ripetiamo confusi.

Esce il film Noi credevamo con cui la Rai ammaestra il suo pubblico nei ricordi a comando per la ricorrenza centocinquantenaria del Risorgimento, e sulla pellicola presa a pretesto si torna a discutere di ideologia, di personaggi positivi e negativi, come ai tempi dei cineforum di paese, quando si confondeva la sala buia con la sezione di partito. Intorno al terrorismo massonico dei mazziniani ci si ricama per tre ore, la colonna sonora almeno è piacevole; I demoni di Dostoevskij sono lontani. Revival nel revival in questo caso: c’è pure, dentro al film, quello del culto delle genti umili, da primo Ottocento; idolatria del popolo, con scannamento di molti contadini. Anche Visconti è lontano, gli estetismi ornano la storia patria intessuta di carriere costruite sulle scelleratezze giovanili, tra eterni rimpianti per la bohème da parte dei rivoluzionari che non vorrebbero mai vincere e sempre lottare. A spegnere la tensione del dramma basterebbe un insegnamento di Lukàcs: coloro che si pongono fuori della legalità attribuiscono «alla legge in quanto legge» un significato sovraromantico. «Che millennio, cari, abbiamo adesso nel cortile?», esclamiamo disorientati all’uscita della sala.

giovedì 11 novembre 2010

Il manifesto dei vinti

~ POVERI FIRMATARI SENZA STATUS ~

Radio Tre, creatura di Gadda, ha da tempo cambiato musica: invece di parlarci di romanzi cavallereschi e di versi nobili alimentando così la nostra fantasia con l’apparecchio senza volto, invece di regalarci la sonorità di voci segrete, si occupa quotidianamente delle miserie del mondo, ci sottrae Rossini e Richard Strauss, per riempirci le orecchie di cose mediocri quanto demagogiche. Non bisogna rivolgersi agli ascoltatori colti, dicono adesso i responsabili, mettiamoci a servizio degli incolti, ed ecco fatto un surrogato noiosissimo della scuola dell’obbligo: ma perché allora tenere in piedi una terza radio pubblica? Bastano le altre, dove si rispetta, e con buoni risultati, la cultura di massa.

Alla ricerca dell’orecchio facile, ieri mattina ci tornava a parlare del cosiddetto Manifesto d’Ottobre. E veniva da pensare: gli intellettuali in questi ultimi anni hanno perso progressivamente potere e soprattutto status. Il ditino alzato non fa più impressione. Son stati sorpassati dalle starlette, dalle creature effimere della televisione e della cronaca. Finiti dunque i tempi d’oro degli appelli, anche se c’è un quotidiano che ne lancia uno al mese, ma è inflazionato e senza distinzione, le grandi firme mescolandosi agli anonimi. L’ultima riscossa per tornare a galla ha fatto loro superare antichissime idiosincrasie. Gli intellettuali, in quanto categoria, sono di sinistra, non possono che essere di sinistra (Montale o de Chirico, Cristina Campo o Arbasino non scendono in piazza, non appartengono a un sindacato), ebbene questi signori gauchistes, afflitti dal mondo che li dimentica, che parla soltanto di gente coi soldi, che chiede pareri a guru sgrammaticati, visto che la loro parte politica è sul viale del tramonto, si buttano in un salto mortale, pronti a far comunella con gli ex fascisti pur di tornare alle vecchie abitudini: lanciare proclami, organizzare manifestazioni, commuoversi a comando, discutere sulle terrazze con vibrante tono morale delle medesime bassezze che alimentano le discussioni da bar. Chiamano tutto ciò politica, ne piangono la scomparsa, ne auspicano la rinascita. Credono, come spesso è accaduto all’estrema destra, di stare nella Grecia antica. Non si chiedono mai perché la politica oggi, senza radici e senza potere di vita e di morte (la pace e la guerra), senza autorità e senza obblighi, addirittura senza confini difendibili, dovrebbe contare ancora qualcosa. Vogliono un potere da amministratori di condominio e poi pretendono che il mondo degli amministratori di condominio appaia nobile ed eroico.

Un manto sulla natura

~ SAN MARTINO E LA PARENTESI METEOROLOGICA ~
Medioevo tetro? Quando in pieno autunno, al confine dell’inverno, ci si accorse di un nuovo tepore, del sole che tornava a splendere, di temperature primaverili, di luce calda, non si gridò come facciamo noi all’Apocalisse imminente, alla sovversione delle stagioni, all’inquietudine della natura. La spiegazione fu trovata in una leggenda gentile: Martino da Tour, cavaliere cristiano, aveva soccorso un povero donandogli metà del suo mantello, e il gesto amoroso aveva suscitato un compenso per tutta la cristianità: un supplemento d’estate intorno all’undici novembre, giorno della festa del santo. Il Cielo aveva modificato la meteorologia per quell’abbraccio a un mendicante, un comportamento che modificava la storia dell’Occidente. Per secoli, gli artisti ne raccontarono il momento culminante. Un olandese grande amante di quel tempo lontano avrebbe spiegato così i delicati collegamenti metafisici: «Il Medioevo non ha mai dimenticato che qualsiasi cosa sarebbe assurda, se il suo significato si limitasse alla sua funzione immediata e alla sua forma fenomenica, e che tutte le cose si estendono per gran tratto nell’aldilà. […] Quest’idea è familiare anche a noi, come sensazione non formulata, quando ad esempio il rumore della pioggia sulle foglie degli alberi o la luce della lampada sul tavolo, in un’ora tranquilla, ci dà una percezione più profonda della percezione quotidiana, che serve all’attività pratica» (Johan Huzinga, L’autunno del medioevo).

sabato 6 novembre 2010

L'abolizione del cristianesimo

~ PENSIERINI OSSESSIVI DEI NAZISTI A ROMA ~

Si moltiplicano le discutibilissime testimonianze per provare l’impossibile: e cioè che il pontefice romano Pio XII, il più grande nemico dei nazisti, come diceva Joseph Roth, trescasse con le camicie brune. È la risposta giornalistica a uno sceneggiato della televisione italiana che cercava di raccontare la Roma occupata dalle truppe tedesche e difesa soltanto dal papa, come ai tempi di Attila; insieme, ostaggio e defensor urbis. Piuttosto che replicare a simili insinuazioni volgarotte è meglio riportare testi più rispettabili, che rendono l’atmosfera plumbea dell’epoca. Naturalmente non stiamo stilando delle bibliografie storiche, ce ne sono volumi e non spetta a un blog o ai giornali aggiungere alcunché, piuttosto degli spunti, delle frasi sottolineate con la matita, per sfumare le idee fisse dei nostri giorni.

Si vorrebbe consigliare il diario di un nobile tedesco, Friedrich Reck-Malleczewen, il sorprendente Tagebuch eines Verzweifelten (di cui esiste una vecchia traduzione Rusconi, Il tempo dell’odio e il tempo della vergogna (1936-1944). Diario di un aristocratico tedesco antinazista, curata da Quirino Principe e Alfredo Cattabiani), giusto per capire da che parte fosse il cattolicesimo coerente, ma è rintracciabile solo in rare biblioteche. Abbiamo citato l’altro giorno qualche pagina di un acuto e raffinato diplomatico polacco inviato dal regime comunista nella Roma di papa Pacelli. Adesso vogliamo offrire una citazione dal Diario di un borghese di Ranuccio Bianchi Bandinelli, il celebre archeologo. Chiamato per la sua cultura e per la padronanza del tedesco (era figlio di una nobildonna slesiana) a fare da guida nei musei romani ad Adolf Hitler in visita in Italia, nel maggio 1938, il giovane Bianchi Bandinelli raccontò in un libro uscito nel dopoguerra le ore in cui fu «duce del Führer» e della sua corte. Dopo la visita a uno dei tanti musei, nell’atmosfera distesa di un rinfresco, il futuro intellettuale comunista annotò alcune battute che si scambiarono: piccoli segnali assai eloquenti delle turpitudini neopagane.

Scrive Bianchi Bandinelli: «Hitler aveva con sé un largo seguito. Soltanto Göring era rimasto a Berlino a guardar casa. C’erano Goebbels e Ribbentrop, Himmler e Hess; Fank, il Gruppenführer Wolf, Brückner, Amann, Keitel, il Gauleiter Bohle, Dietrich dell’ufficio stampa e Sepp Dietrich, comandante della Leibstandarte e capo SS. Dopo un poco feci gruppo con il dott. Karl Brandt, medico di Hitler, e con altri, tutti in divisa. Non ricordo se il dott. Brandt apparteneva alle formazioni SS; mi sembra di sì. Certo era il più fanatizzato giovane della nuova Germania, che avessi mai incontrato. Le cose che si sentivano raccontare, e alle quali si stentava sempre a prestar fede per intero, ritenendole almeno in parte motivi di propaganda avversaria, venivano dette da questo giovanotto con la maggiore tranquillità, che dimostrava una profonda consuetudine con quelle idee. Idee non erano, in fondo; molte erano semplicemente citazioni di Mein Kampf, il vangelo nazista; ma citazioni che, tradotte in realtà, grondavano sangue e lacrime: soppressione dei fanciulli deboli, soppressione dei malati di mente, dovere che dovrebbero sentire i grandi invalidi della passata guerra a sopprimere se stessi per contribuire ancora una volta alla ricostruzione della Germania, che ha scarsezza di viveri. E, soprattutto, abolizione del cristianesimo: “Il cristianesimo è stato la prima ondata bolscevica, con esito positivo per essa – negativo per la civiltà – che si sia riversata sull’Europa. Lo conferma l’arte: l’occhio si fa vago e incerto, le figure laide e grottesche come quelle di Munch e di Barlach oggi. La vecchia generazione non può capire; ma i giovani che vengono su, trovano naturale che il cristianesimo venga abolito. Non è più una questione che si ponga. Per lo spirito di carità c’è il WHW (Opera d’assistenza invernale), che supplisce”. Senza meraviglia ho letto recentemente nei giornali la notizia che il dott. Brandt era stato condannato a morte quale criminale di guerra per aver fatto esperimenti crudeli sugli uomini e sulle donne nei campi di concentramento: “responsabile di esperimenti su cavie umane” (giornali del 20 agosto 1947). Le identiche parole sul cristianesimo, prima ondata bolscevica sull’Europa, le avrei sentite, il giorno dipoi, pronunziate dallo stesso Hitler al Museo delle Terme di Diocleziano, dinanzi a un sarcofago paleocristiano che era esposto nel giardino. Egli ne paragonava lo stile artistico a quello “secessionistico ed espressionistico, che ho bandito dalla Germania”. Compresa l’improprietà del vocabolario, era la redazione autentica di uno dei versetti del vangelo nazista: “Il cristianesimo distrusse Roma, pur divenendo universale solo attraverso Roma”» (Dal diario di un borghese, Il Saggiatore, pp.177-179).

venerdì 5 novembre 2010

I creduloni del XXI secolo

~ GLOBAL ART E GLOBAL WARMING ~
Giusto un anno fa, questo «Almanacco» ricordava le grandi truffe del global warming e del cosiddetto «contemporaneo» (v. «minima / The Great Swindle», 25 ottobre 2009), oggi l’ottimo blog «Cambi di stagione», condotto dal bravissimo Piero Vietti su ilfoglio.it, ci informa che «New Republican House Promises Investigation Of Global Warming Fraud», ovvero che i nuovi vincitori nella politica americana propongono una inchiesta sulla frode miliardaria del riscaldamento globale. Naturalmente nessuna inchiesta parlamentare potrà sostituirsi al buonsenso che assicura non avere niente a che fare con l'arte le installazioni, le performances, i graffiti, i tatuaggi del corpo e dell’anima.

lunedì 1 novembre 2010

Sul papa


~ NON SI TRATTA DEL CELEBRE SAGGIO DI DE MAISTRE, BENSÌ DELLE PAROLE PREZIOSE E DIMENTICATE DI UN DIPLOMATICO DELLA POLONIA COMUNISTA INTORNO AL PONTIFICATO DI PIO XII ~ MENTRE SCORRONO LE IMMAGINI TELEVISIVE SULLA SUA ROMA ~

Tadeusz Breza (1905-1970) fu direttore dell’Istituto culturale polacco a Roma tra il 1955 e il 1959. Essendo anzitutto un letterato, raccontò quell’esperienza in un libro uscito in Italia nel 1962 presso Feltrinelli, Il portone di bronzo. Ne abbiamo già parlato in un lontano pezzo dell’«Almanacco» datato 5 dicembre 2008 (Calendario dell’Avvento), ne torneremo sicuramente a parlare. Riportiamo le parole con cui lo presentammo allora: «il diario romano di Tadeusz Breza ottenne in Polonia il premio per la saggistica laica, idest anticlericale, mentre l’autore veniva considerato un redivivo Stendhal che ironizzava sulla Roma dei papi. A rileggere oggi, a distanza di mezzo secolo, il giornale segreto che un aristocratico spedito a Roma a dirigere l’Istituto culturale polacco tenne negli ultimi anni del pontificato di Pio XII, vi si avverte, dietro la cortina dell’ufficialità, una ammirazione straordinaria per la città eterna, il suo pontefice, la curia, oltre che per le corti della nobiltà nera, dei parroci, dei frati, del popolo romano. Breza, diplomatico e scrittore, aveva lavorato negli anni Trenta all’ambasciata polacca a Londra, negli anni Cinquanta decise di continuare a rappresentare il suo paese anche se nel frattempo al potere erano andati i comunisti. E da diplomatico colto si districò tra il nuovo regime e l’antica istituzione universale: da una parte raffigurò lo splendore della capitale cattolica prima degli ascetismi conciliari, dall’altra si convinse e volle convincere, sbagliando, che il comunismo era un destino d’Europa con il quale anche la Chiesa doveva fare i conti». Da Il portone di bronzo, libro ormai dimenticato perfino dai vaticanisti, prendiamo alcune citazioni che illuminano la Roma di Pio XII, a fare da controcanto alle immagini televisive che scorrono in questi giorni, per un racconto popolare su papa Pacelli.

I .d u e. e n i g m a t i c i. t e d e s c h i

Parlando dei due gesuiti tedeschi che facevano da segretari di Pio XII, padre Robert Leiber e padre Wilhelm Hentrich, viene fuori il complicato sistema vaticano di quei tempi, incomprensibile agli storici che non siano in possesso delle chiavi più introvabili: «Se qualcuno, alla ricerca di informazioni sulla posizione ufficiale dei due padri Leiber e Hentrich sfogliasse l’Annuario pontificio, il grande catalogo del personale vaticano, tra i sedicimila nomi elencativi quello di Leiber non lo troverebbe affatto, e quello di Hentrich potrebbe scovarlo tra i ventiquattro consultori del Sant’Uffizio. Naturalmente è già qualcosa: ma se si pensa che le congregazioni sono dodici, e che oltre ad esse ci sono i tribunali, gli uffici superiori e le segreterie, tutti con almeno venti consultori per uno, padre Heintrich diventa uno tra quattrocento individui tutti uguali tra loro. E invece, di uomini così ce ne sono soltanto due. A Roma se ne sa qualcosa sì e no. Non se ne parla volentieri. I religiosi italiani ce l’hanno con loro perché sono tedeschi, quelli tedeschi perché si sono italianizzati. [...] Essi sono anzitutto servitori del papa, poi gesuiti, ed infine, solo in un terzo stadio psicologico, tedeschi. […] Formalmente Leiber non è un segretario vero e proprio. Un tempo espletava ufficialmente questa carica presso l’attuale papa: la prima volta negli anni precedenti la prima guerra mondiale, presso l’allora nunzio in Baviera, vescovo Eugenio Pacelli, la seconda presso il cardinale Pacelli. Ma dal giorno in cui, nel 1939, Pacelli fu eletto papa, Leiber viene semplicemente a lavorare con lui. V. sostiene che il papa non ha mai nominato ufficialmente Leiber suo segretario, perché questa carica non esiste. […] Ma la posizione formale di padre Leiber nei confronti del papa non è la sola a essere interessante. La sua posizione effettiva e psicologica lo è molto di più. Stanno insieme da quarant’anni. […] Il papa ha Leiber accanto a sé per metà della sua vita. Accanto al papa Leiber ha trascorso la sua gioventù, la sua maturità, la sua vecchiaia. Il papa gli ha preso tutta la vita. […] La politica assorbe il papa. Le dedica un’enorme quantità di tempo. Le sue ambizioni politiche sono grandi: vuol dirigere da solo l’intera politica vaticana. Sotto questo aspetto non è il primo papa del genere, tuttavia bisogna tornare indietro di secoli per trovare un papa che faccia a meno del Segretario di Stato. […] O. ammira la grande cultura, l’intelligenza aperta, l’umanità, la larghezza di vedute di padre Leiber.[…] C’è ancora un’altra qualità di Leiber che O. ammira ed è il suo odio per il fascismo e per il nazismo. È sempre stato così: prima della guerra il suo antihitlerismo era venato di una sfumatura antiprussiana, in cui si avvertivano certi antagonismi della Germania. Ma gli passò presto. Durante la guerra il suo antinazismo maturò e si purificò dei vari elementi antifilosofici e antiumanistici». (pp. 63-68).

I .c o m m e n t i .d e l l’. « E s p r e s s o »

Già allora il gruppo editoriale l’Espresso faceva politica con notizie fantasiose. Ma mentre oggi può vantare come vaticanista il bravissimo Sandro Magister, durante il pontificato di Pio XII, proprio sulle cose vaticane cominciava a propalare false notizie. Se ne accorse subito Breza che annotava sul suo diario: «Roma, 2 dicembre ’56 - ‘L’Espresso’, uno dei pochi giornali italiani appartenenti al no man’s land, pubblica una rubrica di brevi notizie confidenziali del retroscena politico intitolato Speciale. Tra di esse si trova sempre una porzione di notiziole vaticane, le quali godono di una buona reputazione presso i consolati e le ambasciate, malgrado il fatto che quando ‘L’Espresso’ si lancia in editoriali dedicati alle questioni vaticane, spesso vengano fuori delle assurdità. Ma forse questo succede proprio perché quel pizzico di verità autentica che sono riusciti a scoprire, lo condiscono a profusione con salsa di dubbia autorità. Per quanto riguarda lo Speciale, sono incline a pensare che si tratti di pizzichi senza condimento». (p. 97)

I l .l i n g u a g g i o .d e l .p a p a

Assistendo alla beatificazione di Innocenzo XI, Breza nota che «tra le righe delle formule glorificanti e della fraseologia tradizionale delle beatificazioni fa continuamente capolino il motivo informatore dell’intero discorso. Agli occhi di Pio XII Innocenzo XI fu il papa che si batté consapevolmente e senza tregua per affermare il pieno diritto della Sede Apostolica di nominare i vescovi, e per creare uno sbarramento cristiano contro i turchi. Il discorso non contiene la benché minima allusione alla realtà contemporanea, non vi si trovano piccole metafore sparse qua e là: ma esso stesso, nel suo insieme, non è altro che tutta una grande metafora. Fin dalle prime parole si avverte che costruendolo Pio XII ha messo l’accento principale proprio su quei vescovi e su quel muro contrapposto alla grande ondata che minacciava di sommergere il cuore, il focolare stesso della cristianità. Di punti sulle “i” non ne mette mai: altri, a tempo debito, lo faranno per lui». (p. 91) Chi è in grado oggi di leggere la 'grande metafora' del pontificato di Pio XII?

L ’ e p o c a. d e l l a. t e c n o l o g i a

In quegli anni c’era chi diceva che l’America ha preso Cristo senza la croce e la Russia la croce senza Cristo. Con tono leggero Breza riferisce delle riflessioni del coltissimo papa. «Se non ci fosse il comunismo, la spina principale, il problema numero uno sarebbe l’America e l’americanizzazione spirituale del mondo. Il papa non ne parla, non la nomina mai chiaramente. Definisce la nostra epoca come l’epoca della “seconda rivoluzione tecnica”. Tale rivoluzione fa sì, questo più o meno il suo pensiero, che ormai ci appaiano vicini gli orizzonti di un’era in cui non solo la natura del mondo non avrà più segreti, ma non ne avrà più neanche quella dell’uomo, preso sia individualmente che nelle sue connessioni sociali. I gabinetti medici e le cliniche ristabiliranno l’equilibrio morale; i problemi sociali man mano si presenteranno verranno risolti in un baleno dai cervelli elettronici; non ci sarà più posto per le passioni, per gli impulsi, per l’irrazionale. […] Più piano! Più piano! Lasciate che l’uomo riprenda fiato! […] Coloro che accusano la Chiesa di tradizionalismo, prosegue Pio XII, non capiscono che oggi al mondo non c’è niente di più umano della tradizione. […] La tradizione, sempre a detta di Pio XII, non solo ha un valore terapeutico per la piaga della vita moderna, e cioè la rapida e incessante trasformazione del mondo sotto la spinta delle illimitate possibilità tecniche, ma dovrebbe anche venir applicata preventivamente dovunque il progresso non sia ancora arrivato…». (pp. 111-112)

L a .C h i e s a .m o d e r n a

«Una circostanza tipica per la Chiesa moderna, e cioè che nella nostra epoca essa ci si trova bene. Certo, non così bene come nel Medioevo, ma molto meglio di quanto si trovasse nel diciannovesimo secolo. Ed infatti nel diciannovesimo secolo era timida» (p. 281). Sembra un paradosso, nel regno pacelliano, così legato alla tradizione, la Chiesa sapeva dialogare meglio con il moderno. Successivamente fu di nuovo afflitta dalla timidezza. Molti aspetti del Concilio Vaticano II sono contrassegnati proprio dalla timidezza nei confronti dell’onnipotente Moderno.

I l .s o v r a n o. d i .R o m a

Nei giorni seguiti alla morte del pontefice (ottobre 1958), mentre Roma si avvolgeva nel lutto solenne per il suo sovrano: «Da secoli e secoli la vita di Roma si accentra intorno al papa. I Savoia e Mussolini turbarono per un po’ questa specie di assetto geometrico, ma sono passati. Il papa invece è rimasto, ed è tornato a essere il centro che era prima». (pp. 361-362)

P a d r e. P i o. g i à .a l l o r a. s i. d i s t i n g u e

«Roma, 6 febbraio ’58 - C. T., grande attore italiano e fervido ammiratore di Padre Pio, mi raccontava oggi alcuni commoventi episodi sul suo conto. Qualche anno fa un suo collega, il famoso comico Carlo Campanini inviò una lettera a Padre Pio dicendo che avrebbe desiderato appartenere alla sua famiglia spirituale, ma che disperava di poterci entrare, dato che ogni sera doveva fare il buffone sulla scena, con la faccia impiastricciata di cerone. Padre Pio gli rispose press’a poco con queste parole: “Figlio mio, i tuoi scrupoli sono infondati. Ognuno di noi, per quanto è grande il mondo, fa il buffone là dove lo ha messo la Provvidenza”. È una frase grande. Per Padre Pio, come per tutti i suoi predecessori a cominciare da S. Gerolamo per finire a S. Filippo Neri, la serietà non è cosa adatta all’uomo, creatura macchiata dal peccato originale. Ecco senz’altro una delle fonti dell’esistenzialismo cristiano, consistente in un senso di vergogna e di imbarazzo provocato nel genere umano in seguito alla cacciata dal Paradiso». (p. 280)

domenica 31 ottobre 2010

La santa curiosità

~ LA VICENDA EVANGELICA DI ZACCHEO ~
Le letture della messa di oggi devono essere suonate strane agli iconoclasti tutti avvolti nello spirito. Il vangelo raccontava di Zaccheo, ricco peccatore che, tra la folla, si arrampica su un albero di sicomoro per vedere Gesù, e viene premiato (con una visita a casa sua di Gesù stesso e con la redenzione). Egli non cercava la salvezza nel profondo del cuore, bensì si rivolgeva fuori di sé, voleva vedere la figura, la forma fisica, di quel profeta di cui tutti parlavano. Per questo resta esemplare dopo duemila anni. Il domenicano che ci è capitato di ascoltare stamattina, fedele alla corrente filosofica che ha contrassegnato l’Ordine dei predicatori nei secoli, chiosava così l’episodio nell’omelia: lo stupore di fronte alle cose è – secondo Aristotele – alle origini del filosofare; la santa curiosità di Zaccheo, la sua apertura al mondo, alle immagini del mondo, è alle origini del processo di salvazione. Se poi fosse restato qualche dubbio, c’era nella medesima liturgia odierna, una lettura dal libro della Sapienza che dava un colpo definitivo a ogni forma di gnosi: «Poiché tu ami tutte le cose esistenti / e nulla disprezzi di quanto hai creato» (11,24). Altro che demiurgo, altro che creazione malata, che realtà infelice, che esistenza dannata. È la celebrazione di tutte le cose esistenti, il sì cristiano al mondo.

La vittoria sulla corruzione della carne


~ IL 1° NOVEMBRE DI SESSANT’ANNI FA, PIO XII PROCLAMAVA IL DOGMA DELL’ASSUNZIONE DI MARIA. ~ IL PUNTO CULMINANTE DELLA GLORIFICAZIONE DEL CORPO NELLA STORIA DEL CATTOLICESIMO ~

Con il suo linguaggio da papa di altri tempi – che invano ridicoli giudici vorrebbero omologare al loro gergo moderno, come ricordava giustamente lo storico Paolo Mieli qualche giorno fa in televisione –, Pio XII glorificava il corpo femminile nel dogma dell’Assunzione in cielo di Maria, proclamato davanti a una folla mai vista il 1° novembre dell’anno santo 1950. Riportiamo alcune citazioni dal lungo documento «Munificentissimus Deus», pronunciato in quell’occasione e rinvenibile sul web nel sito vatican.va.

Il Nostro pontificato, come anche l’età presente, è assillato da tante cure, preoccupazioni e angosce, per le presenti gravissime calamità e l’aberrazione di molti dalla verità e dalla virtù; ma Ci è di grande conforto vedere che, mentre la fede cattolica si manifesta pubblicamente più attiva, si accende ogni giorno più la devozione verso la vergine Madre di Dio, e quasi dovunque è stimolo e auspicio di una vita migliore e più santa. Per cui, mentre la santissima Vergine compie amorosissimamente l’ufficio di madre verso i redenti dal sangue di Cristo, la mente e il cuore dei figli sono stimolati con maggiore impegno a una più amorosa contemplazione dei suoi privilegi.

Dio, infatti, che da tutta l’eternità guarda Maria vergine, con particolare pienissima compiacenza, «quando venne la pienezza del tempo» (Gal 4, 4), attuò il disegno della sua provvidenza in tal modo che risplendessero in perfetta armonia i privilegi e le prerogative che con somma liberalità ha riversato su di lei. Che se questa somma liberalità e piena armonia di grazie dalla chiesa furono sempre riconosciute e sempre meglio penetrate nel corso dei secoli, nel nostro tempo è stato posto senza dubbio in maggior luce il privilegio della corporea assunzione al cielo della vergine Madre di Dio Maria.
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Questo privilegio risplendette di nuovo fulgore fin da quando il nostro predecessore Pio IX, d’immortale memoria, definì solennemente il dogma dell’immacolata concezione dell’augusta Madre di Dio. Questi due privilegi infatti sono strettamente connessi tra loro. Cristo con la sua morte ha vinto il peccato e la morte, e sull’uno e sull’altra riporta vittoria in virtù di Cristo chi è stato rigenerato soprannaturalmente col battesimo. Ma per legge generale Dio non vuole concedere ai giusti il pieno effetto di questa vittoria sulla morte se non quando sarà giunta la fine dei tempi. Perciò anche i corpi dei giusti dopo la morte si dissolvono, e soltanto nell'ultimo giorno si ricongiungeranno ciascuno con la propria anima gloriosa.
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Ma da questa legge generale Dio volle esente la beata vergine Maria. Ella per privilegio del tutto singolare ha vinto il peccato con la sua concezione immacolata; perciò non fu soggetta alla legge di restare nella corruzione del sepolcro, né dovette attendere la redenzione del suo corpo solo alla fine del mondo. […]
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I fedeli, guidati e istruiti dai loro pastori, appresero bensì dalla s. Scrittura che la vergine Maria, durante il suo terreno pellegrinaggio, menò una vita piena di preoccupazioni, angustie e dolori; inoltre che si avverò ciò che il santo vecchio Simeone aveva predetto, perché un’acutissima spada le trapassò il cuore ai piedi della croce del suo divino Figlio, nostro Redentore. Parimenti non trovarono difficoltà nell'ammettere che Maria sia morta, come già il suo Unigenito. Ma ciò non impedì loro di credere e professare apertamente che non fu soggetto alla corruzione del sepolcro il suo sacro corpo e che non fu ridotto in putredine e in cenere l’augusto tabernacolo del Verbo divino. Anzi, illuminati dalla divina grazia e spinti dall’amore verso colei che è Madre di Dio e Madre nostra dolcissima, hanno contemplato in luce sempre più chiara l’armonia meravigliosa dei privilegi che il provvidentissimo Iddio ha elargito all’alma Socia del nostro Redentore, e che hanno raggiunto un tale altissimo vertice, quale da nessun essere creato, eccettuata la natura umana di Cristo, è stato mai raggiunto. […]
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Ma in modo più splendido e universale questa fede dei sacri Pastori e dei fedeli cristiani è manifestata dal fatto che fin dall'antichità si celebra in Oriente e in Occidente una solenne festa liturgica: di qui infatti i santi padri e i dottori della chiesa non mancarono mai di attingere luce, poiché, come è ben noto, la sacra liturgia, «essendo anche una professione delle celesti verità, sottoposta al supremo magistero della chiesa, può offrire argomenti e testimonianze di non piccolo rilievo, per determinare qualche punto particolare della dottrina cristiana».
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Nei libri liturgici, che riportano la festa sia della Dormizione sia dell’Assunzione di santa Maria, si hanno espressioni in qualche modo concordanti nel dire che quando la vergine Madre di Dio salì al cielo da questo esilio, al suo sacro corpo, per disposizione della divina Provvidenza, accaddero cose consentanee alla sua dignità di Madre del Verbo incarnato e agli altri privilegi a lei elargiti. Ciò è asserito, per portarne un esempio insigne, in quel Sacramentario che il Nostro predecessore Adriano I, d’immortale memoria, mandò all’imperatore Carlo Magno. In esso infatti si legge: «Degna di venerazione è per noi, o Signore, la festività di questo giorno, in cui la santa Madre di Dio subì la morte temporale, ma non poté essere umiliata dai vincoli della morte colei che generò il tuo Figlio, nostro Signore, incarnato da lei».

Ciò che qui è indicato con la sobrietà consueta della Liturgia romana, nei libri delle altre antiche liturgie, sia orientali, sia occidentali, è espressa più diffusamente e con maggior chiarezza. Il Sacramentario gallicano, per esempio, definisce questo privilegio di Maria «inspiegabile mistero, tanto più ammirabile, quanto più è singolare tra gli uomini». E nella liturgia bizantina viene ripetutamente collegata l’assunzione corporea di Maria non solo con la sua dignità di Madre di Dio, ma anche con altri suoi privilegi, specialmente con la sua maternità verginale, prestabilita da un disegno singolare della Provvidenza divina: «A te Dio, re dell’universo, concesse cose che sono al disopra della natura; poiché come nel parto ti conservò vergine, così nel sepolcro conservò incorrotto il tuo corpo, e con la divina traslazione lo conglorificò». […]
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Noi, che abbiamo posto il Nostro pontificato sotto lo speciale patrocinio della santissima Vergine, alla quale Ci siamo rivolti in tante tristissime contingenze, Noi, che con pubblico rito abbiamo consacrato tutto il genere umano al suo Cuore immacolato, e abbiamo ripetutamente sperimentato la sua validissima protezione, abbiamo ferma fiducia che questa solenne proclamazione e definizione dell’assunzione sarà di grande vantaggio all’umanità intera, perché renderà gloria alla santissima Trinità, alla quale la Vergine Madre di Dio è legata da vincoli singolari. Vi è da sperare infatti che tutti i cristiani siano stimolati da una maggiore devozione verso la Madre celeste, e che il cuore di tutti coloro che si gloriano del nome cristiano sia mosso a desiderare l’unione col corpo mistico di Gesù Cristo e l’aumento del proprio amore verso colei che ha viscere materne verso tutti i membri di quel Corpo augusto. Vi è da sperare inoltre che tutti coloro che mediteranno i gloriosi esempi di Maria abbiano a persuadersi sempre meglio del valore della vita umana, se è dedita totalmente all’esercizio della volontà del Padre celeste e al bene degli altri; che, mentre il materialismo e la corruzione dei costumi da esso derivata minacciano di sommergere ogni virtù e di fare scempio di vite umane, suscitando guerre, sia posto dinanzi agli occhi di tutti in modo luminosissimo a quale eccelso fine le anime e i corpi siano destinati; che infine la fede nella corporea assunzione di Maria al cielo renda più ferma e più operosa la fede nella nostra risurrezione. […]

giovedì 28 ottobre 2010

Con un secolo di ritardo

~ TANTE FIRME PER UN MANIFESTO ~

Uno sconclusionato Manifesto destro-futuromane con un secolo di ritardo si aggira tra noi e minaccia strani revival. Registra che «le parole della politica sono corrose, sono spuntate, non fanno presa sulla realtà» e invece di prenderne atto e metterle da parte auspica una «visione» politica che meglio sarebbe dire «ideologia». Di questa non se ne sentiva affatto bisogno. Il bando ci ammonisce che «senza cielo politico non c’è cultura, ma soltanto erudizione e retorica». Ricominciamo? La cultura deve essere politica, con le bandierine qui chiamate «cielo politico», altrimenti sarebbe «soltanto erudizione»? Tornano a predicare i Vittorini? E dove mai trovano in abbondanza questa erudizione i docenti universitari firmatari? Volesse il Cielo ci fossero eruditi e retori non distratti dal chiasso dei pubblici amministratori. Magari si affermassero gli scrittori che pensano alla loro prosa piuttosto che alle trame camorristiche, i pittori che sanno dipingere invece di buttarla nella ‘provocazione’ e in politica, i colti in genere che divorano i libri senza consumarsi negli odi effimeri delle passioni partitiche. Si è sprecato tanto tempo, l’intero Novecento, in questi oziosi esercizi e c’è gente, anche di una certa età, che ci riprova? che ne sente la mancanza?

mercoledì 27 ottobre 2010

Il delitto pop in diretta

~ SULLO SPETTACOLO DELLA CORRUZIONE UMANA ~
Per via del pregiudizio luterano secondo il quale il senso dell’udito sarebbe più spirituale di quello della vista, e la parola cristiana da contrapporre all’immagine pagana, la radio si sente l’intellettuale di famiglia tra i media e considera la televisione la parente povera e sguaiata. Forte di questa credenza, la voce senza volto fa con molta spocchia il controcanto ai programmi televisivi. In questi giorni, ai suoi microfoni sono sfilati intellettualini particolarmente indignati perché le folle non si perdono una puntata dell’orribile delitto pugliese. Il pop è lodevole soltanto quando li diverte: la trivialità dei diamanti di Hirst va bene, quella del giallo live e arcaico no. Abituati alla scuola sovietica, vogliono ammaestrare la gente su ciò che deve prediligere. Eppure nessuno obbliga nessuno a immergersi nelle nefandezze del romanzo popolare in diretta: chi vieta loro di leggersi in alternativa Ludovico Ariosto? Gli ascoltatori più giacobini telefonano al conduttore e raccontano tutte le telecronache che hanno dovuto subire saltellando ossessivamente da un canale all’altro: neppure i poliziotti che indagano son così informati, ma non si confessa mai quello strano e sottile piacere per la narrazione trucibalda, assai affine alla letteratura di denuncia, spettatori e lettori vogliono essere turbati dallo spettacolo della umana corruzione (sulla messa in scena davanti al Palazzo di Giustizia di Milano e sugli ammanettati in aula, con la diretta quotidiana, negli anni Novanta, ci costruirono una stagione politica, perfino un partito ancora attivo). Con fare circospetto si preferisce parlare di morbo e poi corrono tutti a farsi ammorbare. Il massimo del ridicolo si ha nell’intervistare i docenti dei tanti Dams, gli specialisti nell’erudire i pargoli sull’arte di fare audience, nel catturare i cuori, i quali poi si mostrano scandalizzati dalle loro creature; più candidi di suorine sono sorpresi dalla logica dei media. Qualcuno arriva a insinuare il solito dubbio: che il responsabile sia l’onnipotente Cavaliere che mette su il pasticciaccio di zio, nipote e cugina, per distrarre le masse italiane dalla rivoluzione imminente. Parola di Radiotre. Radiorai.

lunedì 25 ottobre 2010

Le sorelle maggiori

~ LA DONNA NELLA LITURGIA EBRAICA E CRISTIANA ~

Nella messa domenicale di ieri in una chiesa romana si alternavano alla lettura dei sacri testi delle anziane signore in abiti assai vistosi, una arrivando a sfoggiare un corpetto in paillettes da Wanda Osiris che, sotto le luci sempre più teatrali che illuminano le nostre absidi, irradiavano strani bagliori in consonanza con il luccichio degli strass sparsi sulla pianeta del celebrante. Distratti dal fastidioso riverbero, tornavano alla mente delle letture pomeridiane proprio sulla distrazione nel tempio, in un numero della rivista «Rassegna mensile di Israel» del febbraio-marzo 1973, riproposto online.

Negli anni postconciliari in cui la parola d’ordine dei cattolici era aggiornamento, furioso aggiornamento, nel mondo ebraico – che pure conosceva le rivolte del riformismo, soprattutto in versione americana – si manteneva la fedeltà alla tradizione, alla lingua ebraica come alle regole liturgiche. Nella confusione di quel tempo, si continuava dunque a insegnare precetti che potevano suonare addirittura scandalosi per l’ideologia in voga. E più che mai indipendenti dal pensiero unico dominante oggi appaiono gli ammaestramenti del rabbino Menachem Emanuele Artom, pubblicati su quel numero della «Rassegna» di circa quarant’anni fa.

Vi si leggeva, per esempio: «la nostra tradizione stabilisce due elementi, per cui la donna si differenzia dall’uomo in campo rituale e liturgico; da una parte il gran peso, la grande importanza ed il grande valore che si dà ai suoi compiti in seno alla famiglia, e d’altra parte il massimo rispetto per la sua modestia, base fondamentale dell’altissima moralità a cui deve informarsi l’ebreo in tutte le manifestazioni della sua vita. E proprio tenendo ben presenti questi due principi potremo comprendere le limitazioni alla partecipazione della donna ebrea alle manifestazioni liturgiche, limitazioni che, a prima vista, possono sembrare rivolte a metterla in una condizione di secondo piano e che invece sono essenzialmente destinate a valorizzarla ed a rispettarla». Non sembra di leggere i più ‘conservatori’ dei teologi cattolici, i pochi che resistevano dopo il Concilio all’assalto della ‘novità’?

Ancora: «Si potrebbe obiettare che le parti che non sono strettamente obbligatorie […] potrebbero esser cantate anche da donne […]. E quindi, appunto molte parti cantate, che non fanno parte della Tefillà obbligatoria, potrebbero essere affidate a cori femminili, che hanno indubbi pregi artistici e danno un tono particolare di dolcezza e di sentimentalismo. Ed il ragionamento non farebbe una grinza, se non ci fosse anche un altro elemento, a cui pure abbiamo accennato prima. Il canto femminile, come ogni altro vezzo della donna, può indurre chi lo ascolta a pensieri lascivi, o comunque distrarre da quella serietà e da quella concentrazione che debbono sempre esser perseguite da chi si dedica alla Tefillà e che si trova nel Beth Ha-Keneseth [ovvero, casa di riunione, sinagoga, n.d.r]».

L’antica spiegazione – che potremmo ritrovare anche in san Paolo – viene ripetuta senza paura di apparire inattuali: «Dato che ognuno di noi – uomo o donna che sia – deve nella sinagoga dedicarsi esclusivamente alla meditazione religiosa, dobbiamo tenere lontana da noi ogni occasione di pensare ad altri argomenti. E chi di noi, anche se animati dalle più pure e oneste intenzioni, non può esser indotto dal contatto con persona dell’altro sesso a pensieri non adatti al luogo? Insisto sulle parole non adatti al luogo perché è ben noto che nell’Ebraismo non esiste l’ ‘orrore per la carne’ ed i rapporti sessuali, a loro tempo e a loro luogo e disciplinati dalla Torà, non sono nulla di sconveniente o di brutto - ma sempre ogni cosa a suo luogo ed a suo tempo».

C’è però un ulteriore chiarimento che complica il modello delle ‘sorelle maggiori’ nel campo cristiano: «negli ultimi tempi, poi, la avversione al coro femminile trova anche un altro motivo. Il coro femminile è caratteristica delle chiese cristiane, ed è stato introdotto, insieme ad altre innovazioni che ledono la pura tradizione ebraica, nelle così dette sinagoghe riformate, che, fonte specialmente nel secolo scorso in Germania, hanno adesso ripreso piede negli Stati Uniti ed in pochi altri Paesi. Orbene, il culto riformato non è un legittimo e naturale sviluppo delle tradizioni ebraiche, ma un’imitazione di quelle cristiane, una specie di sincretismo assimilato tra ciò che insegna la Torà e usanze ad essa contrarie; la conseguenza di quasi tutte le attività riformatrici è stata che i loro seguaci si sono in ultima analisi staccati dall’Ebraismo». Già, nonostante la comune concezione di una liturgia maschile, strada facendo il cristianesimo – la «modernità cristiana» che risale ai primi secoli dell’èra nuova – ha innalzato la donna sul modello di Maria, la Deipara. La riforma liturgica dell’ultimo Concilio voleva testimoniare questo straordinario ruolo femminile nella storia del cattolicesimo. Ma non seppe misurarsi con le miserie umane delle paillettes.

giovedì 21 ottobre 2010

Una purpurea nomina


~ IL PAPA PONE UN CAPPELLO CARDINALIZIO
SULLA MUSICA TRIDENTINA ~

Domenico Bartolucci fu nominato direttore perpetuo della Cappella musicale pontificia Sistina negli anni Cinquanta, quando ancora c’erano i falsettisti. Una decina di anni fa, il Maestro che restava fedele alla tradizione latina fu rimosso dall’incarico. Essendo perpetuo non si poteva licenziare, ma l’avversione dei progressisti riuscì a travolgere la semantica. A quei tempi sembra che il cardinale Ratzinger sia stato l’unico a opporsi al provvedimento. Eppure, una volta papa, non è riuscito a rimettere al suo posto il vecchio monsignore che, a novantatre anni, continua prodigiosamente a incrociare le voci nell’arte contrappuntistica a gloria della Chiesa di Roma; la partita sulla liturgia deve essere davvero delicata. Però ieri è stato annunciato che Benedetto XVI lo ha fatto cardinale. Una purpurea nomina che piace ad «Almanacco Romano».

mercoledì 20 ottobre 2010

Per un pugno di euri

~ PERCHÉ LA MONETA DOVREBBE MANTENERE IL SINGOLARE
ANCHE QUANDO FORMA UN GRUZZOLO? ~
I lettori di questo «Almanacco» ci hanno chiesto talvolta perché ci ostiniamo a dire euri per il plurale della moneta che omologa il vecchio continente. La grammatica francese che conserva un certo rigore, nonostante l’epoca, non ha dubbi: «Au pluriel, ‘euro’ et ‘cent’ sont soumis aux règles de la grammaire française. S’ils varient en nombre, on leur ajoute un s: un euro, deux euros, cent euros et trois cents...». All’avvento della moneta unica in Francia lo prescrisse addirittura un comunicato della Commissione generale di terminologia e neologia, che dipende direttamente dal Primo ministro. Ma con una delle sue strampalate trovate, una direttiva della Comunità Europea, convertita in legge degli Stati membri interessati, ordinava che il plurale di «euro» fosse invariabile in inglese, tedesco e italiano, mentre nelle altre lingue potesse seguire la morfologia propria di ciascuna di esse. Eppure la pagina inglese della Commissione europea ammette, dopo aver stabilito quel bizzarro euro pure per il plurale: «However, more general usage of these terms may differ in some languages, such as English, where it is natural practice to refer to the currency in the plural form as ‘euros’ instead of the official form ‘euro’. This is the same practice as used with most currencies in English, as in the plural form dollars». Ciononostante, in Irlanda, che è l’unico paese di lingua inglese che ha l’euro come moneta ufficiale, si usa senza s. Spagnoli, portoghesi e danesi aggiungono invece la desinenza plurale quando è il caso. Soltanto gli italiani, i tedeschi e i greci restano bloccati sul singolare. Gli avversari degli euri ricorrono a questi argomenti: è scritto in modo indeclinabile sulle banconote e c’è una legge europea che vieta a noi italiani (evidentemente con i francesi o gli spagnoli non hanno osato legiferare sulla lingua) l’uso del plurale. Non fosse altro che per questo divieto degli eurocrati dovremmo tutti declinare al plurale quell’euro il cui cambio con le amate lire ci ha tanto impoverito. Ci piace citare in proposito un vecchio comunista che sapeva scrivere, Luigi Pintor: «La moneta è già di per sé un’astrazione massima e idealizzarla come indeclinabile oltreché onnipresente e onnipotente mi sembra un eccesso di zelo e masochismo inconscio».

domenica 17 ottobre 2010

De consolatione artis

~ L’ITALIA DI FUMAROLI ~
Marc Fumaroli ha concesso il 14 ottobre un’intervista al «Corriere della Sera» (rintracciabile nell’archivio del giornale online), lodando come al solito l’Italia. Siti e giornalini convinti che il nostro Paese non sia abbastanza esterofilo e ‘moderno’ ci son rimasti male e se la son presa con l’illustre signore che scompagina le loro misere idées reçues. Un divertente scrittore (di un romanzo solo), Alessandro Piperno, ha replicato con le migliori intenzioni ma con argomenti indegni delle sue pagine salaci. Le interviste, si sa, dipendono anche dalle domande e dalla trascrizione delle chiacchiere; lo stile di Fumaroli, senza la mediazione del giornalista, è in genere più sontuoso. Ma almeno una frase va ricordata e possibilmente meditata: l’Italia «ci ha consolato dall’espressionismo tedesco. Da voi, non c’è mai stato disprezzo del mondo, ma un invito a gustarlo ancora, anche quando tutto sembra perduto e desolato».

sabato 16 ottobre 2010

Citazione All’Inferno!

In un'università statunitense degli anni Cinquanta, nel corso di un seminario pieno di buone intenzioni «per progettare una società migliore», si sfiorò anche la letteratura e l’arte del momento, la «rabbia» che covava. Il filosofo Leo Strauss, coinvolto suo malgrado, in uno degli interventi disse così: «Mancano di pensiero e di disciplina. Hanno invece quello che chiamano sincerità. È da vedere se è poi necessaria quella che chiamano sincerità, finché non si sa se la sincerità sia equiparabile alla sfacciataggine; la sincerità non è certo autosufficiente: essa si realizza completamente in urli acuti e stonati, che non sono opere d’arte. ‘La vita è un racconto narrato da un idiota’ vien detto in un’opera d’arte, perché la vita è un tale racconto solo per chi ha violato la legge della vita, la legge cui è soggetta la vita. È vero che il messaggio degli scrittori in questione non è quello di Macbeth. Gridano che la vita è melma. Ma non si può percepire che la vita è melma se non si è prima percepita la purezza, e su di essa, che per natura si percepisce per prima, essi tacciono completamente. L’individuo che non rispetta nessuno è un’assurdità. Le loro grida sono accuse lanciate contro la ‘società’, non appelli a esseri umani fatti con spirito di fraterna correzione; questi accusatori si credono fuori dalla portata delle accuse; i loro individui sono fatti di accuse; intendono l’individuo come accuse e grida. Ogni accusa presuppone una legge, accuse del tipo di quelle espresse da loro richiedono una legge sacra, ma di ciò essi sembrano non avere alcuna coscienza. I loro gridi ricordano quelli dei dannati dell’inferno; essi stessi appartengono all’inferno». (da L. Strauss, Liberalismo antico e moderno, Giuffré, 1973, p. 325).

mercoledì 13 ottobre 2010

Il dito nell'occhio

~ LA TRAGEDIA DI UN FATTO RIDICOLO ~
~ E ALTRE DIVAGAZIONI ~

Se sotto la tua casa collocassero un altoparlante e per tutta la giornata venisse ripetuta la battuta di un comico, sia pure una bella battuta, sonora, crassa, ma sempre quella, presto la faccenda ridanciana si trasformerebbe in incubo. E se lo strazio comico-drammatico durasse non un giorno ma per sempre, «fine pena mai» come nel vecchio ergastolo, la faccenda evocherebbe le pene dell’Inferno. Commiserate chi abita o chi lavora nella piazza di Milano dove lo snobismo piccolo-borghese ha consentito che fosse fissata nel marmo una battutaccia, che divenisse anzi un monumento (cioè memoria e monito). La risatina che dovrebbe suscitare lo sberleffo dell’autore miliardario alla Borsa prospiciente si gela in bocca per la reiterazione forzata. Altro non c’è.

I pernacchi – futuristi – risalgono a oltre un secolo fa. Vien da dire con garbo: non spernacchiate più – siete diventati petulanti – soprattutto non chiedete per farlo l’autorizzazione e i soldi delle autorità. Abbiamo capito che ormai sprezzate l’atto istintivo, che credete sia una mossa astuta, per li rami situazionisti, irreggimentare il gesto scurrile nell’ ‘evento’; che vi sembra maggiormente ridicola, e quindi da coltivare, la trovata per cui il turpiloquio ottiene la benedizione del sindaco. Ma le istituzioni non sono la controparte, da tempo il primo cittadino non porta più baffi e cilindro e scodinzola devoto a ogni proposta ‘culturale’. Non finge neppure di scandalizzarsi, piuttosto si sente complice, anche perché paga. Nel caso specifico, si considera pure competente: il dito centrale rivolto al cielo per minacciare una sodomizzazione all’avversario è il suo gergo preferito, lo rilancia nei comizi, eccita il suo pubblico. Facile convincere tutti i politici alle più umilianti posture pur di partecipare al gioco. Voi non svelate il trucco dei poteri, come qualche ingenuo pretendeva all’inizio, confermate l’ansia di condividere il cheap degli «spettatori della domenica». L’eccentricità di massa: ciascuno può far parte dell’immensa élite, basta dire sì. In confronto, le concorrenti di «Miss Italia» sono ancora delle ascete.

Un vecchio che ha superato i cent’anni dovrebbe possedere la saggezza: non si strappa invano il tempo al destino. Gillo Dorfles invece ha evidentemente ancora molto rispetto umano se si limita a commentare l’impresa milanese con una frasetta pilatesca: «un’opera brutta per una piazza brutta». Quando basta la grazia di un albero o di una statua o perfino di una panchina per correggere le brutture architettoniche di un luogo. Altrimenti, la decorazione a che serve? E la senilità a che serve? Uno dei massimi ingegni del Novecento, Ernst Jünger, eroe del germanesimo pagano, a 101 anni ebbe l’ardimento di scegliere la Chiesa di Roma.

Nel vuoto aperto dalla morte, l’arte può fare da surrogato della religione. Meglio di niente. Nella civiltà cristiana diventa l’aspetto sensuale della fede; per dirla con un esempio facile, la Pietà michelangiolesca consola, accarezza e dà corpo alla speranza. Ma una installazione è morta cosa.

E se un tempo questa anti-arte si giustificava esibendo almeno la disperazione di non poter più consolare, né celebrare, né trascinare la fantasia dell’epica, né suscitare i pensieri gentili dell’idillio, oggi si propone soltanto come goliardia. Roba per ventenni, a occuparsene a trenta è da rimbambiti.

C’è chi confonde la risata di Zarathustra con quella scaturita dal più triviale filmetto italiano. Prendiamo sul serio lo scherzo, il denaro pubblico investito in simili pasquinate è ‘serissimo’, ma dov’è l’arguzia?

Uno dei boss dei musei contemporanei romani ammonisce un povero cristo che si è attaccato una sua ‘opera’ da solo e clandestinamente alle pareti del Macro, pensando di fare un’azione anarcoide: «c’è una procedura per esporre» dice con tono burocratico. Ecco, il nichilismo del comico di successo ha invece rispettato la procedura, compilato i moduli: voglio esporre in piazza Affari un dito medio, chiedo perciò per l’opera tot euri. Che performance la contrattazione al rialzo negli uffici municipali, quella sì!

L’aforisma del coatto non è esattamente la stessa cosa di un linguaggio franco, oggidì intrappolato nei continui richiami alla correttezza ideologico-politica. C’è un po’ di confusione in giro: rifiutarsi di ripetere quelle parole insapori, neutre, false (gaio anche per l’omosessuale mesto), non vuol dire ridursi a un’espressione sguaiata. Le circonlocuzioni tipo ‘non vedente’ per cieco son roba da précieuses ridicules onde imbellettare la morte, il dolore, il tragico, il sangue, il sesso. Per troppo espressionismo però si diventa spesso villani.

Gli stessi che si rallegrano per la triste statua, il giornale che esalta «il coraggio» di chi si lascia provocare contento, pone poi limiti ad altre barzellette peraltro meno capziose e meno aggressive, sicuramente non monumentali, private. Sarebbe curioso se un dito come quello in questione, magari collocato vicino a una moschea muovesse una fatwa: che reazione avrebbero gli amanti del dito? I buoni, si sa, hanno molta comprensione per la violenza dell’Islam. Ma gli estetisti del contemporaneo sono furbi, lo notava Arbasino già molti anni fa: su Gesù e Israele ci si può permettere ogni insulto, ogni blasfemia, ma sul profeta islamico meglio tenersi alla larga, lì infatti non si scherza. Su Maometto poi si è già pronunciato Dante, senza peli sulla lingua, anzi con figure più dirompenti dell’allusione di un dito. Nel più profondo dell’Inferno, secondo gerarchica e ragionevole concezione dell’orrore, nel XXVIII canto, il corpo dell’eresiarca appariva spaccato dalla testa all’ano, tra le gambe gli pendevano le budella, tutte le interiora venivan fuori, «e ‘l tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia». L’oscena visione testimoniava la fiera avversione per i nemici della religione, per i seminatori di scandalo. Non stava raccontando un «motto di spirito», stava scuotendo lo spirito con la forza dei versi; con arte nutrita dalla teologia di Tommaso.

lunedì 11 ottobre 2010

La ragazza delle chiavi

~ ANCORA SULLE BIBLIOTECHE ~

Per non ridurre tutta la faccenda ai ‘tagli’, ai soldi. C’è un piccolissimo episodio da raccontare che testimonia della grande fantasia barocca dei burocrati. Alla Nazionale di Roma bisogna lasciare borse e valigette al deposito, non è come certe biblioteche dove basta mostrare il contenuto al custode, si temono giustamente i furti, i doppi fondi, si ignorano però i nascondimenti più intimi, si evitano per ora le perquisizioni personali. Al deposito dunque ci sono mobiletti abbastanza recenti, forniti di chiave, e qui viene il bello. In mezza Europa, almeno nelle biblioteche che si son visitate, per evitare che i distratti non restituiscano lo strumentino d’accesso, bisogna infilare un euro e si tira via la chiave, si rimette la chiave per riprendere la borsa e automaticamente ridiscende l’euro. Più o meno come funziona il carrello dei supermercati. E per chi manca degli spiccioli si può aggiungere lì accanto una macchinetta del cambio. Troppo semplice e troppo poco costoso per la nostra istituzione libraria. Alla Nazionale hanno inventato un procedimento più ‘umano’. C’è una ragazza a cui si presenta la tessera della biblioteca, lei la prende, ricopia a matita (poi vedremo perché a matita) il numero della tessera su uno speciale modulo con le righe, ricopia altresì il numero della chiave nella casella accanto e ve la consegna. Al termine, si restituisce all’affollato tavolo della povera ragazza (assunta? precaria?) la chiave in questione e lei cancella con la gomma il vostro numero scritto a matita (c’è di mezzo anche la legge sulla privacy, non basta farci sopra un fregaccio, si deve abradere con rigore) e riprende l’oggetto di tanto traffico. Immaginate nelle ore di punta l’affollamento intorno all’impiegata che con una mano scrive e con l’altra cancella (spesso, essendo la prima persona in cui ci si imbatte, è anche interrogata, e in varie lingue, sulle modalità d’accesso). Bene: a chi ha escogitato un simile servizio voi dareste dei fondi pubblici, sia pure ridotti per i recenti ‘tagli’?

sabato 9 ottobre 2010

I mangiatori di cultura

~ LO SCANDALO DI UNA FRASE MINISTERIALE ~

«La cultura non dà da mangiare» disse il ministro che economizza sulle spese pubbliche, scandalizzando tutti. Sfiorato il tabù principale della nostra epoca. Questa sfuggente entità non si discute per paura di bestemmiare, la cultura qui la cultura qua. Non si ripete sempre che essa «produce ricchezza», non si parla del suo «indotto economico»? Nel momento che l’umanesimo non conta più niente e non rilucono i suoi prodotti, ci si inventa un’estensione del concetto di cultura che coincide con quello di far soldi, con le occasioni di «consumo». Ma l’onnipresente consumo dell’arte e della parola distrae non consola della morte. Si addestrano i giovani a trarre pretesto da ogni monumento sparso nel nostro Belpaese per adunare turisti; si moltiplicano gli assessori che invece di lastricare le strade discettano di arte; si investono soldi pubblici per concertini d’ogni tipo onde moltiplicare il gruzzolo come fosse un enalotto. Si avversano inoltre gli onesti uomini del Business senza maschera e si camuffano con il gentile nome di artista gli affaristi del Nulla.

Se si provasse ad aggiustare la frase così: «la vera cultura non dà da mangiare». «Vera»: che formulazione ingenua, risponderebbero i saccenti funzionari del culturame, che sono tutt’altra genìa dalle persone colte. Ma Rainer Maria Rilke sarebbe d’accordo. Del poeta dice nel Libro d’ore, «il più misero sei dei senza-tetto,/ il mendicante che nasconde il volto,/ l'immensa rosa della Povertà, l’arcana metamorfosi perenne,/ che cangia l’oro in folgorio di sole».

giovedì 30 settembre 2010

Orgogliosi di essere anormali

~ QUESTO NON È UN PAESE PER IL BIEDERMEIER ~

Fu lo slogan di un politico coi baffi ormai in declino, ma gli resiste gagliardamente. Tutti infatti fanno a gara nel ripetere crucciati che «questo non è un paese normale», in genere anzi nella forma ipotetica che accentua l’effetto retorico e lascia immaginare un sospiro nostalgico: «se questo fosse un paese normale!». Certo che non lo è, per fortuna che non lo è. Grazie al cielo l’Italia non appare un paese normale e non si tratta di una questione degli ultimi secoli: lo ricordava l’altro giorno il direttore dei Musei vaticani, parlando della Galleria delle carte geografiche: «L’Italia è, fra tutti i paesi del mondo, il ‘più nobile’ intendendo nel termine tutto quello che è storia, memoria, cultura, varietà, bellezza. Così pensava Gregorio XIII Boncompagni. Così sta scritto nei cartigli che sovrastano la carta dell’Italia antica (‘Commendatur Italia locorum salubritate, coeli temperie, soli ubertate’) e quella dell’Italia moderna (‘Italia artium studiorumque plena semper est habita’».

La penisola italiana che appare un Eden, il giardino comune dell’umanità, anche a un anti-latino come Dostoevskij, l’Italia che esce prima di tutti dalle guerre perché, secondo quanto osserva Montaigne, è un paese carico di saggezza, l’Italia di Dante e di Raffaello, delle città incantate, dell’arte, della musica, dei mille incroci di civiltà, delle invenzioni machiavelliche, delle fantasie leonardesche, della dolce vita millenaria, sarebbe dunque da ricondurre alla norma, una via di mezzo tra il Belgio e la Finlandia? Nessun paese è ‘normale’, ciascuno risulta legato in modo unico al cuore della sua gente. Il nostro vecchissimo popolo casomai è più eccentricamente anormale degli altri. Questo non è un paese per il Biedermeier. Lo sosteneva con posa cinica Orson Welles nel Terzo uomo, quando, sulla Ruota del Prater di Vienna, confrontava l’Italia dei pugnali e veleni del Rinascimento con la Svizzera degli orologi a cucù. Tanto diverso dagli altri che il suo popolo, immune da ogni sciovinismo, si diletta nella maldicenza autolesionista, si compiace per spirito vendicativo di qualsiasi straniero che abbia da far critiche feroci al Belpaese, invidia la ‘normalità’ degli altri, la loro mediocrità, il loro grigiore (forse abbagliato da troppa luce). Alla retorica patriottarda ricorrono solo le pubbliche istituzioni quando innalzano monumenti ai caduti e organizzano le celebrazioni per l’unità d’Italia massonica. Ma nessuno ci crede, divorati tutti da una robusta e antica faziosità.

martedì 28 settembre 2010

Tagli e ritagli

~ CHIOSE UN PO’ GROSSOLANE, NE SIAMO CONSAPEVOLI,
A UNA PROFESSORALE ‘LETTERA APERTA’ ~

Chissà in quanti uffici pubblici i burocrati avranno preso le forbici per ritagliare l’articolo del «Corriere», opportunamente fotocopiato e ingrandito, sui cosiddetti «tagli alla cultura», in specie alle biblioteche, per appenderlo quindi in qualche bacheca e farsi forti di una così autorevole opinione (quelli che magari con vari corsi hanno imparicchiato a muoversi nella rete universale si saranno serviti del copia & incolla per scambiarsi il pezzo in guisa di mutuo conforto). Nella ‘lettera aperta’ al bonario ministro della Cultura, il Professore si è unito al coro di chi vorrebbe che non si lesinassero gli euri per le biblioteche, come del resto per tutto ciò che innalza lo stendardo della «cultura», dove evidentemente dovrebbe bastare la magica parola per aprire le borse. L’insigne storico avrà sicuramente ragione e ha già ottenuto il consenso di tutti coloro che si occupano di biblioteche e che sono addottorati nella scienza per gestirle, noi modestissimi utenti (come veniamo definiti), ci permettiamo di avanzare qualche dubbio. Anzitutto, se il Prof. spiega che lo Stato continua a pagare regolarmente gli stipendi e che non ha minacciato alcuno di licenziamento, non capiamo quale sia il problema. Che non si può procedere a nuove assunzioni, che il personale bibliotecario si assottiglia, che non c’è nessuno per aggiornare i cataloghi? Ma allora perché alla Nazionale di Roma, tanto per fare un esempio, i pubblici impiegati per ingannare la noia chiacchierano ininterrottamente impedendoci di leggere? Certe volte, dopo aver sentito parlare per ore di vacanze, ‘ponti’ e collage di ponti, di isole tropicali, di ristoranti in Indonesia e di alberghi in Egitto, càpita di protestare e di ottenere un quarto d’ora di tregua, poi ricomincia il cicalio, segno che non si ammazzano di fatica. Alla Biblioteca di storia, a Palazzo Caetani, tanto per fare un altro esempio, sono molti di più gli addetti che i lettori. Eppure si deve attendere che finiscano le loro interminabili conversazioni prima che ti vadano a prendere un libro. Ma il Professore si lamenta anche del fatto che il governo crudele non garantisca delle somme per gli extra. Fosse vero, si riuscisse a evitare i concerti, i teatrini, le mostre, i dibattiti dove dovrebbe regnare semplicemente il silenzio.

Mancano i soldi ma domenica prossima si tiene in tutta Italia una mega-manifestazione – «Domenica di carta» è il desolante titolo da asilo infantile – con biblioteche aperte l’intero giorno, visite guidate, ‘eventi’ scontati, una inutile pubblicità per promuovere i fondi librari. Sullo sfondo di una grossa chiave, «La cultura è apertura» rima lo slogan: capperi, che significato da brivido! Ma vi pare che i lettori delle cinquecentine vadano presi per la collottola e attirati con canti e suoni come si fa per la Coca-cola? I bibliomani sono una setta, anche se di massa, che non ama il proselitismo.