sabato 25 ottobre 2008

La deportazione degli infermi

STANNO TRASFORMANDO I VECCHI OSPEDALI IN MUSEI, NASCONDENDO IL DOLORE E LA MORTE, ALLONTANANDO I PAZIENTI DAL CUORE DELLE CITTÀ ITALIANE DOVE LA PIETÀ CRISTIANA LI AVEVA COLLOCATI. ADESSO LO SFRATTO DEI SOFFERENTI SEMBRA INCOMBERE SUL S. GIACOMO

A Siena, ancora negli anni venti del Novecento, le vetuste porte della città venivano serrate con il calar delle tenebre e non vi si poteva né entrare né uscire fino all’alba. Testimoniava Ranuccio Bianchi Bandinelli nel Diario di un borghese: «Se penso che quando nacque la mia prima figlia a Siena, la mia città, ancora si chiudevano le porte della città alle nove di sera, al suono del campanone. Grandi portoni di legno chiodato, con grossi verricelli di ferro battuto. Restava aperto un portoncino per i pedoni fino a mezzanotte, poi si chiudeva anche quello. […] Era il 1925; ma avrebbe potuto essere benissimo il 1825, se non fosse stato per la luce elettrica e l’acqua corrente (scaldata a legna)». Oggi Siena appare sventrata da porta a porta, destinata a zona di attraversamento e sosta del flusso turistico mondiale. In questo saccheggio dei consumatori ‘culturali’ vanno perse le dimensioni mirabili concepite dagli artisti e dai signori del luogo.

Quarant’anni dopo, la ‘città chiusa’ rievocata dal nobile storico, pur avendo aperto porte e brecce, vietava al suo interno l’ingresso, prima in Italia, alle automobili e ai pullman. Sembrava una iniziativa meritoria sennonché le trappole moderne sono più sottili delle buone intenzioni. Svuotato infatti il centro dei mezzi meccanici, restituita Piazza del Campo allo splendore di altre epoche – e già Cesare Brandi si attardava ad ascoltarvi «l’arcano suono del tempo che sottofonda il silenzio» – , questa specie di set medioevale, così almeno fu percepito, acquisì maggiori meriti di suggestione turistica, e folle appiedate come non si erano mai viste nella sua storia occuparono giorno e notte i principali luoghi della città. Una turba che nulla sapeva di Duccio e di Simone fu spinta a visitare la severissima Siena per gusto di esotismo temporale, trasformando la ‘città della Vergine’ in una immensa bottega. Tanto allora si spinse la sua trasformazione in una attrattiva per la massa che, come del resto succede in altri consimili luoghi, le iniziative di mostre e concerti presero a solleticare la curiosità dei visitatori di un solo giorno. Un quotidiano festival dei luoghi comuni artistici, in scena tutto l’anno.

Schiere di esperti al soldo pubblico per invenzioni di mostre raccogliticce onde vendere qualcosa ai vogliosi compratori, al punto da esporre opere perennemente presenti, appena risistemate con un titolo che campeggia in questi giorni per la città, «My name is Duccio», e che sembra fare prostituire al pubblico più grossolano il genio cittadino. Che altri eventi nella prima metà del Novecento, con le porte ancora chiuse dunque, e pochi, sceltissimi, viaggiatori, quando il conte Guido Chigi-Saracini invitava nel suo palazzo di città i migliori musicisti della terra, da Pablo Casals ad Alfredo Casella, e in tale adunanza usciva dall’oblio il nome e l’opera di Vivaldi, quasi una scoperta stupefacente.

Comunque, finché si adescano i turisti con mostre a loro misura, si arricchisce vieppiù il cosiddetto indotto, niente di serio. Ma, tra le prime in Italia, Siena fu anche svelta a svuotare l’antichissimo ospedale cittadino di Santa Maria della Scala, deportando altrove i sofferenti che accoglieva, per offrirlo in pasto al pubblico dei musei. Questa non è una semplice iniziativa effimera, bensì la violazione urbanistica più crudele. Qui per volere del popolo, cioè della borghesia, e dell’oligarchico governo, dei banchieri, del vescovo, dei canonici, degli abati e degli artisti che fungevano da consulenti, l’ospedale era nato, mille anni fa circa, e si era sviluppato proprio davanti al duomo, nel cuore della città, affinché il momento del dolore e della morte avessero tutta la rilevanza che meritano. Il moderno tabù non costringeva allora a nascondere l’aspetto meno lucente dell’umano in luoghi periferici e chiusi allo sguardo pubblico. Piazza miracolosa delle rimembranze comunitarie, insieme al tempio cittadino, al tesoro artistico, ai segni del passaggio di Caterina, lo spazio dell’antico castrum – il sacro nucleo della città-stato che si estende alle lunatiche Crete e alle colline del Chianti, fino al mare sotto Talamone – vantava superba l’immenso edificio dello xenodochio (aperto infatti anche ai pellegrini della Via Francigena), dirimpettaio maestoso della nerobianca facciata che corregge gli eccessi gotici con la misura toscana.

A Firenze, Brunelleschi aveva concepito lo Spedale che serviva da rifugio ai bambini abbandonati, gli Innocenti che danno il nome a quel capolavoro dell’architettura universale, a Siena Simone Martini, Ambrogio e Pietro Lorenzetti, il Vecchietta e il soavissimo Beccafumi, come più tardi il napoletano d’adozione Sebastiano Conca, decorarono le sale che accoglievano gli infermi, vi narrarono storie che alleviavano lo spirito dei degenti; nel corso dei secoli, tra artisti di immensa fama e oscuri artigiani qui si formò una schiera di facitori di bellezza per compensare la bruttura della decomposizione corporale, per consolare con uno strepitoso finale l’addio al mondo. Secondo l’usanza cristiana, del resto, la congiuntura del dolore e del trapasso non veniva confinata nella solitudine, era accompagnata dalla pietà collettiva, dalla presenza comunitaria, dall’arte dei migliori, ché inoltre la bellezza aveva certamente un valore terapeutico e rincuorante. Italo Calvino ebbe ancora la grazia di morire in queste stanze, forse per misteriosa ricompensa della sua dedizione alle belle lettere.

Davvero democratico era il munifico ospizio, i vecchi indigenti delle campagne del contado potevano farsi curare in sale da re. Ma un giorno, sul finire degli anni ottanta, ci si eccitò collettivamente all’idea di recuperare un sì prezioso sito, mettendo in ombra chi era costretto a scontare questo recupero. Naturalmente si disse che era meglio collocare le macchine ultratecnologiche dell’accanimento terapeutico in luoghi concepiti appositamente per simili novità, contravvenendo all’opinione imperante che vuole ormai che gli spazi aulici siano sempre invasi dalle installazioni postmoderne per connubio dissonante; in realtà erano ipocrite giustificazioni per ottenere un altro spazio eccellente e metterlo alla mercè degli onnivori turisti. Perché sprecare immobili che valgono un tesoro come dimora di chi non conta più niente a questo mondo: i vecchi, i fragili, gli agonizzanti? Perché turbare lo spettacolo della vita nell’angolo del lusso cittadino con la comparsa di madama Morte? Perché rovinare le distrazioni costose dei consumatori itineranti facendoli inciampare in un memento mori d’altri tempi? Perché resistere alla voglia di mettere il passato sotto vetro, nella teca museale che lo allontana dalla nostra vita, che spezza la tradizione rendendocelo estraneo? I pazienti sarebbero andati a nascondersi in qualche lazzaretto moderno, dove manca a priori la bellezza.

Un furto di ricchezze accumulate da generazioni e generazioni per i loro confratelli ed eredi nell’ora suprema, spesso con donazioni e sacrifici, spesso con l’accorata partecipazione di pittori e scultori; un furto perpetrato ai danni della popolazione senese, che non potrà più avere il piacere di morire nell’arte dopo una esistenza trascorsa a intimo contatto con lei («Entro in Duomo e parlo con l’arte» scrisse Tozzi nel suo Diario). Non si erano certo privati di copiose ricchezze quei realisti banchieri, mecenati del Santa Maria della Scala, per fare poi ricavare dal luogo del dolore varie sale capienti dove allestire le chiacchiere della convegnistica nazionale, dove spargere parole vuote, scambiate senza alcuna convinzione. Né tanto meno per cedere alla frivolezza di un museo contemporaneo – come l’ultimo inaugurato qui – che si chiama Sms, appena un acronimo dell’ospedale dedicato alla Madonna, ma con una flessione del gergo adolescenziale, un richiamo reclamistico per televisioni di provincia.

Di degenerazione in degenerazione cittadina, si chiude l’ospedale caritatevole per farne un museo a pagamento e poi si chiude il duomo per farne un museo a pagamento. Sì, bisogna acquistare un biglietto di ingresso, scambiare alla cassa denaro simoniaco per entrare nel duomo di Siena, per contemplare l’opera impareggiabile di Nicola Pisano, per camminare timorosi sul pavimento intarsiato dalle Sibille e dalle loro enigmatiche sentenze – percorso iniziatico straordinario – , per gioire delle meraviglie di Pinturicchio, per pregare per Siena. La casa di Dio è sbarrata ai nullatenenti. Non bastarono le ragioni estetiche che tolsero alla cattedrale la Maestà di Duccio per scomporla in varie pinacoteche, tutte le parti della chiesa sono infine imbalsamate come pezzi da museo, non più oggetti sacri, adibiti al culto. Il duomo da sempre a disposizione della città, adesso, nell’epoca democratica, è sottratto ai cittadini. Peccato non vedere folle di studenti e di senesi d’ogni età urlare contro questa scandalosissima privatizzazione del tempio.

A Roma, già da tempo, il Santo Spirito aveva perduto l’ala più antica, quella lunghissima corsia che somigliava alla Cappella Sistina, tante volte scenario dei film neorealisti che non perdevano l’occasione di mettere a un certo punto i protagonisti delle loro storie nei letti schierati in un sala vasta come una chiesa, accuditi dalle suore che accorrevano premurose sotto i larghi cappelli bianchi del Seicento. In origine era stata l’antica Schola Saxonum, che divenne ospizio riservato ai germani che attraversavano le Alpi a piedi per venire a inginocchiarsi sulla tomba di Pietro, non ancora catechizzati dalla predilezione della Theologia deutsch per il verbo paolino. Innocenzo III lo trasformò in un ente di assistenza per tutti i bisognosi, tedeschi e non tedeschi, e ne affidò l’organizzazione ai Templari. Così il Santo Spirito si diffuse per l’Europa ed ebbe cinquecento filiali che si richiamavano al modello romano di ospitalità. Decadde quando Roma fu privata del papa, risorse con il rientro dei pontefici. Sisto IV vi lasciò un segno speciale. La carità dei papi e di molti romani, spesso dopo essere stati curati in quelle sale, donò all’ospedale un patrimonio immobiliare così imponente – in mezza Roma e nei feudi della campagna romana – che per amministrarlo e trarne frutti nacque il Banco di Santo Spirito, un istituto finanziario che sopravvisse fino a una quindicina di anni fa.

Non per caso la corsia si chiama sistina come la celebre cappella, ambedue i luoghi erano stati restaurati e resi illustri da papa Sisto IV, al secolo Francesco della Rovere. Una somiglianza, una familiarità sottolineata da Botticelli quando dipinge proprio nella Cappella Sistina, sullo sfondo della purificazione di un lebbroso secondo il rito ebraico, la facciata dell’ospedale del Santo Spirito. Due rettangoli (la corsia ospedaliera ha misure doppie della cappella), concepiti dagli stessi architetti, con decorazioni simili, E anche per l’ospedale Sisto IV commissionò gli affreschi – mille metri quadri di affreschi – a pittori di scuola umbra. I pontefici dunque pensavano a una somiglianza tra ospedali e templi cristiani, tra la sofferenza umana e il sacrificio della croce.
Al centro della corsia, a separare la parte maschile da quella femminile un altare, dedicato a San Giobbe (paziente per eccellenza), forse opera di Palladio, il creatore delle più esclusive ville del mondo, che sarebbe stato pagato dai papi per addobbare le sale del travaglio nel pubblico ospedale. Accanto all’altare, un organo che suonava musica terapeutica – la musica è sempre curativa – a lenire nelle corsie lo strazio con l’incanto quando non esistevano gli analgesici.

Reggia della carità, fu definito il Santo Spirito. Ospitò, alimentò e protesse i senza tetto, le partorienti, gli orfani, i neonati abbandonati alla ruota, le prostitute, i perseguitati. Gli archiatri pontifici erano prestati all’ospedale, basti il nome di Giovanni Maria Lancisi, i migliori scienziati della città si mettevano al servizio degli ultimi; nell’Antica Spezieria del Santo Spirito si ricercava con successo, ad esempio l’uso della corteccia di china per la cura della malaria; il teatro anatomico fu frequentato da Leonardo e Michelangelo.

Perfino Lutero, che pure riuscì a non trovare niente di buono nella città santa, di fronte all’ospedale sul Tevere – magari per sentimentalità germanica nel ricordo dell’opera pia dei sassoni – rimase ammirato, ricordando ancora, decenni dopo il suo viaggio in Italia, nei discorsi a tavola tra molti boccali di birra, spendendo molti elogi e moltissimi superlativi, gli ospedali italiani, generalizzando quel che aveva visto al Santo Spirito. Questi ospedali, diceva, «sono costruiti con edifici regali, ottimi cibi e bevande sono alla portata di tutti, i servitori sono diligentissimi, i medici dottissimi, i letti e i vestiti sono pulitissimi e i letti dipinti. Appena vien portato un malato, lo si spoglia di tutte le sue vesti che alla presenza di un notaio vengono onestamente messe in deposito; gli si mette un camiciotto bianco, lo si mette in un bel letto dipinto, lenzuola di seta pura. Subito dopo vengono condotti due medici. Arrivano poi dei servitori portando da mangiare e da bere in calici di vetro pulitissimi che non toccano neppure con un mignolo, ma li offrono su di un piatto. Accorrono qui delle spose onestissime, tutte velate; per alcuni giorni, quasi sconosciute, servono i poveri e poi tornano a casa». A Firenze altresì aveva ammirato il Santa Maria Nuova, il più antico della città: «anche le case dei fanciulli esposti, dove i fanciulli sono alloggiati, nutriti e istruiti in modo eccellente; li abbigliano tutti con un medesimo vestito dello stesso colore e sono curati molto paternamente» (dalle Tischreden)

Ma con maggiore acrimonia di Lutero per le cose dal marchio cattolico, un ambiente tanto lodato - recitava il verdetto - non andava più bene per i pazienti nei tempi attuali. Sicuramente i nuovi paradigmi sanitari non permettevano un ammasso di letti, una mancanza di privatezza. Si decise allora di mantenere gli infermi nella parte nuova, svendendo agli eventi goduriosi la parte storica. Non si capisce però come uno spazio che risulta perfetto per mostre lussuose di antiquariato, per concerti, congressi e convention non possa essere usato dai malati ai quali era destinato: per esempio come sala di incontri con le famiglie, di passeggio per i convalescenti, di distrazioni domenicali. Invece subito la mano laica e furba della speculazione ha cambiato la destinazione, ha portato via ai malati per dare ai sani.

Adesso è la volta del San Giacomo, nel centro esatto della città, affacciato su quel Corso che taglia proprio il Tridente barocco, nei pressi di uno degli studi di Antonio Canova. Dal Trecento, per opera del cardinale Colonna, a parziale espiazione delle colpe familiari per avere oltraggiato papa Bonifacio ad Anagni, era sorto tra il porto di Ripetta e la via del Corso, l’ospedale degli Incurabili. Vi si curavano i sifilitici ma la vicinanza con la Porta del Popolo, principale ingresso della città per i viaggiatori di tutta Europa, ne facevano anche un ospizio dove fermarsi dopo il travagliato cammino. Lo ricordava papa Karol Magno nella sua prima visita del 1980: «Come nel caso del Santo Spirito, i benemeriti fondatori e promotori si preoccuparono che esso sorgesse in una zona adiacente alle vie Cassia e Flaminia, tanto spesso percorse dai pellegrini ‘romei’ nel loro itinerario di fede e di pietà verso la città, consacrata dal martirio dei Santi Pietro e Paolo. Si potrebbe dire che fu quella una ‘scelta strategica’, intesa ad offrire a chi dal Nord giungeva a Roma, dopo tante fatiche ed anche, in qualche caso, dopo i pericoli di un lungo viaggio, accoglienza e assistenza e, quando c’erano infermi, anche il soccorso e il ricovero». Nel cinquecento, l’ospedale fu parzialmente riedificato e nell’ottocento papalino subì un robusto restauro e riattamento. Da sette secoli ospedale dell’Urbe, fu beneficiato da principesse, santi, papi, artisti. «San Gaetano da Thiene – ricordava ancora Giovanni Paolo II – ne fece per molti anni la sua la dimora abituale per poter essere vicino ai fratelli ammalati. San Filippo Neri lo frequentò fin da giovane come luogo per esercitarvi la pietà e fu tra i primi ad intravedere l’opportunità di assicurare ai convalescenti un periodo di soggiorno in luogo adatto, prima di riprendere il lavoro. San Felice da Cantalice, tanto popolare nella Roma del Cinquecento, qui si recava di frequente per aiutare i confratelli cappuccini, che vi operavano ai suoi tempi. Ma più degli altri al San Giacomo è legato il nome di San Camillo de Lellis, il quale vi trascorse, in diversi periodi, quasi un decennio della non lunga sua vita, come infermo, inserviente, infermiere e maestro di casa. Dopo la conversione dalle dissipazioni della giovinezza, nell’annessa, antica chiesa di San Giacomo, egli celebrò la sua prima Messa, e si può dire che proprio dalla sofferta e concreta esperienza, qui maturata, derivò le linee così sapienti di azione pastorale, che fissò poi nella Regola della sua Congregazione dei ‘Ministri degli Infermi’».

Tra stemmi pontifici e comunali, si legge in una lapide: «Se potete guarire, guarite; se non potete guarire calmate; se non potete calmare consolate». Ora ci tolgono anche la consolazione. Agli anziani, che popolano ancora i quartieri storici, questo ospedale era familiare come una parrocchia. Qui erano nati i nonni e i bisnonni, qui vi erano tornati a morire. Tra le migliaia di artisti stranieri che abitarono Roma o vi tennero bottega nei paraggi di piazza del Popolo, molti ricorsero alle cure del S. Giacomo.

Invano i discendenti del cardinal Antonio Maria Salviati, nipote a sua volta di Lorenzo de’ Medici, si rivolgono anche alla Rete universale per esporre in un blog le carte dell’avo in cui si intima che per nessun motivo venga alienato il patrimonio ospedaliero. Risuonano le sue parole: «ordina e stabilisce che tutti i beni e i diritti donati da lui stesso, enumerati in questo instrumento, nonché tutti gli altri singoli beni che in seguito verranno da lui destinati dalla chiesa alla confraternita e all’arciospedale di S. Giacomo o dal collegio Salviati [...], in alcun modo possano essere venduti, ceduti, dati, donati, pignorati, ipotecati, obbligati, né totalmente né in parte, anche minima, a qualsiasi titolo o diritto, ad alcuna persona, luogo, collegio, università o capitolo…». Ma ormai la storia è interrotta, il volere degli antichi non conta più niente. Ben altro allettamento sembra avere l’idea di aprire un piccolo museo al Corso, dove collocare magari, per somma ingiuria, le opere di Damien Hirst, con i flaconcini vuoti dei medicinali appesi come caciocavalli o le sue autopsie giocherellone. Una iniziativa pensata in buona coscienza, come si dice, abbrancati alla parola magica: cultura, ovvero lo spirito in salsa gnostica, che scioglie le concretezze e il buonsenso, bloccando in tanti crampi la vita. In questo caso, perfino nelle sue fasi estreme.

Che meraviglia esprimerebbe Ernst Robert Curtius, venerabile umanista del Novecento, di fronte alla chiusura dell’ospedale del Corso. Lui che, costretto a trascorrere i suoi ultimi giorni in una clinica romana dalle parti di piazza Risorgimento, approfittava dei periodi in cui gli era concesso qualche passo incerto nei dintorni per sedersi alle panchine del brutta piazza e da lì contemplare la Cupola di San Pietro, scrivendo agli amici di mezza Europa del dolce destino riservatogli. Sapeva della beatitudine che arreca l’arte al momento di separarsi dal corpo. Come avrebbe amato il saggista tedesco chiudere gli occhi nelle belle forme del San Giacomo.