sabato 3 ottobre 2009

minima / Caravaggio ignora Bacon. E viceversa
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Francis Bacon, prima decoratore e arredatore, folgorato poi dalla pittura di Velàzquez e di altri grandi della tradizione, pittore a sua volta, ultimo sigillo insieme a Lucien Freud della breve storia dell’arte britannica moderna inaugurata da Hogarth, ma già pencolante nella postmodernità, l’unico ancora accettato dai cultori del «contemporaneo» che ne fanno anzi un santo patrono degli «Young British Artists», Bacon – dicevamo – nelle numerose interviste concesse si lasciò andare a compilazioni di lunghe liste di artisti che lo stimolarono, magari solo in riproduzione fotografica (visto che, pur passando per Roma, mai volle entrare alla Pamphilj per osservare de visu il suo eccelso ispiratore spagnolo), ma tra i tanti citati si guardò bene dal pronunciare il nome di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio; a quei tempi del resto non era ancora un personaggio mediatico di fama mondiale, le apologie di Longhi restando magnificamente intraducibili.
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Forse ispirata dal dialogo organizzato al Metropolitan di New York tra un quadro di Bacon e il pescecane di Hirst (l’originalità difetta sempre tra i passionisti dell’originalità), la direttrice della Galleria Borghese ha collocato nelle auree stanze dei principi e dei porporati romani i quadri del desolato inglese, accompagnandoli con dei capolavori di Caravaggio che abbondano nel museo e nelle chiese di Roma, spogliate per l’occasione mondana. Il sospetto è che quello passava il suo convento e per inventarsi una mostra, per
animare il museo, ovvero per far cassa, bisognava associarlo a una star di oggi, anche se la star in questione non aveva mai mostrato il benché minimo interesse per il partner fornitogli post mortem dalla signora. Del resto vanno assai di moda le sacre conversazioni imbarazzate tra i maestri della tradizione e i caricaturisti del «contemporaneo», ma non è questo il caso, non si tratta di ludi sacrileghi, di baffetti alle gioconde di turno, bensì di una flagrante estraneità. Si voleva un accoppiamento strano e invece, perfino nei ritratti schierati sulla medesima parete, ciascuno se ne sta casto, chiuso in sé, in intransitabili frontiere.
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Nella sala dove il berniniano Enea trascina il vecchio Anchise accendendo cerebralisssime spirali nell’aria ferma, delle grandi macchie violente di una tela di Bacon sembrano turbare l’atmosfera senza tempo, ma le statue altere guardano altrove, sprezzando simili esperimenti moderni per dire con pochi e patetici mezzi della umana angoscia. Altrettanto fa la Paulette di Canova che torce il volto insensibile alle miserie estetiche britanniche. Accanto all’iconoclasta feroce, al «boia della sua stessa immagine», Caravaggio appare un nostalgico quattrocentesco – come diceva malignamente di lui Berenson –, evocando addirittura giorgionesche composizioni. Sì, c’è l’interesse ossessivo per il corpo umano, comune ai due, ma benché emergente da «un confuso abisso di tenebre», sosteneva ancora il Lituano, la figura caravaggesca risulta «cristallina come nel Mantegna». Nonostante le dure accuse di Bellori, la sua pittura risplende della migliore tradizione, conserva erotico velo alle verità della Controriforma. Bacon visse in un’epoca dei capricci elevati a dogma, di individualismi selvaggiamente disperati; nei suoi molti discorsi che accompagnavano le opere tornava insistente l’assunto, mai dimostrato, dell’uomo come assoluta futilità. Pur amandolo, Anthony Burgess parlava a questo proposito di «agonia individuale e collettiva». Subito dopo, l’autore
dell’Arancia meccanica era preso dal dubbio: «Forse non è vera arte quella che ci rinvia l’orrore dell’esistenza: molti critici sostengono che l’arte è compiuta realizzazione di una bellezza statica in forme adeguate. Invece i quadri di Bacon ci aggrediscono come manifesti di propaganda…». Il visitatore della mostra romana ne ricava pertanto una lezione sulla faglia che si è ormai aperta tra antichi e moderni. I gialli squillanti di Bacon però violentano lo sguardo, al punto che tutti i quadri stanziali della Galleria sembrano spegnersi nei loro timbri aulici, anche l’Amor sacro e Amor profano si ombra, quasi si nascondesse a occhi malati.
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Ma dove è l’intuizione acclamata nelle chiacchiere dell’inaugurazione, dove l’affinità elettiva tra i due protagonisti? Nel Lombardo scorrono languidi giovinetti e bambinelli divini, qui mancando per lo più il getto di luce che caratterizza gli altri suoi quadri, si espongono dunque corpi incerti ma erotici, frutta e fiori, delizie del creato: questa soprattutto la carnalità di cui si parla nella mostra. In quell’altro raccogliamo crittografie del dolore, tenebre e luce a neon, crocefissi anonimi battuti da flagellazioni surrealiste: con Grünewald dovrebbero confrontarsi. A meno di non volerli far confluire in un ‘barocco’ che nei due casi è aggettivo scontato quanto inconcludente, temiamo che le magiche corrispondenze si riducano al picaresco, a fenomeni secondari cioè, a letteratura scadente; a furia di emotività sparsa dappertutto si arriva al melodramma, addirittura ai segreti o ai sospetti della sessualità degli autori: associare due pittori con il cartiglio dell’omofilia è cosa cheap. Ma oggi la vita privata sembra suscitare il massimo interesse in ogni campo, ecco il frutto avvelentato di un mezzo secolo di politicizzazione forzata, di oblio dell’intimità.
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Proust fa morire beato il suo Bergotte al cospetto di un’opera di Vermeer; da ogni parete della Galleria romana, anche dai quadri più noiosi e mediocri, viene un accenno di consolazione, ma chi mai vorrebbe esalare l’ultimo respiro davanti agli scaltri contorcimenti del dandy inglese? La consapevolezza propagata dalle sue opere di essere in quanto umano una futilità metafisica non conforta granché. E a vederli in fila i feti di Bacon mostrano anzi una ‘maniera’ che tradisce l'immediatezza dell’‘urlo’, che rinvia alla serialità e alle assonanze che questa comporta con la produzione delle merci. Quei bitorzoli per esempio che caratterizzano tutti i volti ritratti, come segno di una malattia che si contagia, rivelano una certa affettazione fastidiosa. Maschere mostruosette che dovrebbero nascondere un’anima negata in partenza.
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Il quartetto cosiddetto delle dissonanze di Mozart e un quartetto di Schoenberg che fa a meno della tonalità possono essere intrecciati soltanto dai filologi in cerca di un prima e un dopo nella storia. Negli esiti restano immensamente distanti, radicalmente diversi, estranei l’uno all’altro. Così delle opere di due violenti pittori.