sabato 27 giugno 2009

A faccia a faccia con Dio


LO SPUNTO DI UN ARTICOLO GIORNALISTICO CI RIPORTA A UN CAPITOLO IMPORTANTE DELL’OPERA DI ALAIN BESANÇON SULL'ICONOCLASMO: LA PROIBIZIONE BIBLICA DELL’IDOLATRIA E IL VERO SIGNIFICATO DELL’«IDOLO» ~ COME IL DIVINO SI PORGE ALL’ORECCHIO EBRAICO E ALL’OCCHIO CRISTIANO ~
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Un articolo di Antonio Paolucci su una mostra dedicata a San Paolo, nelle celebrazioni centenarie dell’apostolo, ripropone temi su cui ci piace tornare a riflettere. «Com’era il volto di san Paolo?» – si chiede lo storico dell’arte –. «Non lo sappiamo né possiamo saperlo. Il primo secolo dopo Cristo, almeno nella parte del mondo che l’apostolo evangelizzò, è gremito di ritratti perché l’arte greco-romana era naturalistica e illusionistica. Gli artisti erano affascinati dalla rappresentazione dei caratteri fisionomici e psicologici delle persone. E infatti centinaia, migliaia di ritratti sfilano davanti ai nostri occhi quando visitiamo le grandi collezioni di statuaria antica. Sono uomini e donne, sono imperatori e generali, sono mercanti e liberti, soldati, atleti e gladiatori, coppie di coniugi che si danno la mano sul fronte dei sarcofagi, bambini e bambine che hanno lasciato prematuramente questo mondo consegnandoci, in mestizia, le loro amate sembianze. Ma il ritratto di un ebreo non lo troverete mai. Non c’è, non può esserci. La cultura ebraica era ed è rigorosamente aniconica». Questo l’incipit dell’articolo, titolato L’ebreo senza volto e pubblicato sull’«Osservatore Romano» del 26 giugno scorso. Sull’aniconicità della cultura mosaica ci interrogheremo più avanti, ma già nelle righe che seguono c’è un piccolo colpo di scena: Paolo, figlio eletto di quella cultura, ricorre alla parola eikon per parlare di Gesù Cristo. Leggiamo:
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«Era interdetta la rappresentazione dell’immagine umana. San Paolo che era giudeo di legge e di sinagoga e che deve aver fatto molta fatica a scrivere (nella prima ai Colossesi) che Cristo è eicon (‘immagine’) del Dio vivente, avrebbe considerato con repulsione la rappresentazione del suo volto. Il problema si pose fra il terzo e il quarto secolo quando una Chiesa ormai diffusa e strutturata giocò il grande e geniale azzardo che sta alla base di tutta la nostra storia artistica. Accettò e fece proprio il mondo delle immagini e lo accettò nelle forme in cui lo aveva elaborato la tradizione stilistica e iconografica ellenistico-romana. Avvenne così che Cristo buon pastore assumesse il volto di Febo Apollo o di Orfeo, che Daniele nella fossa dei leoni avesse le sembianze di Ercole, l’atleta nudo vittorioso. Ma come rappresentare Pietro e Paolo, i principi degli apostoli, le colonne portanti della Chiesa, i fondamenti della gerarchia e della dottrina? Qualcuno ebbe una idea felice. Diede ai protoapostoli le sembianze dei protofilosofi. Così Paolo, calvo, barbato, l’aria grave e assorta dell'intellettuale, ebbe il volto di Platone (o forse di Plotino) e quello di Aristotele il pragmatico terrestre Pietro che ha il compito di guidare, nelle insidie del mondo, la Chiesa professante e combattente».
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Il direttore dei Musei vaticani, di uno dei massimi tesori artistici dell’umanità, sa bene di quel «grande e geniale azzardo» che cambiò la storia dell’occidente, oltre che della pittura. Sa che l’«idea felice» di assumere l’immaginario pagano per dar forma al racconto della salvezza cristiana, prima ancora che offrire un repertorio validissimo per altri duemila anni ai massimi artisti, servì per comunicare l’anima mundi prediletta dai nostri rinascimentali, la bellezza, l’aisthesis, quel sorriso del creato che è alla base della concezione cattolica. Ma non fu indolore la scelta a favore delle immagini, tormentata anzitutto dalla selva di significati che si confondevano nelle varie lingue in cui la parola biblica si riverberò: ebraico, aramaico, greco, latino, a dire delle principali. Per chiarire queste traduzioni, leggiamo il secondo capitolo dell’Image interdite, lo studio di Alain Besançon (Fayard, 1994) che ripercorre la «storia intellettuale dell’iconoclasmo» e che apre il paragrafo dedicato alla Torah con queste parole: «Due temi si intrecciano nell’Antico Testamento, la proibizione assoluta delle immagini e l’affermazione che esistono delle immagini di Dio».
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La proibizione risuona in molte parti della Scrittura, ma la principale è quella di Esodo, 20 (4-6), perché sta come una premessa al cosiddetto Decalogo, la legge che è data a Mosè sul Sinai: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai». Se è comprensibile il divieto a raffigurare quello che sta in cielo, il divino che non si lascia impigliare nel linguaggio limitato degli umani, più difficile risulta l’interdizione a copiare il terreno, la platonica copia della copia. E intanto, mentre Mosè scendeva a rendere nota questa legge, il suo popolo convinceva Aronne a fare una statua in oro di un vitello affinché il Dio d’Israele possedesse una forma. Al di là delle questioni storiche per cui qui si mescolerebbero tradizioni diverse, noi ci atteniamo al racconto: quando Aronne ottenne «un vitello di metallo fuso, dissero: ‘Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!’». Besançon, senza distaccarsi dalle interpretazione correnti, sottolinea come il popolo non abbia cambiato divinità, non abbia peccato di infedeltà al suo liberatore, piuttosto abbia preteso una immagine di quella divinità nascosta, non potendo accontentarsi più, nel momento della massima incertezza, dell’Arca dell’Alleanza, di un segno astratto. Del resto i biblisti spiegano che il vitello, o meglio l’immagine del toro, non sostituiva la divinità invisibile, bensì si limitava a esserne il piedistallo, proprio come lo era l’Arca. Ma la confezione di un’immagine del Dio d’Israele è agli occhi di questo medesimo «Dio geloso» già un atto di apostasia.
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Mosè torna insistentemente sull’argomento, anche nelle ‘ultime disposizioni’, accennando a una spiegazione di tale proibizione solenne: «state bene in guardia per la vostra vita, perché non vi corrompiate e non vi facciate l’imagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o femmina, la figura di qualunque animale, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra; perché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito del cielo, tu non sia trascinato a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle; cose che il Signore Iddio ha abbandonato in sorte a tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli. Voi invece, il Signore vi ha presi, vi ha fatti uscire dal crogiuolo di ferro, dall’Egitto, perché foste un popolo che gli appartenesse, come oggi difatti siete» (Dt, 4, 14-20). Dunque, non soltanto l’ebreo deve evitare di fabbricarsi l’immagine di qualsiasi essere, anche mortale e animale, ma deve stare ugualmente attento a non contemplare con venerazione il sole e il cielo stellato, affinché non si formi mai neanche il desiderio fugace di un culto panteistico. L’abbozzo di spiegazione resta enigmatico: poiché siete gli eletti non dovete piegarvi alle immagini, tutti gli altri popoli invece vi si sottometteranno. Dov’è il legame tra immagine e predilezione divina?
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Grande peccato sembra essere quello dell’idolatra eppure, nota Besançon, la parola idolatria non appare che nel Nuovo Testamento e la parola latreia sta a significare sia il culto degli dèi come il culto del Dio di Israele. Allora è la parola idolo che va indagata maggiormente. Qui Besançon offre un interessante elenco di significati: «La definizione di idolo (eidolon) è meno chiara. La parola greca (dei Settanta) traduce trenta nomi ebraici diversi. Il senso letterale di questi nomi chiarisce il senso che gli ebrei davano alla cosa: 'a ven, ‘vanità’, ‘niente’, ‘menzogna’, ‘iniquità’; gillulim, interpretato sia come ‘tronchi d’albero’, sia come ‘pietre arrotondate’ e, secondo i rabbini, come ‘immondizie’ ed ‘escrementi’; hevel, ‘soffio’, ‘cosa vana’; kezavim, ‘menzogne’; to evah, ‘abominio’. Un’altra serie di nomi si richiama più che all’aspetto morale a quello derscrittivo, materiale, dell’idolo: terafim, ‘amuleti portatili’ (proibiti dalla Legge); tavnit, ‘immagini di esseri viventi’ (ugualmente proibiti) ; semel, ‘statua’, ‘oggetto scolpito’; massekah, ‘metallo fuso’. La Bibbia non accorda ad alcuno di questi oggetti una natura divina, e Isaia sottolinea che gli dèi delle nazioni non sono affatto degli dèi bensì ‘delle opere di mano dell’uomo, di legno e di pietra’. Tuttavia l’uso ha dato alla parola idolo un significato stabile e preciso: esso è l’immagine, la statua o il simbolo di una divinità falsa. Bisogna insistere sull’aggettivo ‘falso’, ché altrimenti il termine perde la sua specificità e significa semplicemente immagine. Esso sarebbe allora sinonimo di eikon, di omoioma, di semeion, di imago, di species. Nel suo vero senso, ‘idolo’ implica la rappresentazione di una divinità falsa alla quale si rende il culto riservato al vero Dio».
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Dante dice con il solito nitore: «dèi falsi e bugiardi». Geremia, che Besançon tralascia di citare, ci sembra spieghi come nessun altro la falsità delle immagini divine, rassicurando il popolo ebraico con linguaggio che pare illuminista affinché non tema la potenza delle immagini, quel magico che strega sensi e coscienza: «Non imitate la condotta delle genti e non abbiate paura dei segni del cielo, perché le genti hanno paura di essi. Poiché ciò che è il terrore dei popoli è un nulla, non è che un legno tagliato nei boschi, opera delle mani di chi lavora con l’ascia. È ornato di argento e di oro, è fissato con chiodi e con martelli, perché non si muova. Gli idoli sono come uno spauracchio in un campo di cocomeri, non sanno parlare, bisogna portarli perché non camminano. Non temeteli, perché non fanno alcun male, come non è loro potere fare il bene. Non sono come te, Signore» (10, 1-6). Tutte le superstizioni umane sono messe in fuga in queste righe, l’opera degli «artisti raffinati», come si esprimerà Geremia in un passo successivo, è contrapposta a quella del Dio vivente. I trenta nomi ebraici per la parola greca 'idolo' sembrano far la loro comparsa nel passo del profeta. Quando Walter Benjamin – che pensava «in accordo con la dottrina talmudica», come disse un giorno di sé – gioisce per la perdita dell’aura con cui l’opera d’arte si è sempre mascherata fa sicuramente riferimento a queste parole profondamente ebraiche, altro che apologia del moderno.
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L’idolatria delle genti – è l’illuminante conclusione di Geremia – significa il culto del nulla. La proibizione idolatrica sottrae Israele a questo vuoto. Eppure i filosofi pagani già distinguevano: il culto va alla divinità cui si riferisce l’immagine, non alla cosa che la rappresenta. Tesi che viene ripresa senza mutarne una virgola dai teologi dell’inconodulia cristiana. Torna allora la domanda iniziale: perché l’ebraismo è così rigido nei confronti dell’immagine, perché nonostante le distinzioni dei trenta nomi, la minaccia di confondere l’idolo con l’eikon fa un deserto tutto intorno a sé? Forse perché è durissimo resistere ai culti idolatrici ed essere l’unico popolo tra le genti a non piegarsi alla divinizzazione del mondo. La storia di Israele infatti è segnata da cadute idolatriche, dal Vello di Aronne al culto cruento di Moloch. Di qui questa «severa pedagogia divina». Besançon ritiene allora che «non è in virtù della sua natura che questo Dio sia irrappresentabile, bensì in virtù del rapporto che intende intrattenere con il suo popolo». L’Antico Testamento è infatti costellato di immagini che rinviano a una presenza nascosta (dall’arcobaleno che segna la fine del diluvio al roveto ardente). «Queste epifanie sono il segno di una presenza, non sono la Presenza stessa». Di fronte ai segni epifanici Mosè si nascondeva il volto e si apprestava ad ascoltare. «Veramente tu sei un Dio che si nasconde» esclama Isaia. Insomma, secondo Besançon, l’intimità di Israele con Dio «non passa per la vista ma per l’udito, Fides ex auditu». Non a caso, la preghiera che risuona nei momenti solenni, anche di pericolo, comincia con le parole «Ascolta, Israele».
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Il Dio che andava a casa di Abramo o che si mostrava a Giacobbe, il Dio che si presenta come un interlocutore affabile degli ebrei, non viene mai descritto, si riportano però le sue parole. «Nella stilistica biblica – nota Besançon – abbondano le metafore, le immagini e tutte le figure della retorica. La bellezza divina autorizza un suo riflesso letterario». Lo stesso non vale per la sua eco figurata. Platone arrivò a condannare la scrittura perché già frutto della supremazia della vista, preferendo la parola esoterica sussurrata all’orecchio dell’aristocratico confratello; l’ebraismo celebra i rotoli scritti ma ne ascolta il suono nelle letture pubbliche e nell’infinito studio.
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L’arte sarebbe un inganno quando anticipa la visione faccia a faccia con Dio nel tempo dell’attesa, mentre nell’islam, improntato all’eterno presente, la proibizione è implicita ma in alcuna sura del Corano, sostiene Besançon, viene espresso il divieto di farsi una immagine divina. A riassumerlo in uno schema, l’ebraismo rifiuta l’immagine per troppa intimità con Dio, l’islam per troppa distanza. Quando Paolo predica allora che «Il Figlio è l’immagine del Dio invisibile» traduce il Vangelo nel più autentico ebraismo e apre le porte a una sottile iconofilia.