sabato 11 ottobre 2008

Fino all'ultimo respiro

SURROGATO DELLA LITURGIA, COSTEGGIANDO GLI ‘EVENTI’ AVANGUARDISTICI E I MODI TELEVISIVI: LA MARATONA ROMANA PER SVOLGERE E LEGGERE I ROTOLI BIBLICI

Allo schiudersi del Novecento, nella Monaco bohèmienne e sperimentatrice, il George Kreis cercava nuove liturgie. Il poeta-guida indossava delle nere vesti talari (quando non si metteva la maschera medioevale di Dante), il poeta-seguace Wolfskehl si travestiva da Dioniso, i fedeli del circolo esoterico e del vate portavano una tunica, talvolta i più giovani non tralasciavano una ghirlanda di fiori sul capo, un serto, un tirso, mentre in molti si atteggiavano nelle pose alla Botticelli, sincretismo malinconico di paganesimo e cristianesimo in tinta rinascimentale. La contessa Franziska zu Reventlow, nel romanzo Herrn Dames Aufzeichnungen (I quaderni del signor Dame) rievocò questi rituali di rifondazione. I poeti moderni, secondo le profezie di Novalis, si spacciavano per sacerdoti.

La religione dell’arte da allora ne ha fatti di proseliti, a tal punto che, assumendo dimensioni di massa e volgarizzandosi alquanto, si è accontentata d’essere una religione della cultura genericamente intesa, devozione del libro, spesso venerato per l’antica aura che lo circonda, scambiato per un feticcio, in uno scontato decadimento di queste feste estetiche. E la corruzione dei cerimoniali nella religione dell’arte si è ripercossa sulla liturgia cattolica. La «terrestralizzazione progressiva del cristianesimo – diceva Maritain – è favorita dal linguaggio stesso nel quale esso si esprime». Messa da parte la lingua sacra, si ricorre alle locuzioni di tutti i giorni, e il Verbo viene imprigionato nell’idiomatismo della merce, nelle frasi fatte dai media, nelle cadenze imposte dai venditori di ‘ascolti’. Oggi, una cospicua parte di italiani non va a Messa ma assiste ai cosiddetti eventi culturali – letture, concerti o improvvisazioni varie – con una fede degna delle migliori intenzioni. Anche nella parte di coloro che vanno a Messa c’è chi confonde il rito misterico con un’assemblea di letture, sia pure di altissimo rango. Ma la lettura benché di origine divina, di per sé non salva. Con buona pace di tutti i seguaci di Mallarmé. La spoglia liturgia della parola senza gesto non si discosta granché da una riunione accademica, dalla presentazione cenacolare di un libro magnifico, da una perfomance rigorosissima e suggestiva.

Simili alle Vexations di Eric Satie – dove si prevedeva che il pianista, dopo essersi preparato con «serie ed effettive immobilità», dovesse suonare il pezzo, «a se stesso», ottocentoquaranta volte di seguito, ossia con una esecuzione che poteva durare intorno alle ventiquattro ore, ragion per cui si pensò piuttosto a un passaggio di staffetta allo strumento (anche se John Cage fece tutto da solo) – o alle maratone per cinéphiles bulimici che trent’anni fa si scatenavano tra gli archi della Basilica di Massenzio, divorando ogni notte cinque o sei film horror piuttosto che western, o ai titoli discografici – in questo caso, l’Integrale di Dio –, le letture bibliche nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme, detta anche la Gerusalemme romana, il tempio che nasconde sotto il pavimento la terra del Golgotha, che conserva le reliquie della croce, e i chiodi e le spine della corona, perfino il cartello trilingue fatto apporre da Pilato per somma irrisione o per burocratico adempimento, hanno mostrato, anche in televisione, un surrogato di liturgia. Dalla sera del 5 all’11 di ottobre, in meno di una settimana si è ripassato le Scritture, dalla Genesi all’Apocalisse, secondo il canone cattolico, benché tra i lettori ci siano stati anche ebrei, protestanti, ortodossi, o atei che non posseggono alcun canone: una piccola egemonia filologica? Comunque, niente di nuovo sotto il sole: quante Bibbie furono rinchiuse nel guscio di una noce o in altri piccoli oggetti per fantasia sterile e ingegnosità puerile, in una gara di record, come quello israeliano, che oggi può vantare una Bibbia, in ebraico, su un chip in silicone coperto d’oro e più piccolo di una capocchia di spillo. La romana lettura ininterrotta, giorno e notte, batte un altro record improntato invece alla enormità: centinaia di voci e di ore, milioni di spettatori sfiorati dalla curiosità.

Per l’occasione la basilica eleniana è trasformata in studio televisivo, e l’affresco di Antoniazzo Romano, già creduto di Pinturicchio, viene coperto, insieme all’altare e al baldacchino, con una tela blu elettrico a riprendere il tono acceso del cielo che corona l’abside. Forse per non urtare le suscettibilità confessionali altrui, è stato cancellato l’altare. Il venerato tempio è perciò diventato poco più di una sacra location. Tre candelieri, asimmetrici e dissimili per altezza, tratti fuori dall’antiquariato delle sacrestie, sono collocati secondo i dettami degli arredatori anni Sessanta, onde produrre una dissonanza visiva leggera, da ambiente moderno, come negli addobbi delle tavole austere imbandite di stoviglie Rosenthal. Sui candelieri, al posto delle candele che sarebbe giusto trovare, delle lucerne per moda ‘catacombale’ che dal tempo conciliare si è imposto alla Chiesa cattolica, con il proposito di far scomparire tutti gli altri solenni e sontuosi stili che vi si sono affermati nei secoli. Questione di gusto, uno dei tanti capitoli deprimenti dell’arte sacra oggi. D’altra parte, le chiese si affollano spesso per concerti e recital di poesia, quasi le arti avessero bisogno di un po’ di atmosfera metafisica, e i luoghi sacri non sapessero offrire di meglio che degli spazi arcaici, degli echi, dei vuoti, dei silenzi. Però la maratona romana-gerosolomitana non appare solo uno scambio con la cultura moderna, pretende di essere quel che una volta si sarebbe chiamato ‘pio esercizio’, anzi somiglia impressionantemente alle letture della Messa post-conciliare, quando alcuni fedeli si alzano dai loro posti e vanno all’ambone a leggere i sacri testi, mischiando dialetti e accenti. Questa ormai familiare proclamazione della parola contenuta nel Lezionario da parte dei rappresentanti della plebs Dei si è trasformata, senza più il momento omiletico, in una paraliturgia enfiata a dismisura per stabilire un primato, per farne spettacolo sacro. Dunque, un tentativo di sacralità ridotta alla parola, secondo l’insegnamento di fra Martino Lutero. Né l’avvicendarsi per leggere integralmente la Bibbia fino all’ultimo respiro ha assunto una valenza penitenziale, un pellegrinaggio sofferto nella storia primigenia dell’umanità, una via crucis tra le parole dolorose e di speranza, ché il respiro viene rotto da intervalli musicali in pieno rispetto del cliché televisivo, ricordando il vuoto obbligatorio per lo spazio da dare alla pubblicità. Criticabile risulta dunque non tanto per «nudità di stile» quanto per un assoggettamento al format televisivo. Pertanto la santa oscurità delle Scritture si trasforma in oscurità laicizzata ma sempre misteriosa, più che mai incomprensibile, docile alle privatissime e chissà quanto ingenue interpretazioni degli ascoltatori. I simboli traboccanti di mistero restano tali. E viene fuori una Bibbia scandita semplicemente da lettori cui manca il carisma. Una sonora smentita del sacerdozio universale. Se nella autentica liturgia, l’io quasi sparisce, in questo spettacolo televisivo sparisce quasi la parola divina, per accennare a una serie di ritrattini per lo più di anonimi. Sociologia del sacro davanti al teleschermo.

Chi volle che la parola di Dio risplendesse soltanto in volgare pensava in cuor suo di renderla più attraente, con il linguaggio di tutti i giorni, della ferialità senza domenica. Ma ascoltare il Verbo e il suo alone abissale, privo della corazza aurea del latino, letto anzi stentatamente, senza intonazione né solenne sonorità, è esperienza decisamente povera, che fa perdere l’appeal che i volenterosi padri conciliari ritenevano potesse riconciliare con il mondo moderno. Nei troppi balbettamenti di questi giorni, che ricordano lontanissimi strazi scolastici, con i compagni di classe poco convinti di quel che leggevano, viene da riflettere sulla lingua italiana parlata oggi dalla Chiesa, sul valore delle traduzioni bibliche. Si è proceduto alla volgarizzazione senza poter contare su un novello Lutero forgiatore della lingua di un popolo cristiano. Si è modificata la rigidità del cerimoniale tridentino dimenticando che ogni gesto e parola liturgici sono anticipazioni della liturgia celeste. La manifestazione romana resta una scommessa sulla presunta «trasparenza» dei libri santi, che neppure il protestantesimo più radicale avrebbe mai fatto, dal momento che una sofferta interpretazione è richiesta ai fedeli evangelici, particolarmente ostili al quietismo del lasciarsi cullare da suoni, nenie e ripetizioni, come casomai è stato rimproverato storicamente a molte pratiche devozionali della Catholica.

Minimalisti nelle intenzioni, si ricorre pure a Nietzsche, come fa nella presentazione della iniziativa, l’eccellente erudito Giancarlo Ravasi, che ha trovato una citazione del filosofo tedesco in Aurora, dove si stabilisce che tra leggere Pindaro e i Salmi c’è la stessa differenza che passa «tra una terra straniera e la patria», ma i telespettatori che poco conoscono Pindaro forse non si sentono a casa neppure con Geremia.

Altri riti paraliturgici, ancora negli anni Sessanta, quelli descritti in una lettera a Maria Zambrano da Cristina Campo: «Vorrei tu potessi udire queste lezioni cantate, all'Abbazia di Sant'Anselmo, la sera precedente la festa, tra le 7 e le 8. Ciascuna termina con un profondo inchino del lettore e un ‘Tu autem Domine miserere nobis’, a cui risponde il ‘Deo Gratias’. Poi viene il Responsorio dialogato e infine il lettore chiede all'Abate, inchinandosi: ‘Jube Domine benedicere’. E colui risponde con un breve distico rimato (che troverai esemplificato nel mattutino della Domenica) di sapore squisitamente popolare; p. es. ‘Ad societatem civium supernorum / perducat nos Rex Angelorum’, ovvero: ‘Per Evangelica dicta / deleantur nostra delicta’. Fa molto freddo, duramente freddo in chiesa a quell'ora. Iersera non c'ero che io sola, nella navata. I monaci sono tutti in cocolla e cappuccio – e da come ciascuno rialza il suo cappuccio si comprende se sarà vero monaco, perché il vero monaco è altero del suo abito, che è l'eleganza stessa, e lo porta da re». A Santa Croce, sono mancati i re.