sabato 25 ottobre 2008

La deportazione degli infermi

STANNO TRASFORMANDO I VECCHI OSPEDALI IN MUSEI, NASCONDENDO IL DOLORE E LA MORTE, ALLONTANANDO I PAZIENTI DAL CUORE DELLE CITTÀ ITALIANE DOVE LA PIETÀ CRISTIANA LI AVEVA COLLOCATI. ADESSO LO SFRATTO DEI SOFFERENTI SEMBRA INCOMBERE SUL S. GIACOMO

A Siena, ancora negli anni venti del Novecento, le vetuste porte della città venivano serrate con il calar delle tenebre e non vi si poteva né entrare né uscire fino all’alba. Testimoniava Ranuccio Bianchi Bandinelli nel Diario di un borghese: «Se penso che quando nacque la mia prima figlia a Siena, la mia città, ancora si chiudevano le porte della città alle nove di sera, al suono del campanone. Grandi portoni di legno chiodato, con grossi verricelli di ferro battuto. Restava aperto un portoncino per i pedoni fino a mezzanotte, poi si chiudeva anche quello. […] Era il 1925; ma avrebbe potuto essere benissimo il 1825, se non fosse stato per la luce elettrica e l’acqua corrente (scaldata a legna)». Oggi Siena appare sventrata da porta a porta, destinata a zona di attraversamento e sosta del flusso turistico mondiale. In questo saccheggio dei consumatori ‘culturali’ vanno perse le dimensioni mirabili concepite dagli artisti e dai signori del luogo.

Quarant’anni dopo, la ‘città chiusa’ rievocata dal nobile storico, pur avendo aperto porte e brecce, vietava al suo interno l’ingresso, prima in Italia, alle automobili e ai pullman. Sembrava una iniziativa meritoria sennonché le trappole moderne sono più sottili delle buone intenzioni. Svuotato infatti il centro dei mezzi meccanici, restituita Piazza del Campo allo splendore di altre epoche – e già Cesare Brandi si attardava ad ascoltarvi «l’arcano suono del tempo che sottofonda il silenzio» – , questa specie di set medioevale, così almeno fu percepito, acquisì maggiori meriti di suggestione turistica, e folle appiedate come non si erano mai viste nella sua storia occuparono giorno e notte i principali luoghi della città. Una turba che nulla sapeva di Duccio e di Simone fu spinta a visitare la severissima Siena per gusto di esotismo temporale, trasformando la ‘città della Vergine’ in una immensa bottega. Tanto allora si spinse la sua trasformazione in una attrattiva per la massa che, come del resto succede in altri consimili luoghi, le iniziative di mostre e concerti presero a solleticare la curiosità dei visitatori di un solo giorno. Un quotidiano festival dei luoghi comuni artistici, in scena tutto l’anno.

Schiere di esperti al soldo pubblico per invenzioni di mostre raccogliticce onde vendere qualcosa ai vogliosi compratori, al punto da esporre opere perennemente presenti, appena risistemate con un titolo che campeggia in questi giorni per la città, «My name is Duccio», e che sembra fare prostituire al pubblico più grossolano il genio cittadino. Che altri eventi nella prima metà del Novecento, con le porte ancora chiuse dunque, e pochi, sceltissimi, viaggiatori, quando il conte Guido Chigi-Saracini invitava nel suo palazzo di città i migliori musicisti della terra, da Pablo Casals ad Alfredo Casella, e in tale adunanza usciva dall’oblio il nome e l’opera di Vivaldi, quasi una scoperta stupefacente.

Comunque, finché si adescano i turisti con mostre a loro misura, si arricchisce vieppiù il cosiddetto indotto, niente di serio. Ma, tra le prime in Italia, Siena fu anche svelta a svuotare l’antichissimo ospedale cittadino di Santa Maria della Scala, deportando altrove i sofferenti che accoglieva, per offrirlo in pasto al pubblico dei musei. Questa non è una semplice iniziativa effimera, bensì la violazione urbanistica più crudele. Qui per volere del popolo, cioè della borghesia, e dell’oligarchico governo, dei banchieri, del vescovo, dei canonici, degli abati e degli artisti che fungevano da consulenti, l’ospedale era nato, mille anni fa circa, e si era sviluppato proprio davanti al duomo, nel cuore della città, affinché il momento del dolore e della morte avessero tutta la rilevanza che meritano. Il moderno tabù non costringeva allora a nascondere l’aspetto meno lucente dell’umano in luoghi periferici e chiusi allo sguardo pubblico. Piazza miracolosa delle rimembranze comunitarie, insieme al tempio cittadino, al tesoro artistico, ai segni del passaggio di Caterina, lo spazio dell’antico castrum – il sacro nucleo della città-stato che si estende alle lunatiche Crete e alle colline del Chianti, fino al mare sotto Talamone – vantava superba l’immenso edificio dello xenodochio (aperto infatti anche ai pellegrini della Via Francigena), dirimpettaio maestoso della nerobianca facciata che corregge gli eccessi gotici con la misura toscana.

A Firenze, Brunelleschi aveva concepito lo Spedale che serviva da rifugio ai bambini abbandonati, gli Innocenti che danno il nome a quel capolavoro dell’architettura universale, a Siena Simone Martini, Ambrogio e Pietro Lorenzetti, il Vecchietta e il soavissimo Beccafumi, come più tardi il napoletano d’adozione Sebastiano Conca, decorarono le sale che accoglievano gli infermi, vi narrarono storie che alleviavano lo spirito dei degenti; nel corso dei secoli, tra artisti di immensa fama e oscuri artigiani qui si formò una schiera di facitori di bellezza per compensare la bruttura della decomposizione corporale, per consolare con uno strepitoso finale l’addio al mondo. Secondo l’usanza cristiana, del resto, la congiuntura del dolore e del trapasso non veniva confinata nella solitudine, era accompagnata dalla pietà collettiva, dalla presenza comunitaria, dall’arte dei migliori, ché inoltre la bellezza aveva certamente un valore terapeutico e rincuorante. Italo Calvino ebbe ancora la grazia di morire in queste stanze, forse per misteriosa ricompensa della sua dedizione alle belle lettere.

Davvero democratico era il munifico ospizio, i vecchi indigenti delle campagne del contado potevano farsi curare in sale da re. Ma un giorno, sul finire degli anni ottanta, ci si eccitò collettivamente all’idea di recuperare un sì prezioso sito, mettendo in ombra chi era costretto a scontare questo recupero. Naturalmente si disse che era meglio collocare le macchine ultratecnologiche dell’accanimento terapeutico in luoghi concepiti appositamente per simili novità, contravvenendo all’opinione imperante che vuole ormai che gli spazi aulici siano sempre invasi dalle installazioni postmoderne per connubio dissonante; in realtà erano ipocrite giustificazioni per ottenere un altro spazio eccellente e metterlo alla mercè degli onnivori turisti. Perché sprecare immobili che valgono un tesoro come dimora di chi non conta più niente a questo mondo: i vecchi, i fragili, gli agonizzanti? Perché turbare lo spettacolo della vita nell’angolo del lusso cittadino con la comparsa di madama Morte? Perché rovinare le distrazioni costose dei consumatori itineranti facendoli inciampare in un memento mori d’altri tempi? Perché resistere alla voglia di mettere il passato sotto vetro, nella teca museale che lo allontana dalla nostra vita, che spezza la tradizione rendendocelo estraneo? I pazienti sarebbero andati a nascondersi in qualche lazzaretto moderno, dove manca a priori la bellezza.

Un furto di ricchezze accumulate da generazioni e generazioni per i loro confratelli ed eredi nell’ora suprema, spesso con donazioni e sacrifici, spesso con l’accorata partecipazione di pittori e scultori; un furto perpetrato ai danni della popolazione senese, che non potrà più avere il piacere di morire nell’arte dopo una esistenza trascorsa a intimo contatto con lei («Entro in Duomo e parlo con l’arte» scrisse Tozzi nel suo Diario). Non si erano certo privati di copiose ricchezze quei realisti banchieri, mecenati del Santa Maria della Scala, per fare poi ricavare dal luogo del dolore varie sale capienti dove allestire le chiacchiere della convegnistica nazionale, dove spargere parole vuote, scambiate senza alcuna convinzione. Né tanto meno per cedere alla frivolezza di un museo contemporaneo – come l’ultimo inaugurato qui – che si chiama Sms, appena un acronimo dell’ospedale dedicato alla Madonna, ma con una flessione del gergo adolescenziale, un richiamo reclamistico per televisioni di provincia.

Di degenerazione in degenerazione cittadina, si chiude l’ospedale caritatevole per farne un museo a pagamento e poi si chiude il duomo per farne un museo a pagamento. Sì, bisogna acquistare un biglietto di ingresso, scambiare alla cassa denaro simoniaco per entrare nel duomo di Siena, per contemplare l’opera impareggiabile di Nicola Pisano, per camminare timorosi sul pavimento intarsiato dalle Sibille e dalle loro enigmatiche sentenze – percorso iniziatico straordinario – , per gioire delle meraviglie di Pinturicchio, per pregare per Siena. La casa di Dio è sbarrata ai nullatenenti. Non bastarono le ragioni estetiche che tolsero alla cattedrale la Maestà di Duccio per scomporla in varie pinacoteche, tutte le parti della chiesa sono infine imbalsamate come pezzi da museo, non più oggetti sacri, adibiti al culto. Il duomo da sempre a disposizione della città, adesso, nell’epoca democratica, è sottratto ai cittadini. Peccato non vedere folle di studenti e di senesi d’ogni età urlare contro questa scandalosissima privatizzazione del tempio.

A Roma, già da tempo, il Santo Spirito aveva perduto l’ala più antica, quella lunghissima corsia che somigliava alla Cappella Sistina, tante volte scenario dei film neorealisti che non perdevano l’occasione di mettere a un certo punto i protagonisti delle loro storie nei letti schierati in un sala vasta come una chiesa, accuditi dalle suore che accorrevano premurose sotto i larghi cappelli bianchi del Seicento. In origine era stata l’antica Schola Saxonum, che divenne ospizio riservato ai germani che attraversavano le Alpi a piedi per venire a inginocchiarsi sulla tomba di Pietro, non ancora catechizzati dalla predilezione della Theologia deutsch per il verbo paolino. Innocenzo III lo trasformò in un ente di assistenza per tutti i bisognosi, tedeschi e non tedeschi, e ne affidò l’organizzazione ai Templari. Così il Santo Spirito si diffuse per l’Europa ed ebbe cinquecento filiali che si richiamavano al modello romano di ospitalità. Decadde quando Roma fu privata del papa, risorse con il rientro dei pontefici. Sisto IV vi lasciò un segno speciale. La carità dei papi e di molti romani, spesso dopo essere stati curati in quelle sale, donò all’ospedale un patrimonio immobiliare così imponente – in mezza Roma e nei feudi della campagna romana – che per amministrarlo e trarne frutti nacque il Banco di Santo Spirito, un istituto finanziario che sopravvisse fino a una quindicina di anni fa.

Non per caso la corsia si chiama sistina come la celebre cappella, ambedue i luoghi erano stati restaurati e resi illustri da papa Sisto IV, al secolo Francesco della Rovere. Una somiglianza, una familiarità sottolineata da Botticelli quando dipinge proprio nella Cappella Sistina, sullo sfondo della purificazione di un lebbroso secondo il rito ebraico, la facciata dell’ospedale del Santo Spirito. Due rettangoli (la corsia ospedaliera ha misure doppie della cappella), concepiti dagli stessi architetti, con decorazioni simili, E anche per l’ospedale Sisto IV commissionò gli affreschi – mille metri quadri di affreschi – a pittori di scuola umbra. I pontefici dunque pensavano a una somiglianza tra ospedali e templi cristiani, tra la sofferenza umana e il sacrificio della croce.
Al centro della corsia, a separare la parte maschile da quella femminile un altare, dedicato a San Giobbe (paziente per eccellenza), forse opera di Palladio, il creatore delle più esclusive ville del mondo, che sarebbe stato pagato dai papi per addobbare le sale del travaglio nel pubblico ospedale. Accanto all’altare, un organo che suonava musica terapeutica – la musica è sempre curativa – a lenire nelle corsie lo strazio con l’incanto quando non esistevano gli analgesici.

Reggia della carità, fu definito il Santo Spirito. Ospitò, alimentò e protesse i senza tetto, le partorienti, gli orfani, i neonati abbandonati alla ruota, le prostitute, i perseguitati. Gli archiatri pontifici erano prestati all’ospedale, basti il nome di Giovanni Maria Lancisi, i migliori scienziati della città si mettevano al servizio degli ultimi; nell’Antica Spezieria del Santo Spirito si ricercava con successo, ad esempio l’uso della corteccia di china per la cura della malaria; il teatro anatomico fu frequentato da Leonardo e Michelangelo.

Perfino Lutero, che pure riuscì a non trovare niente di buono nella città santa, di fronte all’ospedale sul Tevere – magari per sentimentalità germanica nel ricordo dell’opera pia dei sassoni – rimase ammirato, ricordando ancora, decenni dopo il suo viaggio in Italia, nei discorsi a tavola tra molti boccali di birra, spendendo molti elogi e moltissimi superlativi, gli ospedali italiani, generalizzando quel che aveva visto al Santo Spirito. Questi ospedali, diceva, «sono costruiti con edifici regali, ottimi cibi e bevande sono alla portata di tutti, i servitori sono diligentissimi, i medici dottissimi, i letti e i vestiti sono pulitissimi e i letti dipinti. Appena vien portato un malato, lo si spoglia di tutte le sue vesti che alla presenza di un notaio vengono onestamente messe in deposito; gli si mette un camiciotto bianco, lo si mette in un bel letto dipinto, lenzuola di seta pura. Subito dopo vengono condotti due medici. Arrivano poi dei servitori portando da mangiare e da bere in calici di vetro pulitissimi che non toccano neppure con un mignolo, ma li offrono su di un piatto. Accorrono qui delle spose onestissime, tutte velate; per alcuni giorni, quasi sconosciute, servono i poveri e poi tornano a casa». A Firenze altresì aveva ammirato il Santa Maria Nuova, il più antico della città: «anche le case dei fanciulli esposti, dove i fanciulli sono alloggiati, nutriti e istruiti in modo eccellente; li abbigliano tutti con un medesimo vestito dello stesso colore e sono curati molto paternamente» (dalle Tischreden)

Ma con maggiore acrimonia di Lutero per le cose dal marchio cattolico, un ambiente tanto lodato - recitava il verdetto - non andava più bene per i pazienti nei tempi attuali. Sicuramente i nuovi paradigmi sanitari non permettevano un ammasso di letti, una mancanza di privatezza. Si decise allora di mantenere gli infermi nella parte nuova, svendendo agli eventi goduriosi la parte storica. Non si capisce però come uno spazio che risulta perfetto per mostre lussuose di antiquariato, per concerti, congressi e convention non possa essere usato dai malati ai quali era destinato: per esempio come sala di incontri con le famiglie, di passeggio per i convalescenti, di distrazioni domenicali. Invece subito la mano laica e furba della speculazione ha cambiato la destinazione, ha portato via ai malati per dare ai sani.

Adesso è la volta del San Giacomo, nel centro esatto della città, affacciato su quel Corso che taglia proprio il Tridente barocco, nei pressi di uno degli studi di Antonio Canova. Dal Trecento, per opera del cardinale Colonna, a parziale espiazione delle colpe familiari per avere oltraggiato papa Bonifacio ad Anagni, era sorto tra il porto di Ripetta e la via del Corso, l’ospedale degli Incurabili. Vi si curavano i sifilitici ma la vicinanza con la Porta del Popolo, principale ingresso della città per i viaggiatori di tutta Europa, ne facevano anche un ospizio dove fermarsi dopo il travagliato cammino. Lo ricordava papa Karol Magno nella sua prima visita del 1980: «Come nel caso del Santo Spirito, i benemeriti fondatori e promotori si preoccuparono che esso sorgesse in una zona adiacente alle vie Cassia e Flaminia, tanto spesso percorse dai pellegrini ‘romei’ nel loro itinerario di fede e di pietà verso la città, consacrata dal martirio dei Santi Pietro e Paolo. Si potrebbe dire che fu quella una ‘scelta strategica’, intesa ad offrire a chi dal Nord giungeva a Roma, dopo tante fatiche ed anche, in qualche caso, dopo i pericoli di un lungo viaggio, accoglienza e assistenza e, quando c’erano infermi, anche il soccorso e il ricovero». Nel cinquecento, l’ospedale fu parzialmente riedificato e nell’ottocento papalino subì un robusto restauro e riattamento. Da sette secoli ospedale dell’Urbe, fu beneficiato da principesse, santi, papi, artisti. «San Gaetano da Thiene – ricordava ancora Giovanni Paolo II – ne fece per molti anni la sua la dimora abituale per poter essere vicino ai fratelli ammalati. San Filippo Neri lo frequentò fin da giovane come luogo per esercitarvi la pietà e fu tra i primi ad intravedere l’opportunità di assicurare ai convalescenti un periodo di soggiorno in luogo adatto, prima di riprendere il lavoro. San Felice da Cantalice, tanto popolare nella Roma del Cinquecento, qui si recava di frequente per aiutare i confratelli cappuccini, che vi operavano ai suoi tempi. Ma più degli altri al San Giacomo è legato il nome di San Camillo de Lellis, il quale vi trascorse, in diversi periodi, quasi un decennio della non lunga sua vita, come infermo, inserviente, infermiere e maestro di casa. Dopo la conversione dalle dissipazioni della giovinezza, nell’annessa, antica chiesa di San Giacomo, egli celebrò la sua prima Messa, e si può dire che proprio dalla sofferta e concreta esperienza, qui maturata, derivò le linee così sapienti di azione pastorale, che fissò poi nella Regola della sua Congregazione dei ‘Ministri degli Infermi’».

Tra stemmi pontifici e comunali, si legge in una lapide: «Se potete guarire, guarite; se non potete guarire calmate; se non potete calmare consolate». Ora ci tolgono anche la consolazione. Agli anziani, che popolano ancora i quartieri storici, questo ospedale era familiare come una parrocchia. Qui erano nati i nonni e i bisnonni, qui vi erano tornati a morire. Tra le migliaia di artisti stranieri che abitarono Roma o vi tennero bottega nei paraggi di piazza del Popolo, molti ricorsero alle cure del S. Giacomo.

Invano i discendenti del cardinal Antonio Maria Salviati, nipote a sua volta di Lorenzo de’ Medici, si rivolgono anche alla Rete universale per esporre in un blog le carte dell’avo in cui si intima che per nessun motivo venga alienato il patrimonio ospedaliero. Risuonano le sue parole: «ordina e stabilisce che tutti i beni e i diritti donati da lui stesso, enumerati in questo instrumento, nonché tutti gli altri singoli beni che in seguito verranno da lui destinati dalla chiesa alla confraternita e all’arciospedale di S. Giacomo o dal collegio Salviati [...], in alcun modo possano essere venduti, ceduti, dati, donati, pignorati, ipotecati, obbligati, né totalmente né in parte, anche minima, a qualsiasi titolo o diritto, ad alcuna persona, luogo, collegio, università o capitolo…». Ma ormai la storia è interrotta, il volere degli antichi non conta più niente. Ben altro allettamento sembra avere l’idea di aprire un piccolo museo al Corso, dove collocare magari, per somma ingiuria, le opere di Damien Hirst, con i flaconcini vuoti dei medicinali appesi come caciocavalli o le sue autopsie giocherellone. Una iniziativa pensata in buona coscienza, come si dice, abbrancati alla parola magica: cultura, ovvero lo spirito in salsa gnostica, che scioglie le concretezze e il buonsenso, bloccando in tanti crampi la vita. In questo caso, perfino nelle sue fasi estreme.

Che meraviglia esprimerebbe Ernst Robert Curtius, venerabile umanista del Novecento, di fronte alla chiusura dell’ospedale del Corso. Lui che, costretto a trascorrere i suoi ultimi giorni in una clinica romana dalle parti di piazza Risorgimento, approfittava dei periodi in cui gli era concesso qualche passo incerto nei dintorni per sedersi alle panchine del brutta piazza e da lì contemplare la Cupola di San Pietro, scrivendo agli amici di mezza Europa del dolce destino riservatogli. Sapeva della beatitudine che arreca l’arte al momento di separarsi dal corpo. Come avrebbe amato il saggista tedesco chiudere gli occhi nelle belle forme del San Giacomo.

giovedì 16 ottobre 2008

Letture / La felicità autunnale di Stendhal

16 OTTOBRE 1832, STESSA LUCE E STESSO TEPORE DI QUESTI GIORNI DEL TERZO MILLENNIO. UN FRANCESE CHE NASCONDE NON POCHI TORMENTI SEMBRA SFIORARE LA GIOIA DI VIVERE. MA IL CORSO DEL TEMPO SI FA MINACCIOSO ANCHE NELLE OTTOBRATE ROMANE: ET IN ARCADIA EGO…

Stendhal, fedele dell’«onnipotenza di Napoleone (che sempre adorai)» – come confessa nella introduzione di Ricordi d’egotismo –, beffardo avversario di Chateaubriand, sembra poi ripetere le parole del Visconte [v. l’«Almanacco Romano» del 17 settembre], scrivendo alla data del 2 ottobre 1828, in Promenades dans Rome: «Questa mattina, di buon’ora, prima del caldo, ci siamo recati al convento di Sant’Onofrio (sul monte Gianicolo, nei pressi di San Pietro). Quando sentì di essere sul punto di morire, il Tasso si fece portare qui; ed ebbe ragione: è uno dei più bei luoghi del mondo per morire. La vista così estesa e così bella che si ha di Roma, questa città di tombe e di memorie, rende meno doloroso l’ultimo passo per staccarsi dalle cose della terra».
Qui sotto invece, la celebre ouverture della autobiografica, postuma, romantica
Vita di Henry Brulard, dove Henri Beyle celebra un’altra mattinata sul Gianicolo, mettendo in scena con molta posa il suo ingresso nell’età matura. Per chi non sopportava «la forma scialba e incolore», Roma era uno sfondo perfetto.

Questa mattina, 16 ottobre 1832, mi trovavo a San Pietro in Montorio, sul monte Gianicolo, a Roma, e c’era un sole magnifico. Un leggero vento di scirocco appena percepibile faceva muovere alcune nuvolette bianche sopra il monte Albano; un tepore delizioso regnava nell’aria, ero felice di vivere. Distinguevo perfettamente Frascati e Castelgandolfo, che sono a quattro leghe da qui, la villa Aldobrandini che conserva un sublime affresco del Domenichino raffigurante Giuditta. Distinguo molto bene il muro bianco che fa risaltare i restauri fatti dal principe F. Borghese, lo stesso che ho visto a Wagram, colonnello del reggimento dei corazzieri, il giorno in cui il signor di M…, mio amico, perse una gamba. Più lontano, scorgo la rocca di Palestrina e la casa bianca di Castel San Pietro, che in altri tempi fu la sua fortezza. Al di sopra del muro al quale mi appoggio, vi sono dei grandi alberi di arance del frutteto dei cappuccini, poi il Tevere e il priorato di Malta, e un po’ dopo, sulla destra della tomba di Cecilia Metella, San Paolo e la piramide di Cestio. Di fronte a me, ecco Santa Maria Maggiore e le lunghe linee del palazzo di Monte Cavallo. Tutta la Roma di un tempo e quella moderna, dalla antica via Appia con le rovine delle sue tombe e dei suoi acquedotti fino ai magnifici giardini del Pincio costruiti dai francesi, si dispiega alla vista.

Questo luogo è unico al mondo, mi dicevo sognando, e la Roma antica, mio malgrado, superava quella moderna, tutti i ricordi di Livio tornavano ad affollarmi la mente. Sul monte Albano, a sinistra del convento, notavo i Campi di Annnibale. Che vista superba! È dunque qui che la Trasfigurazione di Raffaello è stata ammirata per due secoli e mezzo. Che differenza con la triste galleria di marmo grigio dove oggi è interrata in fondo al Vaticano! Dunque, durante duecentocinquanta anni questo capolavoro è stato qui, duecentocinquanta anni!... Ah, tra tre mesi avrò cinquant’anni, è mai possibile? 1783, 93, 1803, seguo il conto sulle dita… e 1833 cinquanta. È possibile. Raggiungerò la cinquantina e canto l’aria di Grétry: «Quando si ha la cinquantina». Questa scoperta improvvisa non mi irrita affatto, stavo pensando ad Annibale e ai romani. Dei più grandi di me sono pur morti! Dopo tutto, mi dico, non ho occupato male la vita. Cioè, il caso non mi ha dato molte disgrazie, perché in verità io la vita l’ho diretta proprio poco. […]
Mi sono seduto sugli scalini di San Pietro e ho sognato per un’ora o due questa idea. Sto per avere cinquant’anni, sarebbe ora di conoscermi. Chi sono stato, chi sono, in verità sarò molto imbarazzato di dirlo.

(da Vie d’Henry Brulard )

sabato 11 ottobre 2008

Fino all'ultimo respiro

SURROGATO DELLA LITURGIA, COSTEGGIANDO GLI ‘EVENTI’ AVANGUARDISTICI E I MODI TELEVISIVI: LA MARATONA ROMANA PER SVOLGERE E LEGGERE I ROTOLI BIBLICI

Allo schiudersi del Novecento, nella Monaco bohèmienne e sperimentatrice, il George Kreis cercava nuove liturgie. Il poeta-guida indossava delle nere vesti talari (quando non si metteva la maschera medioevale di Dante), il poeta-seguace Wolfskehl si travestiva da Dioniso, i fedeli del circolo esoterico e del vate portavano una tunica, talvolta i più giovani non tralasciavano una ghirlanda di fiori sul capo, un serto, un tirso, mentre in molti si atteggiavano nelle pose alla Botticelli, sincretismo malinconico di paganesimo e cristianesimo in tinta rinascimentale. La contessa Franziska zu Reventlow, nel romanzo Herrn Dames Aufzeichnungen (I quaderni del signor Dame) rievocò questi rituali di rifondazione. I poeti moderni, secondo le profezie di Novalis, si spacciavano per sacerdoti.

La religione dell’arte da allora ne ha fatti di proseliti, a tal punto che, assumendo dimensioni di massa e volgarizzandosi alquanto, si è accontentata d’essere una religione della cultura genericamente intesa, devozione del libro, spesso venerato per l’antica aura che lo circonda, scambiato per un feticcio, in uno scontato decadimento di queste feste estetiche. E la corruzione dei cerimoniali nella religione dell’arte si è ripercossa sulla liturgia cattolica. La «terrestralizzazione progressiva del cristianesimo – diceva Maritain – è favorita dal linguaggio stesso nel quale esso si esprime». Messa da parte la lingua sacra, si ricorre alle locuzioni di tutti i giorni, e il Verbo viene imprigionato nell’idiomatismo della merce, nelle frasi fatte dai media, nelle cadenze imposte dai venditori di ‘ascolti’. Oggi, una cospicua parte di italiani non va a Messa ma assiste ai cosiddetti eventi culturali – letture, concerti o improvvisazioni varie – con una fede degna delle migliori intenzioni. Anche nella parte di coloro che vanno a Messa c’è chi confonde il rito misterico con un’assemblea di letture, sia pure di altissimo rango. Ma la lettura benché di origine divina, di per sé non salva. Con buona pace di tutti i seguaci di Mallarmé. La spoglia liturgia della parola senza gesto non si discosta granché da una riunione accademica, dalla presentazione cenacolare di un libro magnifico, da una perfomance rigorosissima e suggestiva.

Simili alle Vexations di Eric Satie – dove si prevedeva che il pianista, dopo essersi preparato con «serie ed effettive immobilità», dovesse suonare il pezzo, «a se stesso», ottocentoquaranta volte di seguito, ossia con una esecuzione che poteva durare intorno alle ventiquattro ore, ragion per cui si pensò piuttosto a un passaggio di staffetta allo strumento (anche se John Cage fece tutto da solo) – o alle maratone per cinéphiles bulimici che trent’anni fa si scatenavano tra gli archi della Basilica di Massenzio, divorando ogni notte cinque o sei film horror piuttosto che western, o ai titoli discografici – in questo caso, l’Integrale di Dio –, le letture bibliche nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme, detta anche la Gerusalemme romana, il tempio che nasconde sotto il pavimento la terra del Golgotha, che conserva le reliquie della croce, e i chiodi e le spine della corona, perfino il cartello trilingue fatto apporre da Pilato per somma irrisione o per burocratico adempimento, hanno mostrato, anche in televisione, un surrogato di liturgia. Dalla sera del 5 all’11 di ottobre, in meno di una settimana si è ripassato le Scritture, dalla Genesi all’Apocalisse, secondo il canone cattolico, benché tra i lettori ci siano stati anche ebrei, protestanti, ortodossi, o atei che non posseggono alcun canone: una piccola egemonia filologica? Comunque, niente di nuovo sotto il sole: quante Bibbie furono rinchiuse nel guscio di una noce o in altri piccoli oggetti per fantasia sterile e ingegnosità puerile, in una gara di record, come quello israeliano, che oggi può vantare una Bibbia, in ebraico, su un chip in silicone coperto d’oro e più piccolo di una capocchia di spillo. La romana lettura ininterrotta, giorno e notte, batte un altro record improntato invece alla enormità: centinaia di voci e di ore, milioni di spettatori sfiorati dalla curiosità.

Per l’occasione la basilica eleniana è trasformata in studio televisivo, e l’affresco di Antoniazzo Romano, già creduto di Pinturicchio, viene coperto, insieme all’altare e al baldacchino, con una tela blu elettrico a riprendere il tono acceso del cielo che corona l’abside. Forse per non urtare le suscettibilità confessionali altrui, è stato cancellato l’altare. Il venerato tempio è perciò diventato poco più di una sacra location. Tre candelieri, asimmetrici e dissimili per altezza, tratti fuori dall’antiquariato delle sacrestie, sono collocati secondo i dettami degli arredatori anni Sessanta, onde produrre una dissonanza visiva leggera, da ambiente moderno, come negli addobbi delle tavole austere imbandite di stoviglie Rosenthal. Sui candelieri, al posto delle candele che sarebbe giusto trovare, delle lucerne per moda ‘catacombale’ che dal tempo conciliare si è imposto alla Chiesa cattolica, con il proposito di far scomparire tutti gli altri solenni e sontuosi stili che vi si sono affermati nei secoli. Questione di gusto, uno dei tanti capitoli deprimenti dell’arte sacra oggi. D’altra parte, le chiese si affollano spesso per concerti e recital di poesia, quasi le arti avessero bisogno di un po’ di atmosfera metafisica, e i luoghi sacri non sapessero offrire di meglio che degli spazi arcaici, degli echi, dei vuoti, dei silenzi. Però la maratona romana-gerosolomitana non appare solo uno scambio con la cultura moderna, pretende di essere quel che una volta si sarebbe chiamato ‘pio esercizio’, anzi somiglia impressionantemente alle letture della Messa post-conciliare, quando alcuni fedeli si alzano dai loro posti e vanno all’ambone a leggere i sacri testi, mischiando dialetti e accenti. Questa ormai familiare proclamazione della parola contenuta nel Lezionario da parte dei rappresentanti della plebs Dei si è trasformata, senza più il momento omiletico, in una paraliturgia enfiata a dismisura per stabilire un primato, per farne spettacolo sacro. Dunque, un tentativo di sacralità ridotta alla parola, secondo l’insegnamento di fra Martino Lutero. Né l’avvicendarsi per leggere integralmente la Bibbia fino all’ultimo respiro ha assunto una valenza penitenziale, un pellegrinaggio sofferto nella storia primigenia dell’umanità, una via crucis tra le parole dolorose e di speranza, ché il respiro viene rotto da intervalli musicali in pieno rispetto del cliché televisivo, ricordando il vuoto obbligatorio per lo spazio da dare alla pubblicità. Criticabile risulta dunque non tanto per «nudità di stile» quanto per un assoggettamento al format televisivo. Pertanto la santa oscurità delle Scritture si trasforma in oscurità laicizzata ma sempre misteriosa, più che mai incomprensibile, docile alle privatissime e chissà quanto ingenue interpretazioni degli ascoltatori. I simboli traboccanti di mistero restano tali. E viene fuori una Bibbia scandita semplicemente da lettori cui manca il carisma. Una sonora smentita del sacerdozio universale. Se nella autentica liturgia, l’io quasi sparisce, in questo spettacolo televisivo sparisce quasi la parola divina, per accennare a una serie di ritrattini per lo più di anonimi. Sociologia del sacro davanti al teleschermo.

Chi volle che la parola di Dio risplendesse soltanto in volgare pensava in cuor suo di renderla più attraente, con il linguaggio di tutti i giorni, della ferialità senza domenica. Ma ascoltare il Verbo e il suo alone abissale, privo della corazza aurea del latino, letto anzi stentatamente, senza intonazione né solenne sonorità, è esperienza decisamente povera, che fa perdere l’appeal che i volenterosi padri conciliari ritenevano potesse riconciliare con il mondo moderno. Nei troppi balbettamenti di questi giorni, che ricordano lontanissimi strazi scolastici, con i compagni di classe poco convinti di quel che leggevano, viene da riflettere sulla lingua italiana parlata oggi dalla Chiesa, sul valore delle traduzioni bibliche. Si è proceduto alla volgarizzazione senza poter contare su un novello Lutero forgiatore della lingua di un popolo cristiano. Si è modificata la rigidità del cerimoniale tridentino dimenticando che ogni gesto e parola liturgici sono anticipazioni della liturgia celeste. La manifestazione romana resta una scommessa sulla presunta «trasparenza» dei libri santi, che neppure il protestantesimo più radicale avrebbe mai fatto, dal momento che una sofferta interpretazione è richiesta ai fedeli evangelici, particolarmente ostili al quietismo del lasciarsi cullare da suoni, nenie e ripetizioni, come casomai è stato rimproverato storicamente a molte pratiche devozionali della Catholica.

Minimalisti nelle intenzioni, si ricorre pure a Nietzsche, come fa nella presentazione della iniziativa, l’eccellente erudito Giancarlo Ravasi, che ha trovato una citazione del filosofo tedesco in Aurora, dove si stabilisce che tra leggere Pindaro e i Salmi c’è la stessa differenza che passa «tra una terra straniera e la patria», ma i telespettatori che poco conoscono Pindaro forse non si sentono a casa neppure con Geremia.

Altri riti paraliturgici, ancora negli anni Sessanta, quelli descritti in una lettera a Maria Zambrano da Cristina Campo: «Vorrei tu potessi udire queste lezioni cantate, all'Abbazia di Sant'Anselmo, la sera precedente la festa, tra le 7 e le 8. Ciascuna termina con un profondo inchino del lettore e un ‘Tu autem Domine miserere nobis’, a cui risponde il ‘Deo Gratias’. Poi viene il Responsorio dialogato e infine il lettore chiede all'Abate, inchinandosi: ‘Jube Domine benedicere’. E colui risponde con un breve distico rimato (che troverai esemplificato nel mattutino della Domenica) di sapore squisitamente popolare; p. es. ‘Ad societatem civium supernorum / perducat nos Rex Angelorum’, ovvero: ‘Per Evangelica dicta / deleantur nostra delicta’. Fa molto freddo, duramente freddo in chiesa a quell'ora. Iersera non c'ero che io sola, nella navata. I monaci sono tutti in cocolla e cappuccio – e da come ciascuno rialza il suo cappuccio si comprende se sarà vero monaco, perché il vero monaco è altero del suo abito, che è l'eleganza stessa, e lo porta da re». A Santa Croce, sono mancati i re.