sabato 12 febbraio 2011

I mariti di Donna Prassede

~ SUL MARTIRIO PICCOLO BORGHESE DELLA CULTURA ~

«Chiunque non faccia apprendere un lavoro manuale a suo figlio,
si comporta come se ne volesse fare un brigante»
........................................................................................................E. R. JEHUDAH

Spesso è capitato di ascoltare delle persone che rivendicano stipendi più alti per un diploma di laurea strappato in gioventù, come fosse una sofferenza patita da compensare coi soldi. Se si obietta loro: «ma in fondo fu un privilegio e un piacere», restano perplessi. In ogni caso incorniciano la pseudo pergamena quasi si trattasse di una medaglia al valore, ne menano vanto, se autori di un qualche libretto menzionano la laurea nel risvolto di copertina, apprezzano addirittura il titolo di dottore nonostante sia ormai concesso a porci e cani. Si presentano come martiri della cultura, schiacciati dal suo peso, vocati a quel sacrificio. Mai che appaiano contenti, che si sappiano divertire con libri, arte, musica, che riescano a parlarne con giubilo.
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Il medesimo vittimismo per un simile sacerdozio culturale ci è parso notare nella recente adunata dei neopuritani: abbiamo la casa piena di libri, gridavano i passionisti della carta stampata, restiamo fino a notte fonda a leggere. Gusto piccolo borghese: espongono le loro librerie imbarcate, lo shopping domenicale alle Feltrinelli, i titoli tediosi inflitti ai loro pargoli saccenti, facendone anzitutto una questione di quantità, dimenticando che Spinoza ebbe nella sua stanza poco più di centocinquanta volumi, confondendo spesso la noia col sapere, sempre quindi ostentando la cultura come un elemento di distinzione, mai compatendo chi, dedito ai soldi – secondo la ripartizione della Repubblica platonica –, non può godere delle belle lettere perché deve far girare i quattrini e l’economia che sostenta tutti. Insomma, parlano spudoratamente in pubblico di quel che dovrebbe essere una sopraffina beatitudine, notturna e diurna, un esercizio segreto («libri e puttane si portano a letto!», ammoniva Benjamin), e soprattutto non un merito da appuntarsi in petto nei pubblici comizi. Che cosa c’è di più sguaiato di questo uso delle cose dello spirito e della morale? Gioca coi fanti ma lascia stare i santi: giocatori scurrilissimi nella italica tradizione son stati vantoni per conquiste femminili e ricchezze, talvolta per cernie giganti pescate e cervi cacciati, rodomontate di pasti pantagruelici, di bevute infinite, ma millantare letture è proprio da miserabili. «Per isfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo», Don Ferrante, il marito di donna Prassede, la dama delle buone intenzioni dagli esiti disastrosi, mise su «una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta», collocata in scaffali e palchetti della sua biblioteca descritta attentamente dal Manzoni al fine di narrare la mediocrità di certi eruditi: ecco una celebre eccezione. Ce ne è un’altra invero: i liceali frustrati, gli adolescenti che si consolavano con i versi poetici perché la bella di turno era ammaliata dal più ignorante. I seguaci della sinistra abbandonata dalla Fortuna sembrano ispirarsi a tali farsesche figure.