giovedì 25 novembre 2010

La statua di Mao

~ SINISTRI ARREDAMENTI ~

Il giornalista fascista Ugo Dadone, che nel dopoguerra ospitò a Roma l’esule Ezra Pound, teneva sulla tazza del cesso un ritratto di Badoglio e mostrava con rabbia la sistemazione del «traditore». Era una specie di vendetta che si concedeva in quell’appartamento di pochi metri, a pianterreno, dove si cucinava minestroni ineleganti che divideva con il poeta silente e talvolta con un amico del piano di sopra, un altro reduce della sconfitta. Nel piccolo rifugio dei vinti al Colle Oppio non c’erano santini ideologici, carabattole dei regimi spazzati via, ornamenti simbolici, soltanto delle misere suppellettili e lo sfregio nel gabinetto.

L’altra notte, scorrevano sul video televisivo immagini di una casa kitsch: apparteneva al rifondatore comunista che fu anche presidente della Camera, schierava divani immacolati e cuscini rossi, secondo le regole delle riviste patinate, sfoggiava chincaglieria da nuovi ricchi, era l’esatto pendant degli abiti che gli vedemmo indossare quando era per tutti i media. Affari di gusto, affari suoi. Ma la telecamera, soffermandosi devotamente enfatica sugli oggetti disseminati, incrociava numerose statue a figura intera e busti di Mao Tse Tung. Impressionante la pubblica sensibilità come reagisce in modo iniquo: se nel più remoto dei borghi si rinvenisse presso la casa di un consigliere comunale destrorso un ducetto-souvenir di una gita a Predappio, l’Italia urlerebbe all’abominio, riti costituzionali di riparazione subito si svolgerebbero in ogni dove, con grande commozione per l’offesa alle vittime di quel regime; ma se un signore che ha avuto cariche da padre della patria mostra nella sua dimora il sinistro simulacro, neanche ci si fa caso. Eppure, nonostante il glamour spruzzato dai pubblicitari pop sul sanguinario despota, nessuno tra gli assennati mette più in dubbio che il Grande Timoniere fece fuori molti milioni di cinesi, cifre ben più rilevanti di quelle degli stermini europei. Sappiamo, nelle epoche del tutto-uguale e del sempre-uguale, appena si parla di numeri ti obiettano l’espressione «calcoli macabri», e poi la Cina è così affollata che anche i massacri sono in scala. Ai tempi delle varie carneficine, i tardo-illuministi si affannavano a spiegare che forse, sì, Mao ne ammazzò come nessun altro nella storia moderna ma, grazie a lui, le masse furono alfabetizzate: il valore della scrittura, per i mandarini d’ogni latitudine, è sacrosanto. Qualcun altro ricordava che i campi di lavoro, i Lager utilizzati negli anni Cinquanta dai comunisti appena arrivati al potere, derivavano dalla tradizione imperiale, e sia pure. Anche nella Germania, l’usanza delle stragi di ebrei si possono far risalire alla peste del 1348 (quando da Roma il papa inviava i suoi messi a spiegare che l’epidemia non aveva niente a che fare con le sinagoghe e i buoni tedeschi continuavano imperterriti con le loro idee fisse), ma non sarebbe considerato un valido motivo, almeno si spera, perché i nostri dignitari, pur con la massima indulgenza per le scelleratezze consumate nel privato, riempiano i loro salotti e tinelli con le immagini del cancelliere in camicia bruna e baffetti. Né si vorranno fare odiose distinzioni tra vittime, computando in modo diverso gli ebrei e i contadini, o gli europei e gli asiatici. Dietro al comunismo c’era almeno un sogno di fratellanza – insistono gli apologeti – mentre gli sterminatori tedeschi erano soltanto ‘cattivi’. Chissà come si consoleranno le vittime del comunismo, torturate e uccise per un fine sì nobile cui erano chiamati a far da concime. Magari anche per dar lustro ai vezzi mondani di un vecchio capopolo.

I vinti di oggi fan finta di niente. Rifondano ostinati, affondano sornioni il rosso giocattolo, rinunciano alla violenza, rispolverano le idee più assolutiste, nascondono il georgiano baffuto, ostentano quello cinese, velato di esotismo. Naturalmente, dando continuamente lezioni di etica ai poveri peccatori veniali e ogni tanto perfino al papa. Sempre compiaciuti.