giovedì 16 ottobre 2008

Letture / La felicità autunnale di Stendhal

16 OTTOBRE 1832, STESSA LUCE E STESSO TEPORE DI QUESTI GIORNI DEL TERZO MILLENNIO. UN FRANCESE CHE NASCONDE NON POCHI TORMENTI SEMBRA SFIORARE LA GIOIA DI VIVERE. MA IL CORSO DEL TEMPO SI FA MINACCIOSO ANCHE NELLE OTTOBRATE ROMANE: ET IN ARCADIA EGO…

Stendhal, fedele dell’«onnipotenza di Napoleone (che sempre adorai)» – come confessa nella introduzione di Ricordi d’egotismo –, beffardo avversario di Chateaubriand, sembra poi ripetere le parole del Visconte [v. l’«Almanacco Romano» del 17 settembre], scrivendo alla data del 2 ottobre 1828, in Promenades dans Rome: «Questa mattina, di buon’ora, prima del caldo, ci siamo recati al convento di Sant’Onofrio (sul monte Gianicolo, nei pressi di San Pietro). Quando sentì di essere sul punto di morire, il Tasso si fece portare qui; ed ebbe ragione: è uno dei più bei luoghi del mondo per morire. La vista così estesa e così bella che si ha di Roma, questa città di tombe e di memorie, rende meno doloroso l’ultimo passo per staccarsi dalle cose della terra».
Qui sotto invece, la celebre ouverture della autobiografica, postuma, romantica
Vita di Henry Brulard, dove Henri Beyle celebra un’altra mattinata sul Gianicolo, mettendo in scena con molta posa il suo ingresso nell’età matura. Per chi non sopportava «la forma scialba e incolore», Roma era uno sfondo perfetto.

Questa mattina, 16 ottobre 1832, mi trovavo a San Pietro in Montorio, sul monte Gianicolo, a Roma, e c’era un sole magnifico. Un leggero vento di scirocco appena percepibile faceva muovere alcune nuvolette bianche sopra il monte Albano; un tepore delizioso regnava nell’aria, ero felice di vivere. Distinguevo perfettamente Frascati e Castelgandolfo, che sono a quattro leghe da qui, la villa Aldobrandini che conserva un sublime affresco del Domenichino raffigurante Giuditta. Distinguo molto bene il muro bianco che fa risaltare i restauri fatti dal principe F. Borghese, lo stesso che ho visto a Wagram, colonnello del reggimento dei corazzieri, il giorno in cui il signor di M…, mio amico, perse una gamba. Più lontano, scorgo la rocca di Palestrina e la casa bianca di Castel San Pietro, che in altri tempi fu la sua fortezza. Al di sopra del muro al quale mi appoggio, vi sono dei grandi alberi di arance del frutteto dei cappuccini, poi il Tevere e il priorato di Malta, e un po’ dopo, sulla destra della tomba di Cecilia Metella, San Paolo e la piramide di Cestio. Di fronte a me, ecco Santa Maria Maggiore e le lunghe linee del palazzo di Monte Cavallo. Tutta la Roma di un tempo e quella moderna, dalla antica via Appia con le rovine delle sue tombe e dei suoi acquedotti fino ai magnifici giardini del Pincio costruiti dai francesi, si dispiega alla vista.

Questo luogo è unico al mondo, mi dicevo sognando, e la Roma antica, mio malgrado, superava quella moderna, tutti i ricordi di Livio tornavano ad affollarmi la mente. Sul monte Albano, a sinistra del convento, notavo i Campi di Annnibale. Che vista superba! È dunque qui che la Trasfigurazione di Raffaello è stata ammirata per due secoli e mezzo. Che differenza con la triste galleria di marmo grigio dove oggi è interrata in fondo al Vaticano! Dunque, durante duecentocinquanta anni questo capolavoro è stato qui, duecentocinquanta anni!... Ah, tra tre mesi avrò cinquant’anni, è mai possibile? 1783, 93, 1803, seguo il conto sulle dita… e 1833 cinquanta. È possibile. Raggiungerò la cinquantina e canto l’aria di Grétry: «Quando si ha la cinquantina». Questa scoperta improvvisa non mi irrita affatto, stavo pensando ad Annibale e ai romani. Dei più grandi di me sono pur morti! Dopo tutto, mi dico, non ho occupato male la vita. Cioè, il caso non mi ha dato molte disgrazie, perché in verità io la vita l’ho diretta proprio poco. […]
Mi sono seduto sugli scalini di San Pietro e ho sognato per un’ora o due questa idea. Sto per avere cinquant’anni, sarebbe ora di conoscermi. Chi sono stato, chi sono, in verità sarò molto imbarazzato di dirlo.

(da Vie d’Henry Brulard )