venerdì 19 ottobre 2012

Ridestare i padri

~ LA CULTURA DEI BECCHINI E QUELLA DEI SANTI INVISIBILI.
 ~ DUE FRAMMENTI DI UN RUSSO A ROMA ~

Venceslao Ivanov – così semplicemente lo chiamavano e lo stampavano in Italia dove visse una stagione lunga un trentennio –, poeta simbolista, filologo e filosofo che i nostri contemporanei trascrivono dal cirillico con maggior precisione e completezza: Vjačeslav Ivanovič Ivanov (Mosca 1866 - Roma 1949). Timoroso di visitare la città eterna, rinviò a più riprese il viaggio a Roma e, una volta qui, il discepolo ideale di Nietzsche si convertì al cattolicesimo, aprì casa di fronte al Campidoglio (l’aprì davvero a una cerchia italo-russa di eletti) e insegnò slavo ecclesiastico al Russicum, luogo dell’anima di Cristina Campo nel bailamme dell’Esquilino. È sepolto all’Aventino, nel piccolo ‘cimitero degli artisti’ accanto alla Piramide. Papa Karol Magno ricorse più volte a una sua metafora per indicare la Chiesa universale che ha bisogno di due polmoni per respirare bene, ovvero dell’Europa occidentale come di quella orientale, della cultura latina e di quella bizantina.

Ivanov aveva studiato a Berlino con Mommsen la Roma antica, per via di Nietzsche prese ad appassionarsi alla religione di Dioniso, quindi superò il culto bacchico nel misticismo cristiano. Vladimir Solov’ev, il maestro mistico di una generazione, lo influenzò da lontano e gli disvelò Dostoevskij, mentre il filosofo Nikolaj Berdajev lo consacrò come «il rappresentante più raffinato e più universale della cultura russa del XX secolo».

Dopo la Rivoluzione bolscevica, nell’estate del 1920 Ivanov si ritrovò in un ricovero con un amico, Michail Osipovich Geršenzon, uno storico della vita poetica in Russia. Oppressi forse dalla coabitazione forzata, si scrivevano piuttosto che parlarsi e un epistolario, Da un angolo all’altro, come poi si intitolò quella corrispondenza, finì col diventare un libro, tradotto pure in italiano dall’editore Carabba nel 1932 e rivisto dal medesimo Ivanov che padroneggiava la nostra lingua appresa dai versi di Dante. All’interlocutore che si tormentava sui postumi del nietzscheanesimo, sul rifiuto della cultura, sui veleni del decadentismo, sui sospetti dello psicologismo, sulla mistica nichilista della gnosi, Ivanov prospettava un cristianesimo forte, una cultura della grazia, della salvezza, della vittoria sulla morte. Vale la pena riportarne due frammenti. L’«erede di Bisanzio e del Barocco», come lo definirà Averincev (e del Barocco fu mediatrice Roma), ammonisce i disorientati e titubanti di oggi sul ruolo dei padri e della tradizione. Lo sradicamento attuale ha lasciato in ombra anche il suo nome, lo studioso che Martin Buber e Benedetto Croce andavano a trovare reverenti è ormai cancellato dai cataloghi della nostra editoria. Ci si è dimenticati di quell’amico di Roma e per lo più intradotti o introvabili restano le sue opere, tra le quali i Sonetti romani e un Diario romano in versi del 1944 (una mostra burocratica nelle sale della Biblioteca nazionale, foto e riproduzioni di scritti addossati alle pareti esterne di una latrina non sono certo un affettuoso ricordo).

La prima di queste citazioni è tratta da una lettera datata 4 luglio 1920 e affronta il problema della tradizione: «La cultura, nel suo vero significato, per me non è affatto una superficie, senza altra estensione che in lungo e in largo, né un piano di rovine o un campo sparso di ossa. C’è in essa qualcosa di realmente sacro: non è solo il ricordo del volto esteriore e terreno dei padri, ma è pure il continuamento delle iniziazioni da essi raggiunte. È una memoria viva, eterna, che non muore in coloro che si immedesimano in queste iniziazioni. Poiché le ultime sono state trasmesse attraverso i padri ai loro lontani discendenti; e nessun iota delle lettere, una volta nuove, segnate sulle tavole dello spirito umano che è sempre uno, svanirà. In questo senso la cultura non è soltanto monumentale ma anche iniziatrice dello spirito. Poiché la Memoria, sua divina sovrana, fa i suoi veri servitori partecipi alle iniziazioni dei padri e, risuscitandole in essi, comunica loro la forza iniziativa, quella di osare e di procreare cose nuove. La memoria è un principio dinamico: il dimenticare è stanchezza, interruzione del movimento, ritorno a uno stato di relativa stasi».

E riferendosi allo spirito nietzscheano, da cui pure era stato sedotto in gioventù, Ivanov scriveva: «Per lo psicologo ‘l’antico vero’ non è che una vecchia psicologia. Per lo meno tutto ciò che è spirituale e oggettivo viene da lui sospettato come una cosa psicologica e soggettiva. E di nuovo ricordo le parole di Goethe che stimmatizzano una ricerca sterile: ‘con avida mano egli fruga nella terra cercandovi un tesoro, e gioisce trovandovi i vermi’. Non assomiglia ciò al modo in cui il nostro amico nostalgico dell’acqua viva eseguisce le sue inquisitorie psicologiche e denuda la vanità delle ‘speculazioni’ la tirannica presuntuosità di qualsiasi penetrazione nel senso dell’essere, di qualsiasi affermazione teorica o normativa? Bisogna lasciarlo al suo demone: che i morti seppelliscano i loro morti. Io so bene che egli è un credente e mistico a modo suo (alquanto affine al metodo della cosiddetta teologia negativa, o apofatica); ch’egli stesso non è quindi morto affatto: tuttavia la sua opera è mortifera. Prestargli fede significa lasciar penetrare le carie nel proprio spirito: ciò che non diminuisce, beninteso, la nostra ammirazione del suo ingegno, né il nostro amore verso di lui, né la nostra pietà per lui e per la sua vocazione di tragico seppellitore di morti. Noi vogliamo invece credere alla vita, alla Grazia, all’accrescimento dello spirito, agli invisibili santi che stanno intorno a noi, alla schiera sconfinata delle anime in lotta continua per la trasfigurazione spirituale del mondo, e andremo avanti baldanzosi, senza guardare né attorno né indietro senza misurare la strada percorsa, senza ascoltare le voci degli spiriti della stanchezza e dell’accidia, che parlano del ‘veleno del sangue’ e del ‘deperimento delle ossa’. Si può essere gai viandanti sulla terra, senza lasciare la città nativa, e si può diventare poveri in ispirito senza affatto dimenticare la stessa sapienza. […] Qualunque sia il nostro atteggiamento gnoseologico, la linfa vivificante della sapienza ereditaria, degli antichi intuiti, il loro spirito e il loro logos, la loro energia iniziatrice e fecondatrice, aspiriamo tutte queste virtù in noi in nome dell’‘antico vero’ del Goethe! E così, spregiudicati e desiderosi di sapere, come stranieri passeremo accanto agli infiniti altari della cultura monumentale, che in parte giacciono in abbandono, in parte sono rinnovati e di nuovo ornati, fermandoci a nostro piacere, e portando sacrifizi in luoghi dimenticati, se scorgeremo qui dei fiori che non appassiscono , invisibili agli uomini, fiori cresciuti dall’antica tomba»

La seconda citazione è del 15 luglio di quella stessa estate. Vi si parla del ritorno al primitivo, che tutti gli espressionismi del tempo celebravano: «Ritorno alla primitività è tradimento, oblivione, scampo, fuga; è una reazione suggerita dallo sgomento e dalla stanchezza. È insostenibile il pensiero del ritorno al primitivo, altrettanto nella vita civile, quanto nella matematica, che non conosce che l’operazione formale di ‘semplificazione’: la quale consiste in un riportare la molteplice complessità a una forma più perfetta di semplicità. Semplicità come suprema coronante conquista, è superamento di ciò che non è compiuto per mezzo di una definitiva compiutezza, dell’imperfetto per mezzo del perfetto. Il cammino alla desiderata e amabile semplicità passa per la complessità. Essa si raggiunge non uscendo da un dato ambiente o da un dato paese, ma superandosi ed elevandosi. […] È vuota la libertà rubata per mezzo del dimenticare. Coloro che non ricordano il loro lignaggio e la loro stirpe, sono schiavi fuggiaschi, o liberti: ma non nati liberi. La cultura è culto degli avi e, certo, (essa ne è oscuramente conscia, perfino oggidì) un ridestare i padri» (da Corrispondenza da un angolo all’altro, Carabba editore, Lanciano, 1932, pp. 97-101 ; 137-138).