sabato 29 ottobre 2011

Uno sgorbio è uno sgorbio

~ IL CARDINALE OTTAVIANI E FRANCIS BACON ~

Il porporato dal tono popolare, figlio di un fornaio trasteverino, difensore della tradizione, «carabiniere della fede», inviso agli estremisti del Concilio, il cardinale Alfredo Ottaviani (1890-1979), sapeva pronunciare parole di verità pure su quanto accadeva nel campo dell’arte ai tempi suoi, riuscendo perfino ad anticipare le attuali tendenze del cosiddetto contemporaneo. Da ragazzo, aveva spinto il carretto per aiutare il padre nella consegna dei pani a domicilio ma, per quel consueto miracolo ‘democratico’ dell’organizzazione cattolica, la miseria non gli aveva impedito studi severi e una formidabile ascesa sociale che lo aveva condotto a guidare il Sant’Uffizio, a decidere cioè dell’ortodossia cattolica nel mondo agitato del secolo scorso. Leggiamo sul blog «Cordialiter» una pagina tratta da Il baluardo, una raccolta ormai introvabile di interventi dell’Eminenza trasteverina anteriori al 1961, dove, rivolgendosi evidentemente a degli artisti, diceva in modo schietto e forte quello che critici ed estetologhi nascondono:

«Cari figli, mi rallegro con voi della vostra arte la quale ha saputo essere arte dei nostri giorni e non mero ricalco di moduli passati, creazione e non scopiazzatura, scoperta nuova e non rispolveratura scolastica; e tuttavia ha saputo stare, con tanta comprensione e bellezza, accanto alla preghiera. Così il vostro esempio giovasse tra coloro che si danno a credere, con qualche inesplicabile e indecifrabile sgorbio, di fare arte! Eppure, con tanto poco si fanno scrupolo, di ingiuriare la Chiesa e darle dell’arretrata. Non dico nulla d’altri che presumono popolare la Chiesa di mostruosità, degnissime nel miglior caso, di semifolli, non però di Dio, del popolo e della nostra civiltà. Ricordatevi, quando l’arte non sa stare con la preghiera, non sa pregare, è un brutto segno, è segno che, forse, non è nemmeno arte; ma puro inganno o di sé o degli altri o di sé e degli altri insieme. Ma oggi, più che altro, il pericolo è costituito piuttosto da coloro che, non sapendo raggiungere in arte la bellezza, vogliono emergere con la mostruosità, con la stranezza, emula della caricatura e dell’arte dei primitivi con lo scempio delle cose e delle persone sante».

Possiamo immaginare come sarebbe considerata oggi una simile asserzione, vescovi e preti in prima fila mostrerebbero imbarazzo e accennerebbero a penosi risolini. Ma Ottaviani non si inchinava davanti alle mode, sufficientemente dotto, anzi maestro di dottrina, da non sentirsi in soggezione di fronte ai linguaggi sofisticati, e si poteva permettere di definire «sgorbi» gli sgorbi, senza le timidezze dei parvenus. Anche un perverso pittore irlandese, un eroe del modernismo, era così famoso da non dover nascondere le proprie debolezze nelle frasi intorcinate. Francis Bacon, dialogando con il confratello in pittura Graham Sutherland, ammetteva infatti: «Come mai i pittori del Rinascimento italiano sono così superiori a noi? Lo sono in tutto, ma sotto un profilo compositivo noi, rispetto a loro, siamo addirittura ridicoli. Ci ho pensato a lungo, Graham, deve essere perché loro credevano negli Angeli». Non si tratta del culto angelico new age, l’irlandese sta affermando che la pittura tradizionale era di gran lunga superiore alla loro perché intimamente religiosa, per la precisione cattolica; «l’arte che non sa pregare», sospettava il cardinale con maggiore prudenza del pittore, «forse non è nemmeno arte». Se ne dovrebbero ricordare quelli per cui tutto è uguale, avanguardia e tradizione, senza gerarchie; soprattutto se ne sarebbe dovuta ricordare la direttrice della Galleria Borghese che qualche tempo fa mise insieme in un’unica mostra il miscredente Bacon e il Caravaggio che agli angeli credeva proprio, senza notare quel «ridicolo» di cui parlava con onestà il novecentesco (evidentemente la curator non aveva neppure sfogliato il libro di Giorgio Soavi su Bacon, da cui noi traiamo questa citazione).

giovedì 27 ottobre 2011

Lo spirito di Assisi

~ IL FRATE INTRANSIGENTE CHE VOLEVA PREDICARE
IL VANGELO A TUTTI, PERFINO AGLI ANIMALI ~

Che cosa, meglio di una pagina dei Fioretti, può illuminarci sul cosiddetto spirito di Assisi che il mondo, il linguaggio mondano, tende a trasformare in stucchevole bambocciata o in poetica stilizzazione liberty? Oggi i rappresentanti delle religioni di tutta la terra convergono nel paese umbro per mostrarsi miti e dialoganti, Francesco in questa rievocazione dei suoi primi seguaci apparirà tra loro come un intollerante predicatore che pone ai moderni un tema imbarazzante: Extra Ecclesiam nulla Salus, fuori della Chiesa di Roma non c’è salvezza.

«Il Santo Francesco istigato dallo zelo della fede di Cristo e dal desiderio del martirio, andò una volta oltremare con dodici suoi compagni santissimi, ritti per andare al Soldano di Babilonia. E giugnendo in alcuna contrada di Saracini, ove si guardavano i passi da certi sì crudeli uomini, che nessuno de’ cristiani, che vi passasse, potea iscampare che non fosse morto: e come piacque a Dio non furono morti, ma presi, battuti e legati furono e menati dinanzi al Soldano. Ed essendo dinanzi a lui santo Francesco, ammaestrato dallo Spirito Santo predicò sì divinamente della fede di Cristo, che eziandio per essa fede egli voleano entrare nel fuoco. Di che il Soldano cominciò avere grandissima divozione in lui, sì per la costanza della fede sua, sì per lo dispregio del mondo che vedea in lui, imperò che nessuno dono volea da lui ricevere, essendo poverissimo, e sì eziandio per lo fervore del martirio, il quale in lui vedeva. Da quel punto innanzi il Soldano l’udiva volentieri, e pregollo che spesse volte tornasse a lui, concedendo liberamente a lui e a’ compagni ch’eglino potessono predicare dovunque e’ piacesse a loro. E diede loro un segnale, per lo quale egli non potessono essere offesi da persona. Avuta adunque questa licenza così libera, santo Francesco mandò quelli suoi eletti compagni a due a due in diverse partì di Saracini a predicare la fede di Cristo…» (dal cap. XXIV).

Il santo non si accontentò di questo incontro con un potente della terra, né di avergli strappato una concessione che valeva il duro viaggio, valutò con realismo la difficile situazione e con coraggio insistette per «salvare» l’anima del feroce sovrano, in un duello d'amore, la carità di Assisi essendo quella cristiana della verità, non del cortigiano che per adulazione incensa la fede altrui. Così, in questa appassionata missione per convertire il mondo, entra in scena il prodigio (un altro elemento dimenticato dai moderni).

«Alla perfine, veggendosi santo Francesco non potere fare più frutto in quelle contrade, per divina revelazione sì dispuose con tutti li suoi compagni di ritornare tra i fedeli; e raunatili tutti insieme, ritornò al Soldano e prendette commiato da lui. E allora gli disse il Soldano: "Frate Francesco, io volentieri mi convertirei alla fede di Cristo, ma io temo di farlo ora: imperò che, se costoro il sentissino, eglino ucciderebbono te e me con tutti li tuoi compagni, e conciò sia cosa che tu possa ancora fare molto bene, e io abbia a spacciare certe cose di molto grande peso, non voglio ora inducere la morte tua e la mia; ma insegnami com’io mi possa salvare: io sono apparecchiato a fare ciò che tu m’imponi". Disse allora santo Francesco: "Signore, io mi parto ora da voi, ma poi ch’io sarò tornato in mio paese e ito in cielo, per la grazia di Dio, dopo la morte mia, secondo che piacerà a Dio, ti manderò due de’ miei frati da’ quali tu riceverai il santo battesimo di Cristo, e sarai salvo, siccome m’ha rivelato il mio Signore Gesù Cristo. E tu in questo mezzo ti sciogli d’ogni impaccio, acciò che quando verrà a te la grazia di Dio, ti muovi apparecchiato a fede e divozione". E così promise di fare e fece».


giovedì 20 ottobre 2011

La bella dimestichezza

~ BUONI CONSIGLI PER RESISTERE
A QUELLO CHE SI SPACCIA PER ARTE ~

È difficile essere «antimoderni», arduo muoversi sul crinale tra il ‘ritorno’ all’arcaismo pre-cristiano e il gusto sottile della décadence. Quelli raccolti nel rifugio online del «Covile» hanno provato a parlarne in una riunione conviviale a Firenze. Ora cominciano a pubblicare la trascrizione di quei discorsi. C’è chi ha raccontato il fastidio di vedere la trasandatezza della scena urbana e dei suoi attori, lo scontento di incontrare gli «erranti indottrinati», ovvero le masse del turismo trascinate da guide urlanti, più in generale «lo spettacolo desolante della modernità», ricordando però come «il mutamento, il progresso, non abbia necessariamente un esito nichilista» (Stefano Borselli); e chi ha stilato una specie di catalogo per resistere alle provocazioni degli intrattenitori miliardari che si ammantano del nome di arte. Questi buoni consigli vogliamo diffonderli. L’«Almanacco» sa che il numero dei suoi lettori è notevolmente inferiore a quello dei lettori del «Covile» ma per i pochi amici che ancora non conoscono l’aperiodica rivista elettronica ripropone le parole conclusive di Gabriella Rouf (e naturalmente rinvia alla lettura integrale degli interventi sul n. 660 di www.ilcovile.it ).

«Occorre […] agire nella convivialità, realizzare nel concreto le condizioni umane, integrali, sane, spontanee, del produrre e godere dell’arte; scoprire ed amare l’arte nel quotidiano, nella normalità della vita, nella sua integrazione visiva e pratica nei percorsi degli uomini; visitare i luoghi con acutezza di sguardi ma larghezza di tempi, ed eventualmente i musei, cercando di proiettarne le opere all’esterno per lo meno con l’immaginazione; non frequentare normalmente mostre ed eventi, e nel caso esprimere critiche e dissenso, ma privilegiare le collezioni permanenti e l’arte diffusa sul territorio (spesso ahimè non accessibile oppure resa tale solo dalla disponibilità dei volontari); comprare un’opera che ci piace, incoraggiare gli artisti che ci piacciono, fidandoci del nostro gusto, perché se un buon effetto può avere la pessima fama dell’ambiente artistico ufficiale, è nel rafforzarci nel nostro intuito, visto che degli “esperti” non ci si può certo fidare! Riscoprire la gioia di portarci a casa una piccola scultura, come di trovare in una chiesa una dolcissima Madonna, venerata sull’altare, magari con gli abiti ottocenteschi, mentre tante altre, in certi casi sottoposte a dissennati restauri, se ne stanno squallidamente ed ossessivamente in fila in una sala (ci può essere - salvo la distruzione - un danneggiamento specifico peggiore?). Sostenere l’artigianato artistico, le tradizioni artigianali, i cui confini con l’arte erano un tempo sfumati, e che talvolta oggi appaiono suggestivi rifugi di saperi antichi e raffinati. Raccogliere notizie, documentazione, opere di artisti del Novecento misconosciuti ed emarginati dal trionfo delle avanguardie. Agire pertanto per ricostituire concretamente un mercato indipendente ed anticonformistico, che applichi un discernimento sulla qualità (pur nella pluralità dei gusti personali)».

Per concludere con un’originale replica a chi, sulle orme del saggio di Benjamin, si tormenta da decenni e astrusamente sulla ‘scomparsa dell’aura’. Alle elucubrazioni germaniche si risponde con la tradizione italica, con la familiarità toscana per ogni aspetto del bello: «La nostra arte non ha bisogna dell’‘aura’, perché partecipa di una millenaria dimestichezza con la manipolazione creatrice di ideale bellezza, fatta propria e resa integralmente umana dal cristianesimo, affermatasi come valore collettivo e civico, segno identitario e pervasivo di territori e città, con un’inesauribile ricchezza simbolica. Se guardiamo alle quantità, le presenze di AC [arte contemporanea] e bruttezze novecentesche che ci appaiono così disturbanti, sono insignificanti, imbarazzanti nella loro miseria: è l’effetto amplificatorio dei media disciplinatamente al servizio di chi paga che falsa le proporzioni».

lunedì 17 ottobre 2011

La guerra morale

~ QUANDO L’INDIGNAZIONE PROVOCA
UNA VIOLENZA APOCALITTICA ~

L’indignazione allegra è un non senso. Si può genericamente protestare col sorriso ebete, ma indignarsi presuppone una increspatura della fronte, un aggrottare le sopracciglia, un corrucciare il volto, un’aria arcigna, una voce irata, un tremore fisico, il corpo stesso infatti vien chiamato in causa da quel moto del cuore e della mente. Talvolta provoca la bava alla bocca; la bile chiamerebbero in causa quelli della bio-politica. La collera si accompagna allo sdegno ed esige una reazione dura. Che sono dieci o mille bidoni della spazzatura in fiamme di fronte allo scandalo della finanza che gioca con l’esistenza di uomini e di donne? Che sono delle automobili distrutte, i fuoristrada odiati dai modernisti invidiosi, di fronte alla retrocessione della Grecia? Così si dicono i ragazzi che credono nell’assoluto della giustizia terrena, e purtroppo anche alcuni frati, alcune suore, altrettanto creduli. Che sono tre rapine o una violenza sessuale di fronte a un reparto di oncologia infantile? A cercare delle proporzioni esatte si esce dall’umano. E l’indignazione, portata alle estreme conseguenze, esige che la vita quotidiana sia interrotta bruscamente dal momento che non è degna d’esser vissuta. Non c’è alcun bisogno della favoletta dell’uomo nero che si cala il cappuccio e sopraggiunge nel bel mezzo di una processione di anime belle a produrre violenza nello stupore generale dei processionanti. Dei video ripropongono i veementi manifestanti che sputano addosso al guru radicale reo di aver insozzato la nobile protesta delle opposizioni aventiniane: non sono abbigliati di nero, non mascherati, soltanto aggressivi, spaventosamente minacciosi; il trovarsi di fronte a un ottantenne non li porta ad abbassare il tono truce, anzi si appigliano all’età, «vecchio schifoso» gli urlano. È un continuo ripetere «venduto», un riaffermare la propria identità di ‘incorrotti’ ed un’evocazione di escrementizi insulti vari. Mai un «mea culpa, mea maxima culpa». Son feroci i ragazzotti che si battono in nome della morale, è tutta un’ordura il mondo e in special modo i nemici che non appartengono alla schiera degli eletti (si veda nel blog di Magister come reagiscono anche a Mario Tronti che vuole dialogare con Ratzinger: il teorico operaista di un tempo dovrebbe «esser messo in un centro di igiene mentale» urlano i militanti al computer). A quel punto, suggerirebbe Manzoni, con il suo uso di mondo, «non mancava altro che un’occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per ridurre le parole a fatti». C’è sempre una scintilla come quella che provocò la romanzesca rivolta di Renzo. Le parole urlate in piazza diventano fatti in men che non si dica.

La statuetta dell’Immacolata finita in pezzi nella strada dove è passato il corteo degli «indignati» è eloquente nel web dove troneggia. Un gruppo di ragazzi ha sfondato le porte di un’antica chiesa di martiri e ha preso a sprangate un crocefisso e una madonna. Mandanti sono le dame che si indignano sui futili social network per le presunte evasioni fiscali della Chiesa di Roma di cui nulla capiscono. I ragazzi si sono limitati a eseguire e a lasciare una scritta con gli slogan untorelli di Facebook.

Eccitati dalle televisioni di mezzo mondo, benedetti da imprenditori, editori, magistrati e banchieri imbonitori, i giovanotti modaioli, lettori del pamphlet di un novantenne eccentrico, innamorati della primavera egiziana (con relative stragi di cristiani) e chissà anche dell’autunno siriano con massacri di bambini, attenti a rifare le pose del globalismo, si sono incamminati come in centinaia di città di tutto il mondo, in piena ortodossia del pensiero unico e con buona volontà. Ma, Carl Schmitt ce lo ha insegnato, le guerre mosse dalla morale sono violentissime e interminabili. Se per i re imparentati tra loro le mosse belliche erano dentro una strategia politica, ossia avanzare di pochi chilometri e firmare subito un compromesso, dalla Rivoluzione francese in poi il nemico diventa assoluto, «qu’un sang impur abreuve nos sillons» canta sacrificale la Marsigliese, Napoleone ordina le grandi stragi, la prima guerra mondiale moltiplica le stragi napoleoniche e riprende l’uso poco nobile di coinvolgere donne e bambini, la seconda è un insieme di stragi, il tradimento delle virtù militari, centrale è lo sterminio di donne, bambini ed ebrei, i disarmati per definizione, dopo di che i vincitori processano gli sconfitti e li condannano a morte. L’indignazione non conosce l’armistizio del compromesso.

Altro è lo sprezzo letterario, la sprezzatura di cui parlava Cristina Campo: gli irriconciliati con il mondo sono anzitutto irriducibili alle seduzioni facili della politica. «Prima d’ogni altra cosa sprezzatura è infatti una briosa, gentile impenetrabilità all’altrui violenza e bassezza», spiegava la scrittrice, «ma attenzione, non la si conserva né trasmette a lungo se non sia fondata, come un’entrata in religione, su un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono…». Avvertiva inoltre la aristocratica Cristina che chi vuole attingere a questa musica della misura deve mostrare «l’umor lieto. Ciò significa, tra l’altro, capacità di volare incontro alla critica con impeto sorridente, con la graziosa enfasi dell’incuranza di sé: un tratto che troviamo tanto nei precetti dell’educazione mistica quanto in quelli della scienza mondana» (Con lievi mani).

La politica dunque mal si apparenta con lo sdegno morale. L’Italia dei Cinquanta, con le fiammate in piazza contro l’America o per Trieste, conobbe queste esplosioni di rabbia popolare ben guidate, cioè sotto controllo, dove chi convocava le adunanze era in grado di prevedere con una buona approssimazione se ci sarebbe scappato il morto. Un minuto dopo gli organizzatori sapevano anche come fermarsi e come trarre profitto da quel sangue sul selciato, come barattarlo con un ministero o una vittoria elettorale. Cinici, non irresponsabili. Ma i ragazzi convocati dalla rete virtuale vanno allo sbando contro le banche, contro la finanza, contro gli affari, contro la Borsa… Se le parole hanno un peso, trattasi di bomba atomica fatta esplodere contro l’Occidente. Saranno parole in libertà, chiacchiere che già definire anarcoidi sarebbe un complimento, ribellioni adolescenziali, umori, ma nel momento che prendono corpo in piazza non possono non essere violente.

«Veramente, la distruzion de’ frulloni e delle madie, la devastazion de’ forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva». È ancora Manzoni a parlare della sommossa seicentesca, e naturalmente neppure la distruzione di automobili e vetrine dei negozi e delle banche aiuta oggi a superar la crisi, questa essendo una di quelle sottigliezze metafisiche che evidentemente neppure un governatore della Bce ci arriva, per cui si mette a lusingare i giovani, confondendo loro ancor più le idee. Dalle rivolte del Maghreb in poi, sono i laureati che non trovano lavoro adeguato alle loro ambizioni a indignarsi: l’industria culturale non ce la fa ad assorbirli tutti, per fortuna non riesce a gonfiarsi più di tanto, a trasformare il mondo in un museo o in una scuola. Tra i vecchi marxisti e le nuove ‘sinistre Beautiful’, nessuno che discuta in termini adeguati di una gioventù che si rifiuta di far lavori artigianali, pure molto richiesti, di questa ‘dignità’ che non si sporca le mani, invero assai simile alla superbia piccolo-borghese, e invece ancora a metterla in modo ottocentesco sul «pan che manca», gli scioperi, i disoccupati, le bandiere rosse…

A New York, l’altro giorno, i gendarmi del messianico presidente nero erano in assetto antiguerriglia davanti a dei protestanti pacifici i quali, appena superata una linea di confine imposta dalle autorità democratiche alla loro protesta, son stati caricati dalla polizia a cavallo che travolgeva anche vecchine e bimbi al collo di genitori pazzerelli. Nei giorni precedenti il ‘presidente buono’ aveva fatto arrestare centinaia di giovanotti per una escursione davanti al tempio della Borsa. Ma noi siamo un paese cattolico, anche se ci fanno a pezzi la Madonna non diventiamo mai estremisti della legalità, non crediamo stoltamente nella assolutezza della giustizia terrena, finiamo sempre per provare un sentimento di indulgenza, comprendiamo addirittura la stupidità dei teppisti, ossia dei peccatori, senza indignarci più di tanto. E loro, i rivoltosi, confidano da sempre in questa comprensiva indulgenza. Qui manca la spietatezza puritana che pur da qualche anno si vorrebbe imporre anche nel Belpaese. Dio ce ne guardi.

sabato 15 ottobre 2011

La nostra patrona

~ TERESA D’AVILA CHE NON SI CREDEVA UN ANGELO ~

«Un po’ di stupido stupore in questa nostra epoca ideologicamente e intellettualmente indottrinata non sarebbe opportuno, e anzi direi, indispensabile?». Se lo chiedeva qualche tempo fa, il saggio Raffaele La Capria e certo a tutti farebbe bene assistere allo spettacolo che si svolse sotto gli occhi candidi delle carmelitane spagnole, ovvero i colloqui appassionati tra la loro fondatrice Teresa e Giovanni della Croce: pare che i corpi dei due santi si sollevassero qualche centimetro da terra.

Oggi la Chiesa cattolica celebra la festa liturgica di Teresa d’Avila, la santa non contagiata dai docetismi, dalle gnosi che negano lo «scandalo della crocefissione di Dio», la donna mistica che è il più potente antidoto alle insulsaggini della New Age. Nel racconto autobiografico in cui descrive le sue visioni ci parla anche della fisicità di Cristo: straordinaria iconofila, cercava le immagini del Dio fatto uomo. «In tutta la mia vita […] non potendo aver [Cristo] così profondamente scolpito nell’anima come desideravo, volevo avere sempre innanzi agli occhi il suo ritratto e la sua immagine» (XXII, 4). Del resto lei conosceva bene «la superbia dell’anima», perciò pur aspirando alla purezza spirituale da rggiungere al culmine del «cammino della perfezione» era consapevole che «il Creatore deve essere sempre cercato attraverso le creature» (XXII, 8). Temeva che dimenticando la «sacra umanità» di Cristo, «l’anima cammini, come suol dirsi, per aria», cioè «priva di appoggio», «mentre la pratica di rappresentarci il Signore sotto figura di uomo, per noi uomini, finché viviamo, è molto importante» (XXII, 9). Un altro figlio di questa Spagna di visionari, l’eccelso Luis de Góngora invocava molta poetica zavorra per non volar via tra le nuvole col mal d’aria in una instabile mongolfiera, ammonendo: «Tome tierra, que es tierra el ser humano», come chiudeva regalmente il suo sonetto funebre Sul sepolcro della contessa di Lerma, «Tocchi terra, che terra è l’essere umano». Suor Teresa di Gesù, anticipando Pascal e rovesciando le figurine bigotte delle monache aveva scritto: «noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Volerla fare da angeli, mentre siamo ancora sulla terra, è una vera pazzia» (XXII, 10).

«Abbiamo un corpo»: chi meglio di Teresa, con i suoi tanti tormenti fisici, poteva dirlo? Per questa ‘fisicità’ santificata fu derisa da molti suoi contemporanei e derisa dai moderni, sottoposta alle elucubrazioni della psicoanalisi e perfino la sua immagine, la superba statua berniniana a Santa Maria della Vittoria, subì il medesimo affronto. Per questo è adesso invocata come patrona di coloro che son «ridicolizzati per la loro pietà». Che il cattolicesimo minoritario e perseguitato dagli sfottò si rivolga a lei mentre una cultura unica a carattere universale porta al trionfo il laicismo globale, laici senza più ecclesiastici, che è come dire bianco senza più nero, un vacuo da incubo. Che protegga i vescovi affinché non si lascino intimidire dal risolino progressista. Che si possa resistere con il suo aiuto alla satira sguaiata che circonda noi, amici dell’‘oscurantista’ Ratzinger, di fronte agli 'illuminati', gli irradiati dai riflessi della tv-color.

Teresa è anche protettrice della Spagna, ben più utile alla penisola pentagonale del protervo muro tirato su dall’orribile Zapatero per fermare i disperati dell’Africa. Non è quello il pericolo principale per i cattolici, almeno secondo la santa che si indignò quando le raccontarono del colonialismo spagnolo nelle Americhe. Ma si trattò di una mistica indignazione, senza furori adolescenziali, né chiasso, né violenza. Ne parlò direttamente alla sacra umanità del suo Dio.

mercoledì 12 ottobre 2011

La decadenza dell'omelia

~ UNA PRECE PER I BUONI PREDICATORI ~

Solo il Cielo può salvare i fedeli cattolici italiani dalle brutte omelie che si moltiplicano ogni domenica. Arrivano al microfono – quanti microfoni crepitano sull’altare, sembra un palcoscenico rock – con il tono confidenziale degli intrattenitori televisivi, talvolta provano a dialogare con il popolo di Dio a colpi di battute, poi spesso parroci e viceparroci si incamminano per la strada della ‘cultura’, questo idoletto moderno onnipresente, ovverosia ammoniscono con la filologia appresa in seminario onde estirpare i sentimenti più semplici. Una volta, nel giorno dell’Epifania, se ne ascoltò uno che smontava tutte le ipotesi tradizionali sulla figura dei Re Magi, facendola proprio lunga con svariati riferimenti linguistici all’aramaico, greco ed ebraico, citazioni che scendevano sulla piccola folla di anziani ben più punitive del latinorum soppresso, e l’oratore sembrava provare un gusto cattivello a toglier di mezzo le credenze apprese davanti al presepio, per concludere quindi che i tre santi viaggiatori altri non erano che dei migranti, perseguitati allora da Erode come attualmente dal governo in carica a Roma. E la scorsa domenica, a commentare il Vangelo del giorno, quello degli invitati alle nozze (Matteo 22, 1-14), un povero prete si incartava talmente nel suo sermone da sostenere e ripetere in un discorso zoppicante che «Dio è bontà e non giudica», un’amorevolezza melensa che non teneva in alcun conto il finale di quella stessa parabola: «Allora il re ordinò ai servi: legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (severissima sentenza del sovrano-giudice), e senza arrossire per la patente contraddizione con quel che egli pronunciava subito dopo quando, andando a un altro microfono per proclamare il Credo, ripeteva le parole solenni: «di là verrà a giudicare i vivi e i morti». Dalle chiese in tali casi si esce davvero sconcertati. Nonostante le immancabili spruzzatine di etica domenicale, si apprende che Dio «non giudica»: che senso avrebbe allora il mondo? L’unico giudice sarebbe forse la singola coscienza? Avrà fatto tardi la notte anche il prete per leggere Kant?

Raccontano che Ratzinger da cardinale dicesse agli amici: «Per me una conferma della divinità della fede viene dal fatto che sopravvive a qualche milione di omelie ogni domenica». Da papa deve dare una mano alla Provvidenza affinché l’eloquenza torni in auge nei seminari. Ma la preparazione dei preti attuali è una faccenda complicata, risultando l’influenza della «Repubblica» più evidente di Tommaso d’Aquino e soprattutto più facile. Ci si abbandona all’onda del pensiero unico, si parla il medesimo linguaggio di tutti, e il cattolicesimo viene caratterizzato solo per un’eccedenza di atteggiamento caritatevole, di mansuetudine che sfuma nella resa. Bisogna pregare perché i testimoni del Vangelo non si confondano con gli ipocriti oratori dell’Onu o dell’Unesco; un tempo anche il predicatore invocava l’Onnipotente appena salito sul pulpito. A proposito di quella tribuna: si usa assai il termine «pulpito» soprattutto in senso metaforico, ma la predica non viene più da lì. Sopravvivono inutilmente i pergami nelle chiese antiche, costellati di eccellenti raffigurazioni e ornamenti simbolici che potrebbero aiutare ancora oggi a dare ordine al discorso omiletico.

Si dirà che il don Camillo di Guareschi, i tanti don Camillo della nostra infanzia non erano dei Bossuet e non di rado facevano dal pulpito pesanti allusioni politiche, ma almeno non trasformavano la predica in una lezioncina da università della ‘terza età’ (che è la stagione finale e non dovrebbe riempirsi di vano nozionismo). In quel tempo pacelliano di sicuro il modello non era l’omiletica del pietismo rivolta a far affiorare quell’interiorità che oggi ritorna in noiosissimi setting da parrocchia, trastulli del quietismo attuale. In ogni caso la decadenza dei sermoni, nella liturgia riformata che tanto esalta la parola, è un segno impressionante.

sabato 8 ottobre 2011

I versi della pietas

~ CHI CANTA LA BELLEZZA DEL MONDO E CHI LO SDEGNO
CHI NELLA REGOLA E CHI NELLA TOTALE INCURIA ~

I poeti, i poeti. Possono masticare l’amarezza come Emile Cioran, accarezzare la disperazione; o soffiare sul vento di ribellione con il loro sbuffo bambinesco, come in molti fanno; o rendere elastiche le leggi economiche, deridere i corpi e lanciare in aria lo spirito. Il giocare al ‘fanciullino’ mentre si ostenta il moderno è però particolarmente snervante. Si intruppano con i movimenti emotivi, quasi l’ingegneria della mente non riguardasse gli scrittori in versi. Esser matto diventa una qualità nel salottino poetico, dimenticando lo sguardo truce e «la bava dei miei spasimi» (della terribile Elektra hofmannsthaliana). Talvolta hanno la spudoratezza di ripetere lo slogan abusato del «provare l’impensabile»: secoli di science fiction dimostrano che le fantasie pedestri non incroceranno mai la realtà, piuttosto mimano in modo squinternato l’hic et nunc.

Integralismo espressivo, scarno e scarmigliato come spesso l’espressionismo storico e metastorico. Innamorati del vago, sospettosi dell’immobile dal momento che adesso quello che sta a fondamento risulta impoetico, paladini di un lirico puritanesimo per cui è scandaloso accentare la forma a scapito dei contenuti, il moralismo pare suonare bene nel canto dell’indignazione. In gran ribasso invece i ‘capricci dell’innamorato’. Ormai è quasi un secolo che, liberatisi dalle odiate «costruzioni formali», rischiando ogni volta di confondere la poesia con le prediche (peraltro senza più costrutto retorico), innalzano laudi della licenza in panegirici che sanno piuttosto di filastrocca. Addio al formale dominio di Mallarmé, al rigore matematico del Cimitière marin, al metodo leonardesco, al piacere della precisione; invero lontano anni-luce anche dalle prose scientifiche del sifilopatologo e Dichter. Un continuo sfottò del simmetrico perché sarebbe troppo facile, da verseggiatori, addirittura la ripugnanza verso il finito: non fa fine quanto l’aere sfuggente. Il secolo scorso, allegri agnostici, ora cupi gnostici. Riprovazione a piene mani, disprezzo, a calcolare cioè quanto si valga su un ipotetico mercato che hanno in testa.

Poeti senza più tecnica, in genere, senz’arte, soltanto buone intenzioni, nient’altro che un tono da poeti, una posa neppure tanto delicata. Nelle cittadine d’altri tempi, soprattutto al Nord, c’era chi gridava ogni notte allo scoccare delle ore, per soddisfare gli insonni in attesa, forse per mostrare quotidianamente la potenza dell’organizzazione sociale che né le tenebre né la stanchezza umana riuscivano ad inficiare. Uguale è l’intervento urlato dei nostri battitori sentimentali, medesima sciatteria nell’intonazione.

I politici son meno liberi e per questo meno amati. Su di loro pesa la responsabilità della vita di sudditi o cittadini. Impoetici amministratori delle nostre malattie e del nostro denaro, dell’oggi tribolato e delle speranze per uscirne fuori. Governare non è bello esteticamente, ma almeno nell’italico paese resta un gusto forte di fazione, di casta: chi dirige i pubblici affari assume i colori purpurei della potenza, ha il suo sublime, niente a che vedere con l’eurocratico travet. Ogni tanto qualche teorico della politica sa scoprire poeti meno irresponsabili. Carl Schmitt, per esempio, ne raccomandò qualcuno; e non si sentì a disagio neppure nel trascrivere in forma lirica i suoi sessant’anni compiuti durante la prigionia (in Ex captivitate salus), ma appariva ormai un vinto, impolitico per necessità. Goethe, invece, che era un politico attivo, scrisse per vincere lo smarrimento del cuore anche nel ruolo aulico che ricoprì alla corte del duca di Sassonia-Weimar-Eisenach e nell’operare prosaico di responsabile nel corso degli anni alla viabilità, alle miniere, alla pubblica amministrazione, agli affari militari (già, come Valéry fu un funzionario del ministero della Guerra e Rimbaud vendette armi in proprio, il pacifista non essendo affatto sinonimo di poeta).

Pazzo ma non depresso, felice dello spettacolo della vita, miserrimo senza lamentazioni, Robert Walser arriverà a scrivere: «È chiaro che il mondo, come corre voce, continuerà a essere bello, altroché, e le più rosee speranze continueranno a fiorire».