mercoledì 3 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 3. Praz, il presepio

«Presepi», di cui offriamo una lettura parziale, è un breve ma sapiente saggio di Mario Praz, del 1938, pubblicato poi nella raccolta Fiori Freschi (Sansoni).

Invero, dinanzi ai presepi, difficilmente ci si può sottrarre all’impressione che questi, per squisiti che siano, sono, in fondo, soltanto balocchi; e non si può dar torto allo studioso di liturgia che li considera tali, come non si può negare che agisca con discernimento, sebbene con severità, lo storico dell’arte che trascura i presepi come poco importanti manifestazioni. Forse per apprezzare pienamente i presepi bisogna mettersi dal punto di vista di quei bravi religiosi del Seicento, che pensavano che anche i trastulli potessero servire alla Fede, come i concetti servivano alla poesia […].

Vanti pure la sua origine nelle lettere di San Girolamo ai suoi amici romani, si sia dapprima chiamato col solenne nome di Domus Sanctae Genitrix nella basilica di Santa Maria Maggiore, sia stato fatto oggetto di speciale culto da San Francesco a Greccio (un nome che sembra, e non è, l’etimo di crèche) e poi, nel Cinquecento, da San Gaetano, è certo che il presepio raggiunse il suo splendore soltanto come spettacolo drammatico, vero e proprio dramma nel Medio Evo,.e quadro scenografico nel Settecento. E sempre con un elemento d’amenità, di farsa; il grottesco intervento d’Erode furore accensus, o dell’Arcisynagogus, o di Balaam col suo asino nella sacra rappresentazione medievale, le scenette di genere nel presepio settecentesco; sicché ci si domanda se questo tipo di spettacolo, ove al mistero divino s’alternano molto e fin troppo umani scherzi, non risalga addirittura a schemi che si perdono nella notte dei tempi, e che si continuano, con diversi culti, sulle rive del Mediterraneo e su quelle dell’Oceano Indiano. Commoventi e alquanto monotone scene drammatiche medievali (quand’anche raggiungano la relativa perfezione della cosiddetta Secunda Pastorum del teatro inglese) impallidiscono ai nostri occhi accanto alla squisita vivezza del presepio di immobili figurette immerso in un malioso gioco di luci. Immobili, o moventisi secondo un ben regolato meccanismo d’orologeria, che le fa girare e atteggiarsi con un rito perfetto come il moto stesso delle sfere; e tra i primi a costruire di questi pii trastulli fu Hans Brabender, nel cui presepio meccanico del 1543, nella cattedrale di Münster, sfilano a mezzogiorno i Magi dinanzi al Bambino Gesù, e s’inchinano mentre il gariglione suona le note di In dulci Jubilo; e fu anche il nostro Buontalenti che pel giovine Francesco, figlio di Cosimo I, costruì un presepio in cui gli angeli scendevano dal cielo, e le figure dei mortali assumevano naturali atteggiamenti; mentre il più complicato trastullo del genere fu congegnato nel 1589 da Hans Schlottheim di Augusta, per esser donato dall’Elettore di Sassonia a sua moglie.

In Germania, grazie anche alla propaganda dei Gesuiti, che non tralasciavano nessuna occasione per giungere, attraverso il dolce dello spettacolo caro ai sensi, all’utile dell’insegnamento religioso, il presepio acquistò enorme popolarità, al punto da figurare non solo in chiese e conventi, ma nei palazzi dei sovrani, nelle case dei borghesi e in quelle dei contadini, e sempre con una nota di paterna tenerezza, sicché San Giuseppe ci appare spesso nella veste d’un Biedermeier avanti lettera, ora pazientemente reggendo la candela, ora facendo dondolare la culla, ora arrampicandosi su una palma per curvare a portata della Madonna un ramo carico di frutti.

La tendenza al domestico, al ravvicinare la scena divina alla scena umana di ogni giorno, contrasta, nei presepi, con l’altra tendenza, che cerca di suggerire il favoloso, il miracoloso: una nota d’oricalchi orientali coi Magi, una nota di locali cornamuse coi pastori e tutta l’umile gente. Sublimi prospettive d’architetture, e addirittura catene e catene di monti riprodotte in presepi boemi; e, a Napoli, tutta la formicolante vita della strada coi suoi tipi, i suoi pezzenti, i suoi umili commerci, la sua moltitudine di persone e di cose. Nessuna scena è mai stata così affollata come quella d’un presepio napoletano; si direbbe che tutta Napoli voglia farsi intorno alla culla per scaldare col fiato il Bambino nato in una gelida notte; e in tanta urgenza di figure e di gesti, e in tanta abbondanza di disparate cose offerte, v’è pure una profonda tenerezza che si scopre a poco a poco al riguardante, quand’abbia superato la prima impressione di eccesso. Un presepio napoletano è come una pagina di Giambattista Basile, ove pur tra la ressa di strampalate metafore e di grotteschi e saporiti tropi, fiorisce non so che semplicità di commovente fiaba. I pastori del Celebrano coi crani calvi e i visi pieni di nèi e di verruche, i ben pasciuti fattori del Gori con le loro rubiconde mogli (spesso in vesti contadinesche, erano personaggi di corte che il Gori ritraeva), gli animali di Nicola e Saverio Vassallo, i lazzaroni del grande Sammartino, il massimo dei figurari, gl’innumerevoli finimenti e suppellettili del Mosca (mandolini accanto a bisacce, paioli, gabbie, provoloni, e ogni genere d’umile civaia), tutto questo è forse fastidiosamente terrestre. Ma in alto si librano gli angeli, reggendo cartigli e ghirlande tra le dita sensitive (che squisite mani sanno formare questi figurari!). Vegliano in scintillanti coorti come nell’Ode alla natività del Milton; e in quest’incontro di mondi, l’umano e il divino, non sta forse la suprema significazione del Mistero commemorato dal presepio e la ragione della sua perenne popolarità?