mercoledì 20 maggio 2015

L'epoca della leggerezza

~ IL SECOLO SANGUINOSO
SI AMMANTA DI GRAZIA LUDICA ~ 
~  «IL ‘900», II PUNTATA ~ 

Diari lontani (1989-1995) per cercare il bandolo del secolo scorso. Per la puntata precedente cliccare qui.

TROMPE-L’OEIL - Un Curtius splendidamente sintetico: «… in tutti i paesi d’Europa gli artisti della giovane generazione producono oggi, in sorprendente unanimità e come se si fossero passati una parola d’ordine, un’arte che scandalizza i più vecchi e che non è capita nemmeno dai critici meglio disposti, tanto che questi credono di trovarsi di fronte a una farsa gigantesca che unisce Europa e America come in una congiura […]. L’arte, per così dire, non viene presa sul serio, è sparito tutto il pathos religioso di cui si era circondato il godimento estetico da duecento anni in qua […]. Per il nuovo sentimento vitale, l’arte possiede la sua grazia e il suo incanto quando è gioco e gioco soltanto. Questo spostamento di accento nel campo estetico corrisponde alla nuova coscienza, al gioioso sentimento di festa che si è sostituito all’etica del lavoro del XIX secolo. […] Oggi preferiamo tra i valori dell’azione quelli che sono del tipo dello sport, cioè del puro lusso. […] «Anche nella politica […] si è manifestata una tendenza à la baisse. Oggi si fa meno politica che nel 1900. Nessuno si aspetta più la salvezza dalla politica: non riusciamo più a capire come ai tempi dei nostri nonni si potessero drizzare barricate per formule costituzionali […]. Libertà non è più per noi una parola inebriante. Ortega crede per questo che si sia conclusa l’èra delle rivoluzioni: le utopie politiche hanno perso la loro forza d’attrazione, noi riusciamo a penetrare oltre il loro carattere chimerico e alla politica delle idee succede una politica delle cose e degli uomini. Ma soprattutto la politica sparisce dal primo piano degli interessi umani, diventa un mestiere come un altro, indispensabile ma senza accenti patetici: non si muore più per le idee politiche». Ogni frase dello scritto citato, talvolta le singole parole, si accomodano così bene ai nostri giorni, li riassumono disinvoltamente e garantiscono di un passaggio definitivo, confermando le convinzioni raggiunte a fatica negli ultimi tempi, che è terribile scoprire la data di questa pagine: 1924. Una data tanto remota – precedente le liturgie surrealiste e la tirannia del georgiano sulla Russia – sconvolge infatti ogni certezza storica, ogni diagnosi di media durata sulle tendenze del mondo. Adesso sappiamo. In quell’anno 1924 si credevano leggeri e desacralizzati, dovevano precipitare nell’Inferno, schiacciati da massi carismatici. L’arte ludica sarà sconfessata dal realismo imposto dagli assolutismi montanti, dalle culture di regime, dalla gravità espressionistica delle vittime, dalla indicibilità delle stragi che non trovava più una forma decente per rappresentarsi, dalla fuligginosa letteratura dei rimorsi, dalle teorizzazioni ricorrenti dell’engagement. L’ideologia della festa che doveva sostituire l’etica del lavoro verrà affossata qualche anno dopo, di fronte ai rischi di immiserimento scaturiti dalla crisi del ’29, operai d’acciaio saranno celebrati a Mosca come a Berlino – mentre a Parigi ci si limiterà ai poveri ma belli del Front populaire, poi le fabbriche che si accenderanno nel delirio bellico e l’ethos del lavoro finirà nel cartiglio all’ingresso dei Lager. Le «utopie politiche hanno perso la loro forza di attrazione», scrive Curtius: non gli faceva velo l’acutezza, era la storia che stava tirando un brutto scherzo ai credenti del progresso. Ci si accostava leggeri alle più micidiali macchine politiche e mezza Europa sarebbe finita stritolata nei loro ingranaggi, schierata in utopici fronti di lotta, pronta a sacrificare vite umane, città, memoria, tutto quanto di umano era possibile offrire. In qualche modo, costretta a farlo. Milioni di morti con le divise ideologiche, con i contrassegni di diversi colori a marchiare le vittime: politica e morte trovarono un connubio che nessun machiavellico aveva mai teorizzato in sì sproporzionate misure. D’ora in poi, dopo aver letto l’inganno ottico di Curtius, tutte le cautele sono legittime. E infatti da mezzo secolo in qua sono state ripetutamente avanzate. Sogghigna il negatore del semplicismo progressista, sa che i richiami dell’inumano son sempre più forti di ogni ragionamento. Ma il quadro tracciato dall’attento filologo non era un vaneggiamento fantasioso, più probabilmente si confuse soltanto la prova generale con la ‘prima’.

Nonostante tutto, «revisionista» è un bell’attributo.   

UN RUMENO A PARIGI - È possibile mantenersi ‘buoni’ facendo i complici di Stati tirannici tanto efferati quanto quelli novecenteschi? Esistono complici in ‘buona fede’? che cos’è la buona fede in politica? Che ‘buono’ poteva mai venire da certe complicità con la Russia o con la Germania? Anche di simili cose parlava il giovane Cioran quando, esule rumeno disoccupato a Parigi, scriveva «a un amico lontano» rimasto dall’altra parte della cortina di ferro, parlando di «due tipi di società»: «la vostra parzialità nei confronti di quella dell’Occidente, di cui voi non distinguete con chiarezza i difetti, dipende da quella distanza: inganno ottico e nostalgia dell’inaccessibile. […] Che da lontano voi ne abbiate una visione mirabolante è del tutto naturale: dal momento  che io la conosco da vicino è mio dovere combattere le illusioni che potreste avere al suo riguardo. Non che mi dispiaccia del tutto – sapete il mio debole per l’orrido – ma il dispiego di insensibilità che essa esige per essere sopportata va al di là delle mie risorse di cinismo. Si può dire che le ingiustizie vi abbondano: per la verità è la quinta essenza dell’ingiustizia. Solo gli sfaccendati, i parassiti, gli esperti in turpitudine, i piccoli e grandi porci profittano dei beni che essa mette a disposizione dell’opulenza di cui si inorgoglisce; delizie e abbondanza di superficie. Sotto il brillante che mette in mostra si nasconde un mondo di desolazione di cui vi risparmio i dettagli. Senza l’intervento di un miracolo, come spiegare il fatto che non si riduca in polvere sotto i nostri occhi, e che non la facciano saltare in aria immediatamente? ‘La nostra non è migliore. Al contrario’, mi obietterete. Lo ammetto. È proprio questa la faccenda. Ci muoviamo davanti a due tipi di società intollerabili. E, quel che è grave, gli abusi della vostra permettono a questa di perseverare nei suoi, e di opporre assai efficacemente i propri orrori a quelli che si praticano da voi. La critica decisiva che si può muovere al vostro regime è di avere distrutto l’utopia […]. La borghesia ha compreso il vantaggio che ne poteva trarre contro gli avversari dello statu quo; il ‘miracolo’ che la salva, che la preserva da una distruzione immediata, è proprio lo scacco dell’altra parte, lo spettacolo di una grande idea sfigurata, il disinganno che ne è risultato e che, impadronendosi degli spiriti, finisce per paralizzarli». Il depresso con «il debole per l’orrido» spiega la ferocia del mondo. Intanto il suo interlocutore, l’«amico lontano», adesso ha un nome, era Costantin Noica, torturato nelle galere di Ceausescu e tradotto negli ultimi tempi anche in Italia. A leggere le pagine sulle sue prigioni, sulla brutalità da Ludus Dacicus, viene il dubbio che l’analisi di Cioran manchi di equilibrio. Ci si convince che il rumeno con «il debole per l’orrido» doveva restarsene in patria e magari finire nelle stanze di tortura del regime se voleva sperimentare qualcosa veramente forte invece di fare il turista a Parigi per godersi lo spettacolo dell’Apocalisse sui boulevards. Si resta pure meravigliati dell’attenzione per le utopie sfigurate che mai ci saremmo aspettata da un tipo che si rappresentò sempre come un bruto nichilista. Ma adesso che quegli staterelli sadici son venuti giù in presa diretta nessuno naturalmente si mette a fare confronti tra cinismo a Ovest e a Est. Solo gli sciocchi potevano pensare che dalle ceneri del comunismo sarebbe nato un mondo più buono. Non ricordavano come l’idealismo europeo fu travolto dalla conquista armata del pragmatismo democratico degli Stati Uniti vincitori. 

TECNICI - Nel secolo che ormai finisce quante persone si potevano incrociare in Europa che avevano maneggiato armi proprie e improprie, uccidendo «innocenti» o «colpevoli», uno solo o tanti, in imprese belliche non sempre ufficiali. Non soltanto i tecnici delle docce fatali. Anonimi omini, magari pensierosi, talvolta con la benedizione del pensiero dominante, talvolta maledetti dalle maggioranze. La retorica pubblica continuava a emettere sentenze che raggiungevano anche le coscienze.

SDOLCINATURE -  Negli ultimi decenni la Chiesa di Roma ha lasciato circolare l’idea che l’amore divino sia di grana terrena, ossia assai sentimentale. Contro il cattolicesimo potrebbe tornare l’accusa ricorrente di scivolare nel paganesimo: gli abitanti dell’Olimpo, si racconta, erano mossi da passioni erotiche e in qualche caso da innamoramenti pedestri. Ma i numi pagani conoscevano anche le crudeltà, gli inganni, le turpitudini. Il probo Dio cristiano viene ridotto a un essere esclusivamente sentimentale, con le smancerie del peggiore bigottismo, imagerie per pie popolane ottocentesche.  In confronto i salotti del pietismo mostravano almeno sentimenti più fieri. In quei circoli si fremeva di santo orgoglio, sopravviveva qualche lampo della ferocia luterana e ogni tanto si sfiorava il sublime. La leziosaggine di tanta teologia cattolica attuale è soltanto un magistero tardo romantico.

GALATEI - Per imporre un tabù è richiesta una energia religiosa che manca al liberalismo. Resta un divieto da manuale di buona creanza affinché non sia espressa in pubblico, come faccenda di gusto, la predilezione per una razza o per una nazione.

LAVORI SPORCHI - «Commercio, Musica Operistica, Cupido, Pubblicità, Manifatture, Libertà di Parola, Suffragio Universale, Gastronomia, Igiene Personale, Concerti Balneari, Parto Indolore, Astronomia per il Popolo», un florilegio dei valori democratici messa a punto dall’ebreo commerciante, pubblicitario, Leopold Bloom nell’Ulysses di Joyce. Bloom, sobriamente pravo, mostra i suoi talloni d’Achille nel masochismo e nel feticismo. La psicologia si è scarsamente occupata delle perversioni del democratico.

SUFFRAGIO ELETTORALE - Si lesse per la prima volta in chiesa la parola «suffragio», sulla cassetta delle elemosine: «in suffragio delle anime del Purgatorio». È perciò sempre risuonato come «sollievo per la società», una carità cristiana per soccorrere la società febbricitante, un aiuto per bloccare la paura che fonda la politica. Ma, per via delle anime dell’Aldilà, evoca anche una folla di fantasmi, la insondabile Opinione Pubblica che irrita e scandalizza gli amanti della concretezza.

NEL REGNO OSCURO - Chi non fu mai stregato dai bagliori della destra estrema? E chi resistette sempre alla commozione delle parole d’ordine di sinistra, almeno al loro suono, senza sondarne il senso? Nelle faccende politiche nulla è più inutile degli scongiuri. Sappiamo pure quanto le tentazioni sataniche – le passioni scriteriate, la violenza sottile, la facilità ludica, la carnalità grossolana – siano talvolta irresistibili. Se Heidegger e Jung hanno ceduto per qualche tempo alle seduzioni della ideologia tedesca del Terzo Reich, i più comuni mortali saranno maggiormente esposti alla politica demagogica. Ogni volta che qualcuno impreca contro lo stupidità delle folle che si lasciano ingannare dai tiranni, nasconde a se stesso quello strano erotismo che vibra nei movimenti di massa, nei loro gesti collettivi e pesanti. Tutti sanno per scontata confidenza con le passioni amorose come se ne possa finire stremati e istupiditi ripetute volte, guarirne e ricadere innamorati, dal momento che «il cuore ha le sue ragione che la ragione non conosce», secondo quanto recita Pascal. Il naso di Cleopatra non appartiene alla Bellezza né alle cose ragionevoli, eppure è noto che travolse la storia come tanti nasini alla parigina non riuscirono mai. Anche il più severo democratico non può negarsi una discesa nel «regno oscuro», una immersione nello ctonio, a osservare la parte nascosta della società, a indovinare i capricci plebei, a conoscere le pulsioni malsane degli elettori. Chi si mette ai voti non può distinguere tra sani e malati, tra colti e ignoranti, tra geni e ottusi. Al contrario del sistema aristocratico che delega il comando ai valorosi, ai puri, ai sani, ai virtuosi che sanno resistere a ogni tentazione ed esercitano con spirito superiore la sovranità, senza badare ai propri interessi, senza vili egoismi. Ma dal momento che la democrazia liberale esalta l’egoismo del mercato, l’armonia che paradossalmente ne scaturisce, perché ci si deve immaginare i politici di quel mercato, gli arconti che lo sovraintendono, estranei al vigoroso egoismo che lo ispira, insensibili alla corruzione del denaro?

LA PAROLA-CHIAVE  - «Complesso» è l’aggettivo dietro il quale si nascondono tutti gli apologeti dell’attuale sistema occidentale che non vogliono affrontare i drammi contemporanei. Fate domande su argomenti delicati, sfiorate i tabù sui quali si regge la democrazia, le contraddizioni angosciose, e il paladino di turno vi risponderà che «la questione è più complessa». Non si può semplificare, non si può attingere alla semplicità evangelica del «sì sì, no no». Ma va allora detto che la complessità del regno di questo mondo di oggi non si riduce neppure agli schemi marxisti, a quelli keynesiani, insomma alle teorie di un tempo che ancora potevano essere tradotte nella divulgazione per il popolo. Il quale, più estraneo che mai a quanto scorre davanti ai suoi occhi, ai paesaggi storici stravolti, al tempo e spazio modificati, ai corpi nuovi perfino e alla biologia che li racconta,  nonostante l’istruzione di massa e le lauree e l’acculturazione perenne, costruisce  proprio con i vecchi strumenti appresi (e con una insolita arroganza per via degli studi fatti) dei modelli arcaici, una rozza fede nel bene e nel male, l’idea fissa di contare senza remore il denaro altrui, il culto dell’invidia sociale, senza più rispetto per il mistero che ancora ieri circondava il potere e che evitava ai sudditi la spiacevole (e falsa) sensazione d’essere costantemente derubati.    

COMPROMESSO STORICO CON I DÈMONI - Lontano dalle polemiche contingenti e avendo visto i risultati nel lungo periodo, l’impresa di Konrad Adenauer nella Germania del dopoguerra appare degna di rispetto. Non solo e non tanto per la ricostruzione di un paese vinto e raso al suolo – anche il regime precedente aveva realizzato opere titaniche in questo campo –, quanto per essere riuscita ad abbassare la febbre dopo la catastrofe. Arduo in un paese che subiva la sua seconda sconfitta storica in pochi anni, perdendo ogni residua speranza ma coltivando per forza di cose odi, rancori e lutti. Adunare una folla di furiosi e modularla in una politica paziente nonostante una parte della patria fosse ancora più marcatamente schiacciata dai vincitori e occupanti in armi, nonostante quel pezzo di Germania fosse separato e circondato da frontiere che apparivano muri di prigione con tanto di filo spinato e torrette di guardia; evitare sommovimenti suicidi e mantenere una dignità nazionale con i vincitori che volevano anche impartire lezioni di etica, fu un’opera virtuosa. Nel 1945 non c’era stata nessuna conversione e neppure quelle furibonde fiammate insurrezionali per i morti i bombardamenti e la fame che si ebbero nelle città del Nord d’Italia. Sgomenti davanti alla autoeliminazione dei capi, restavano fedeli alla Germania; spararono fino all’ultimo colpo nei villaggi dove entravano i carri armati nemici. Non ebbero la disinvoltura degli italiani che, addossate le colpe ai duci idolatrati fino a poco prima, si tolsero le divise brune e con abiti o stracci primaverili corsero incontro festanti alle truppe anglo-americane che chiamavano confidenzialmente gli Alleati. E a Ovest della Germania non ci fu neppure il rito ipocrita che nella Deutsche Demokratische Republik segnava in nome di Fichte, prontamente aggregato al socialismo moderno, la purificazione del passato. Fu però imposta alla Repubblica di Adenauer l’altrettanto ipocrita «denazistificazione», i corsi serali di democrazia, inutili come le prediche forzate agli ebrei nel ghetto di Roma sotto i papi, e come quelle soltanto umilianti. Senza palingenesi vere, dunque, Adenauer si sobbarcò il lavoro sporco che i socialdemocratici si potettero risparmiare, traghettò milioni di seguaci dei dèmoni nel nuovo mondo. Molte voci stigmatizzarono il fatto che questo nuovo mondo avesse i caratteri della potenza d’oltreoceano vincitrice della guerra. La diversità europea, d’altronde, era stata rasa al suolo in quei pochi ma terribili anni di combattimento. Il vecchio cancelliere riuscì a impedire la rinascita di un partito di rancorosi. Evitò pure di favorire élites già scremate, già «dalla parte giusta», attingendo invece nel fangoso impasto di masse inarticolate e costrette a essere  silenziose dalle disposizioni della «resa incondizionata» (proibito parlare pubblicamente di quello che era successo, censurati anche i libri dei poeti, quelli di Benn per esempio). In questa zona della sanguinaria vecchia Europa il ruolo dei partiti era comunque diverso dalle macchine elettorali americane, negli Stati Uniti non si contrapponevano il partito rivoluzionario e quello conservatore, il partito cristiano e quello laico…

ATTESE - La «sinistra» italiana si considera tra i vincitori anche senza aver vinto mai una competizione elettorale. È un destino, un vento del progresso che spinge da quella parte. Tentano la scalata da circa un secolo, con immense aspettative, che renderebbero deludente qualsiasi governo.

LINGUA RIEDUCATA - Il 1945 appare uno spartiacque anche per certe parole. È provvisoriamente sospesa l’aggressività verbale, compreso il tono aristocratico con il suo seguito di altezzosità. Chi cambiava la divisa o chi tornava da Mosca si adattava al nuovo linguaggio, sostenendo talvolta di averlo già parlato in passato, sia pure in codice. Ma c’era chi riteneva di subire adesso una censura metafisica e non parlò quasi più. Ezra Pound fu l’icona di questi uomini silenti. Scrisse tuttavia ancora cose notevoli che resistettero alla rieducazione imperante. Molti altri si mostravano miti, avviavano un ciclo cortese. Non mancò chi spendeva parole di circostanza per le vittime. Gli scrittori comunque non videro passare indenne la lingua da questa frontiera temporale. Cominciarono molti eufemismi su su fino alle attuali misericordiose circonlocuzioni per ogni malformazione fisica, spirituale e sociale. Finisce qui l’interminabile età della Tracotanza, ultima pratica dell’Ancien Régime sopravvissuto per due secoli al suo crollo. Non c’è più dispregio per persone, categorie, classi sociali, nazioni, razze. Un filosofo hegeliano moderato e avversario della reazione argomentava la sua estetica, ancora nel pieno Ottocento, esprimendosi così: «il cretino è ancora più brutto del negro perché alla deformità della figura aggiunge l’ottusità dell’intelligenza» (Karl Rosenkranz). Non diverso era il tono dell’agitprop comunista nei confronti del borghese, insulti che ustionavano, con condimento di minacce fisiche. Si era visto Lombroso marchiare le «facce da delinquente», la signora umiliare i servitori, Thomas Mann attaccare il cancelliere croceuncinato ricorrendo allo scherno del nobiluomo stizzito dal plebeo: «affetto dall’isteria del dégénéré inférieur», era la diagnosi. Se si considera che, negli anni precedenti la guerra, alla antica tradizione boriosa si era aggiunta una scuola attiva di violenza verbale, una campagna pubblicitaria per accumulare disprezzo su alcuni, va rilevato che il passaggio d’epoca fu impressionante, nessuno da allora in poi osò più dire in pubblico «degenerato inferiore». La catastrofe era stata così vertiginosa che ai più parve opportuno smetterla anche con le affermazioni guascone. Una espiazione all’insegna della discrezione. Che scivolò nell’èra mediocre.

FORTUNE - La ricchezza è meno effimera di un tempo, diciamo dell’Ottocento. Arriva magari in una generazione, quindi in genere con maggiore rapidità, e difficilmente sparisce con altrettanta prontezza. Tende casomai a consolidarsi. Le disastrose rovine, i fallimenti che puntellavano le trame dei romanzi, sono stati smussati da un liberalismo più moderato. Il cinismo del libero mercato pare atterrire anche i suoi assertori. Il trionfo del liberalismo appartiene ormai al XIX secolo.  Allora, imprenditori e finanzieri stavano al gioco, esposti alle minacciose conseguenze della potentissima roulette, mettevano in conto il tonfo del fallimento, proprio come era nel conto la morte, sempre lunatica. Nei romanzi balzachiani ci sono le devastazioni del mercato, i suoi capricci, che si accompagnano a quelli della morte e dell’amore. In seguito, forme di socialismo compromesso hanno corrotto questi eroi schierati al simbolico tavolo verde. Passati gli eroi che osavano sfidare la spietatezze delle libere avventure del denaro, che combattevano la guerra infinita della concorrenza, adesso ci si accontenta e si cercano pubbliche protezioni contro l’imprevedibilità della Fortuna.

LA DEA MODERATA - Nelle Eumenidi di Eschilo, parte finale dell’Orestea, Apollo sopraggiunto al tribunale popolare appena istituito da Atena pronuncia questa battuta illuminante: «I ceppi c’è chi li slaccia, c’è sempre mezzo di porre rimedio, di sciogliere». Contro la fatalità monarchica, contro i responsi arcaici scritti nella pietra, la fluidità del potere del demos, mercuriale. Successivamente, un’Atena con l’acutezza brillante di una dama settecentesca, elogia la moderazione: «Né senza una guida, né sotto un tiranno: questo, o cittadini, lo Stato che vi consiglio. Coltivatelo gelosi. Non abolite del tutto la paura dalla vostra cerchia. Chi al mondo si mantiene probo se non l’invade la paura?». Nel momento in cui la dea stabilisce una nuova giurisprudenza e nuove istituzioni, mentre stringe un accordo con Peitho, divinità della persuasione, del consenso, per fare accettare i cambiamenti alla città, proprio in quel mentre viene evocata la paura. Millenni prima di Hobbes è intorno a questo sentimento che si fondano gli accordi politici. Atena lo rivela spregiudicatamente, anzi consiglia il buon uso della paura come farà Jung con i suoi accoliti. Paura perché si sta distruggendo un pezzo di tradizione. Cambiano le leggi, le abitudini, la morale, e ci si sente tutti un po’ sacrileghi. Atena prende parte al giudizio e si esprime a favore di Oreste e, grazie alla parità di voti favorevoli e contrari, l’imputato può essere assolto. Prevale il nuovo diritto, la decisione – la conta dei voti – in luogo della verità. Al ‘giudizio di Dio’ che consacra il verdetto ecco invece un conteggio di voti, un trucco metodico per impedire un ulteriore spargimento di violenza. La sentenza del tribunale però non annulla quella delle Erinni, il coro fosco dei rimorsi, dei motivi morali. La verità politica, la decisione pubblica,  non va confusa con gli scrupoli, con i fantasmi delle angosce, i dolori dei pentimenti, la «segreta plebaglia dei dèmoni», come la chiama Omero.

LE IMPERFEZIONI DEMOCRATICHE - Gli apologeti del sistema democratico avrebbero potuto, a metà Novecento, argomentare così: il nostro lavoro consiste nel condurre i barbari in città. Allora, nelle città imbarbarite, si perderanno le belle forme e nel caos – non più rappresentabile dal partito unico come avviene per un elettorato armonico – si annunceranno dissonanze, morbi, deformità, leghe minacciose. È il kantiano «male necessario». Il semplicismo dei rivoluzionari, proprio della civiltà antica, pretendeva rovesciare, mettere a testa in giù, la società minata da una qualche corruzione, per bonificarla e riedificarla al contrario. Un uso impropriamente politico dell’avvertimento evangelico «gli ultimi saranno i primi». Il laborioso processo avviato dai moderati si accontenta di squilibrare e di riequilibrare su una enorme bilancia impersonale, al posto di un rapido intervento chirurgico. La democrazia si vuole sempre imperfetta, all’opposto della società immaginata dai filosofi. L’apologia di uno strumento che non funziona pienamente, in opposizione a un perfetto strumento cruento, è una buona allegoria di questo sistema. Lo illustra con gran gusto del paradosso lo scrittore cattolico Gilbert Keith Chesterton nella sua raccolta di piccoli saggi sul tema del «bello del brutto». Dove si legge una difesa del «coltello che taglia male»: «un coltello non è mai cattivo se non in rare occasioni, per esempio quando viene piantato con destrezza e precisione nel bel mezzo della schiena di qualcuno. Il coltello più scadente e meno affilato che abbia mai fatto a pezzi una matita, invece di appuntirla, è una cosa buona in quanto coltello». Da qui la scarsa avvenenza compensata dall’efficacia nei momenti di inclusione sociale al trapasso di epoca. Resta il fatto che in caso di legittima difesa c’è bisogno di un coltello che tagli e offenda per non rischiare il peccato di inefficienza nei momenti della città in pericolo.

Si impara a scuola che la rappresentazione comica è connaturata alla classe media. La democrazia, come il borghese, l’homo oeconomicus, rischia spesso il ridicolo.

VIRTÙ DELLA FRODE - Impensabile nel Medioevo cavalleresco il seguente insegnamento che, alle origini del mondo moderno, ci impartisce lo scandaloso Hobbes: «La forza e la frode sono, nello stato di guerra, due virtù cardinali». In contrapposizione all’aristocratico «onore», il filosofo inglese apre la schiera dei nuovi filosofi politici, senza tradizione, senza nobiltà d’origine. Onore è virtù da soldato, sostiene Hobbes, e solo una società a misura di soldato, una società militarizzata, può essere fondata sull’onore. Quella degli uomini qualunque, che si costituisce proprio per evitare la guerra, dunque incapace di esercitare l’arte delle armi, si impadronisce invece dell’arte della politica, che sa come l’uomo civile, in mancanza della protezione militare, fugge nel momento del pericolo. Il mondo borghese perciò si costituirebbe, secondo Hobbes, per evitare i momenti di pericolo, per rendere il senso dell’onore completamente inutile. Inquietante questo «onore» agitato adesso dalle plebi italiche che mai ne ebbero uno e inquietante la questione morale glorificata in un tempo senza più morale.

PREISTORIA UMANA – Schopenhauer, non il materialista di Treviri, in un dialogo sulla religione: «Ognuno ammetterà che una razza la quale, secondo le indicazioni concordi di tutti i dati fisici e storici, non conta finora più di cento volte la vita di un uomo di sessant’anni, si trova ancora nella sua infanzia». Se il laicismo – come si è rivelato nell’ultimo secolo – è il surrogato della religione, allora si tratta, come tutti i succedanei, di roba economica, prodotti poveri per epoche povere.

ANALOGIE  - I rari dissidenti nella Germania in guerra, quei conservatori irritati per l’aspetto plebeo che aveva preso l’ex armata prussiana, ne descrivevano i caratteri infernali attribuendone la causa al demos imperante. Chissà se qualcuno di questi signori si era imbattuto nel passo di uno scritto di Max Weber, che risaliva all’indomani del primo conflitto mondiale ma trattava dell’Atene classica: «Al tempo della democrazia […] la guerra, che poteva sovvertire tutte le posizioni economiche dei proprietari, era un fenomeno cronico e si intensificò fino ad assumere un carattere di estrema brutalità in contrasto con la condotta delle guerre combattute dai cavalieri […]. Ogni battaglia vinta aveva quasi sempre per conseguenza il massacro di tutti i prigionieri: ogni conquista di città significava la morte e la schiavitù di tutti i suoi abitanti». Demos e guerra totale, impressionante binomio su cui meditò l’allievo cattolico di Weber, il Carl Schmitt per il quale i più retrogradi e spietati mezzi saranno sempre bene accetti pur di evitare l’abominio della guerra totale. Inorridirebbe a sentir parlare, come si fa oggi, di «guerra etica» o «guerra umanitaria», la più inumana impostazione di un conflitto, necessaria antesignana della guerra totale. Comunque, anche senza Weber, avevano tutti assistito alla Guerra mondiale che aveva partorito dal suo seno la Rivoluzione bolscevica, l’interminabile spietatezza  messa in campo per «cambiare il mondo».

TIRANNIE -  Ancora con la guida di Weber, a gettare uno sguardo nella violenta strategia delle masse che vogliono emanciparsi. Nell’antichità i diseredati attendevano l’affermazione del tiranno come i loro eredi sperano nella macchina burocratica rivoluzionaria. In ogni caso una medicina molto amara, un risvolto tragico che si è via via attenuato, corretto dall’ottimismo borghese, incipriato di progressismo. Un tempo pretendevano una sospensione della legge, una vendetta storica che comportava una ecatombe, l’annientamento del modo di vivere dell’avversario. La disperazione sociale si scontrava con l’agio borghese in un duello mortale. A Roma chi negava il diritto di voto per i liberti argomentava il suo rifiuto agitando il pericolo che dal suffragio dei parvenus uscisse una tirannide. Nel nostro secolo le due massime tirannie occidentali hanno conquistato il favore popolare e la maggioranza elettorale. A un certo punto la timocrazia pareva il destino d’Europa. La «bourgeoisie plebea» è una categoria weberiana per i liberti a Roma. Calza meravigliosamente alla borghesia di fine millennio, del secondo millennio dell’èra cristiana.

CONTROTEMPI - Il contrasto tra la frenesia del tempo effimero della rivolta e quello lento, troppo lento per i giovani, della politica realista. Ovvero, i giorni concitati per la follia della sommossa e quelli disperati della infinita ripetizione.

DUBBI - Nonostante lo sciupio attuale di lodi per il dubbio, i dogmi hanno resistito, soprattutto quelli infondati. La glorificazione dell’incertezza è uno dei manierismi contemporanei.

IN UNA VITA - Hans Blumenberg, mentre dispiega intorno alla bachiana Passione secondo Matteo un virtuosistico apparato di digressioni teologiche, erudizione biblistica, filosofia del Novecento, che fa da basso continuo alla singolare composizione dove il cielo di una liturgia luterana, di una liturgia privata, e la terra dell’arte umana si incrociano – si lascia scappare questa frase: «Fintanto che gli uomini avranno soltanto una vita da vivere, essi saranno inclini a credere che proprio nella loro vita debba realizzarsi ciò che ha significato e che cambia il mondo. Il potenziale di attesa è perciò sempre grande abbastanza […] per apocalissi di ogni sorta». Soprattutto da giovani, va aggiunto. Poi ci si concede una dilazione: se non è dato loro di scorgere l’alba del nuovo, certamente toccherà ai figli un simile privilegio. È la speranza più pura. Spesso confortata dai segni di immense trasformazioni che scandiscono il corso delle generazioni. Ma i fedeli di moltissime sette (quelle politiche comprese) hanno percepito la realizzazione di tali mutamenti come qualcosa di drammatico, di apocalittico appunto: «il mondo ha perduto la giovinezza, i secoli stanno diventando vecchi», si legge in una Apocalisse apocrifa. Un futuro slegato da ogni continuità stringe il cuore. Un futuro segnato da un duello cosmico e definitivo potrà pure inorgoglire ma getterà chiunque nel panico. I figli del XX secolo hanno vissuto con questo doppio sentimento: orgoglio luciferino (o prometeico) e terrore angoscioso. Quando in età matura perdono quella illusione di una esperienza esclusiva riscoprono gioie domestiche. In luogo delle macerie rivoluzionarie, si ristabilisce un orizzonte lontano che spegne l’angoscia, un paesaggio rigoglioso di dettagli, da decifrare pacatamente, una prospettiva graduata all’infinito, dove perdersi.

BACI - Aveva ragione l’architetto dell’Effimero nella Città Eterna quando la sera movimentata in cui cambiarono i connotati al suo partito diceva al telefono: «era meglio che avesse cambiato nome quando fu costruito il Muro di Berlino, non adesso che lo abbattono…». Si difendevano i truccatori del vecchio comunismo: «bisognava salvare il buon nome, l’onore di milioni di persone oneste che lo avevano votato». Già, in Italia i fiancheggiatori del bolscevismo erano per definizione «bonari», rischiavano però di essere travolti dai russi «cattivi» che stavolta si arrendevano alla realtà. Qualche perplessità fu avanzata sulla operazione in genere e, in particolare, sulla liquidazione gestita dai capi. Non si era più al 1956. Allora, di fronte agli atroci rapporti provenienti da Mosca che smentivano mezzo secolo della sua propaganda, i rossi condottieri, sempre colti e sprezzanti, dichiararono con innocenza da scolaretti «noi non sapevamo». Adesso la sterminata bibliografia sull’argomento che non ha aperto loro gli occhi può precipitare su quelle teste e così punirli per essersi mostrati a braccetto con dei mostri, per avere baciato sulla bocca Breznev. Non fosse che per quello, andavano epurati.

BANDIERE - Il crollo dell’Ottantanove ha lasciato sul campo due specie di vinti. Quelli che hanno fatto fronte al cambiamento di rotta e agli eventuali castighi per le scelleratezze compiute, subito indossando una diversa livrea o abbandonandosi ai rimorsi, fuori dalla scena pubblica; e quelli che, complici dei misfatti ‘orientali’, nel resto d’Europa, con dei distinguo e dei dissensi ma dalla stessa parte, finsero di non essere chiamati in causa. Non afferrarono che un unico destino li trascinava all’Inferno. Idea di Ghino (nobile e bandito), un vessillo rosso fu invece esposto alle finestre di un palazzo romano nelle stesse ore in cui sulle torri del Cremlino le vecchie bandiere venivano ammainate. Pareva rappresentare un eccentrico epilogo – fuori dal suo centro vitale, nella capitale cattolica, dunque nella estrema periferia del mondo industriale – alla maggiore epica dei tempi moderni. Non conteneva nessuna solidarietà bolscevica quella bandierina che in pochi notarono, annunciava soltanto che la campana a morto per il socialismo dell’Est suonava anche per quello dell’Ovest. Noi non fummo i cani da guardia dei patti di Jalta – pareva ricordare come una lapide su una tomba – ma ci aspetta la medesima sorte. Una sconfitta di tal fatta comportava la catastrofe per tutti coloro che avevano agitato qualcosa di rosso.

Chi si richiama alla Rivoluzione ormai (anno 1995) lo fa più che altro per un atteggiamento dello spirito, senza sentirsi per questo un funzionario politico, un «rivoluzionario di professione» come si diceva un tempo. Generico disprezzo per il punto di vista conservatore e generica predilezione per il tempo nuovo, costante Ereignis, l’evento heideggeriano, mescolato all’ottimismo insufflato dalla réclame  consumista.
  
LO STATO ESTINTO - Contrappasso alla statolatria tedesca. L’unico paese occidentale che ha visto per  ben due volte a distanza di pochi decenni scomparire lo Stato in virtù di un decreto è stata la Germania. Non soltanto infatti la DDR – ossia la vecchia Prussia e i suoi dintorni restaurata dai carri armati di Mosca e abbattuta nel 1989 –, già nel 1947 una ordinanza dei vincitori stabiliva: «Lo Stato prussiano è sciolto con tutto il suo governo e le sue strutture amministrative».

PURGATORI - I cristiani in tutte le sfumature protestanti e perfino una parte dei cattolici considerarono le aberrazioni del socialismo incarnato in Russia come dei peccati veniali rispetto a quelli che si commettevano nella dovizia occidentale. Dal momento che l’opulenza era annoverata tra i frutti satanici, quelle società miserrime e puritane, incatenate alla purezza del quanto basta, risultavano un esperimento «interessante». Non mancarono le critiche alle «offese alla dignità umana», linguaggio curiale per dire di campi di lavoro forzato e di corpi seviziati in stanze nascoste, ma la sostanza era accettabile, ammirevole l’ascesi sociale senza Dio. Di questo dettaglio non si diedero pena, non sembrava pensassero che a quei derelitti avevano tolto anche il premio celeste.

PATRIE - Una volta tanto la parola d’ordine da gridare nelle piazze conteneva un fondo di verosimiglianza soprattutto se coniugato al passato: «Il proletariato non ha nazione…». Non aveva infatti case resistenti al tempo, dimore amate, tombe di famiglia, un passato dolce da custodire e talvolta da rimpiangere, ricordi di nonni imperiosi, di campagne dorate e indolenti, di infanzie vanitose, di antichi sogni. I suoi eredi, tra qualche decennio, per difendere l’onore di villette senza storia scopriranno forse una forma di nazionalismo spurio nelle battaglie con gli africani sbarcati da poco.
(2. - continua)