martedì 1 settembre 2015

Padri e figli


~ LA FINE DEGLI EROICI FURORI
E LA PIETAS DELLA RESTAURAZIONE ~
~  «Il ‘900», V PUNTATA ~

Diari lontani (1989-1995) per cercare il bandolo del secolo scorso. Le puntate precedenti qui qui qui e qui.

Soltanto forme di darwinismo scatenato permettevano simili espressioni: «Alla nazione [tedesca] farebbe bene un ricambio di sangue, una rivolta dei figli contro i padri, una sostituzione della gioventù alla vecchiaia» (Moeller van der Bruck nel 1909). Le battute sguaiate della goliardia eterna diventavano parole d’ordine politiche.

PARIGI - Al rovesciamento dei valori predicato dai tedeschi si affiancò la trasmigrazione dei valori, di cui si incaricarono soprattutto i francesi: lo scacco matto della antropologia levistraussiana al Re europeo, l’arte africana innalzata nel vuoto spinto di quella europea (e il presidente Senghor assicurava che le raffigurazioni negre sono meno naturalistiche di quelle di Bisanzio).

PONTI - Epoca di transizione? Si vorrebbe un esempio preciso di un secolo che non fu tale. Anche il periodo che durò più a lungo fu chiamato Medio Evo, età di mezzo, che sfocia nel Moderno.

PATRIE - Per secoli l’ordine esigeva che i contadini restassero inchiodati alla terra di padre in figlio, che i popoli – per l’«istinto di patria» – fossero attaccati al suolo che calpestavano, anche quando questo si presentava ingrato, gelato o desertico. Ma nella staticità universale, un popolo di miseri correva di qua e di là esprimendo un appassionato patriottismo lontano dalla terra di origine dove «scorre latte e miele». Senza più suolo natìo, da secoli e secoli, sparsi e sempre pronti ad adottare nuove città, gli ebrei della diaspora rappresentarono un modello di patriottismo ‘internazionale’ ma senza l’astrattezza dell’internazionalismo.

RIVALITÀ - Nelle situazioni estreme, quando si è annichiliti dal terrore della morte, cala la propensione ai bei gesti, alla generosità, alla cavalleria. Al loro posto, egoismi sordidi. Di fronte a un pericolo mortale si è spesso rivali. Coloro che, incalzati da una perenne emergenza, ritennero di «non potere essere gentili», diedero vita alla più spietata concorrenza tra loro. Pensando di combattere una battaglia decisiva per salvare o dannare il mondo, trovarono il nemico sempre al loro fianco.

FEDI - Nelle convulsioni del Novecento non si ebbero soltanto gli Heidegger  e gli Jung che prestarono fede, sia pure per poco tempo, nelle speranze del Terzo Reich, si contarono anche, e a centinaia, artisti e pensatori, gente delicata dunque, che si entusiasmarono in Occidente per il dittatore georgiano. Si ebbe perfino l’omaggio dadà al Cremlino. E Tristan Tzara se ne andò in Spagna a sterminare gli anarchici.

DOPO LA TEMPESTA - Nel 1929, soprattutto in Francia, si parlava di «fine del dopoguerra», quindi a un decennio circa di distanza dalla data fatale che tirava fuori dalle trincee milioni di uomini. Per trovare la ‘fine’ del secondo dopoguerra, quello apertosi nel 1945, bisogna attendere il 1989, quasi mezzo secolo. Non a caso quel tempo interminabile fu chiamato della Guerra fredda. La Guerra dei cinquant’anni.    

LA PAROLA DISPREZZATA - Gli eroici furori della gioventù si sono scatenati da circa due secoli contro la Restaurazione. Eppure bisognerà un giorno riconoscere la dolcezza della vita dopo il 1815, quando in Francia si tentò di costruire un sistema politico all’inglese, un moderatismo sofferto ma virtuoso, dopo gli eccitati giorni giacobini, quando la violenza del patibolo marcava la quotidianità politica, o dopo i giorni napoleonici che sconvolgevano le frontiere europee, con le trasferte belliche in mezzo mondo e scie di sangue come fiumi. Assolutismo della ghigliottina e assolutismo dell’imperatore: esteticamente impareggiabili diranno i patiti romantici del dramma, epoche rimpiante dagli Stendhal che si trovano disorientati da una stagione meno sanguigna. Si sa, i giudizi storici si fanno distrarre da quelli estetici e in genere si preferisce il sangue e i terremoti alla quiete lunga e grigia. Ma la Restaurazione non fu affatto grigia. Prese le tinte solenni delle vecchie monarchie, della tradizione, e quelle pastello della leggerezza dopo tanti lutti. Si obietterà che la bassezza morale dei trasformisti, dei traditori della loro gioventù, gli arricchimenti sospetti, il disonore e l’ipocrisia non possono rappresentare un modello. Va stabilito che cosa ci si aspetta dalla politica. Un sistema per garantire al meglio la vita oppure travolgimenti infiniti per inseguire la giustizia umana. Oggi a chi riprende le vecchie critiche – il bel vivere di alcuni sulla vita da cani della maggioranza – si può replicare che anche solo i riflessi di quell’edonismo che sfiorano i più sfortunati scoraggiano chiunque a giocare alla roulette russa degli estremismi. Il «muoia Sansone con tutti i filistei» ha prodotto il furbo scampo dei filistei e l’ecatombe dei Sansoni grossolani.

Restaurare è un’azione di pietas, un atto di guarigione, un segnale di riappacificazione, una spada che rientra nel fodero e mette fine alle distruzioni. Restaurare significa ritrovare la vita, la soavità soffusa della vita, dello scambio umano, delle ragioni degli altri. Se il XX secolo è stato il più lungo periodo rivoluzionario della storia moderna (chissà nelle ère geologiche), il luogo della guerra totale che poteva concludersi soltanto con la distruzione totale – e la ‘distensione’ degli anni Sessanta era considerata una tregua provvisoria per sferrare l’attacco finale –, se il terrore ha dominato l’epoca in attesa dell’annientamento del nemico, soltanto una rivalutata Restaurazione servirà da metafora per evitare il ripetersi dell’alternanza nuovo/vecchio, per impedire l’abrasione del passato.

Con l’abbattimento dell’aristocrazia e dei suoi privilegi nell’’89 si tolsero i diritti al Tempo, la durata non ebbe più valore, e la memoria, privata dei suoi privilegi, fu vuoto fantasticare. Le lamentele sull’attuale «eterno presente» trascurano il fatto che tale ossimoro nasce dallo spirito della Rivoluzione francese, quando si afferma il tempo come denaro, il tempo che va subito cambiato con denaro contante, in luogo dell’invecchiamento come diritto acquisito. Impoveriti tragicamente del passato (e del futuro), non è possibile rimediare acquistando dagli antiquari vecchi idoli. Anche se gli antiquari proliferarono proprio durante la Restaurazione per alleviare chi era stato privato del bello del passato.

Le frenesie giovanili quando il tempo non passa mai impongono brusche accelerazioni, giochi violenti con un passato sempre estraneo, presa di distanza dagli anni più familiari per emanciparsi dalla puerilità. Quando però il tempo comincerà a correre davvero – e invano si cercherà il misterioso ritmo sospeso dell’infanzia –, sarà una autentica ipocrisia unirsi al coro giovanile dei rivoluzionari, il coro che spasima per interrompere la storia, e sarà stoltezza fingere di credere all’amnesia come soluzione, ai tourniqués magniloquenti per ingannare la fine sempre troppo improvvisa di ogni vita. Fuori dal giovanilismo per partito preso non è difficile coltivare un tempo lento, guaritore e consolatore, voltando le spalle a un tempo personificato nel giustiziere con la falce in mano che si sovrappone alla immagine della morte. Graduale, sensualmente pigro, ricco di passato che conserva come un patrimonio, ricco di futuro che come ogni possidente riesce a intravedere al suo orizzonte, e anche a goderne, nonostante vi sia ospitata la morte, ecco il tempo della Restaurazione.      

AUTOBIOGRAFICO - Forse le generazioni nate a ridosso della guerra scelsero la Rivoluzione perché di fronte a un passato troppo fradicio di sangue per essere decifrato, interpretato e trasformato preferirono rifiutarlo in blocco: meglio confidare nel Nuovo. Difficile per i primi giovani dell’èra consumista riuscire a stabilire una qualche forma di convivenza con figure imbarazzanti quali la Povertà e la Morte; più semplice respingerle nel vecchio mondo da far tramontare in fretta e definitivamente. Un tempo non tanto remoto si chiamò comunismo la magia che avrebbe allontanato dalla storia i mali antichi. Più tardi svanirono i contenuti, rimase soltanto la forma che seppelliva il passato, che trasmutava le cose. Qualcuno la confuse liricamente con un ciclico rinnovamento della vita comunitaria.

Ai giovani, nuovi avventori del banchetto opulento come mai nella storia, la società offrì uno spazio sproporzionato, e per qualche tempo si visse disorientati la demolizione del mondo di ieri: dall’arte ai mestieri, dalle abitudini al galateo.

CORRUZIONE - Peccato capitale di questi giorni (primi anni Novanta): il corrotto è colui che si lascia comprare. Ci si mette in vendita sul mercato dove fiorisce la domanda, si mette in vendita anima, corpo e segreti d’ufficio. Hanno introiettato lo spirito del mercato, facendosi merce tra le merci.

KEYNES PROFETA - Nel 1931, Lord Keynes seppelliva «i vecchi pregiudizi», faceva piazza pulita dei«principi metafisici o generali sui quali si è voluto fondare di tanto in tanto il laissez-faire». «Di tanto in tanto» però essi ritornano all’orizzonte e si prendono gioco delle teorie keynesiane. A rileggere le sue «profezie», sembra irrealizzata proprio quella a cui mostra di tenere di più. Scriveva infatti nel 1931: «Il mondo occidentale dispone già delle risorse, ove sapesse creare l’organizzazione per utilizzarle, capaci di relegare in una posizione di  secondaria importanza il ‘problema economico’ che assorbe oggi le nostre energie morali e materiali». Il fine secolo presenta lo spettacolo di un mondo incantato esclusivamente dai meccanismi economici. Idee, arte, vita intima, tutto pare dipendere dai movimenti della Borsa. Per la prima volta anche i bambini seguono come una gara sportiva lo slalom della moneta. Se i magnati della finanza seppero unire l’intuito per le speculazioni con quello per i capolavori pittorici (o quantomeno per individuare gli esperti-consiglieri da tenere alla propria tavola), gli azionisti di massa sembrano dedicarsi soltanto alla lettura dei listini e ai suggerimenti dei giornali specializzati. I manuali sostituiscono il genio (nel senso del talento). Mai il mondo si è piegato così completamente alle esigenze delle «necessità economiche». Non c’è ideologia, movimento politico, movimento culturale che si sottragga a loro. Perfino l’arte, o quello che attualmente passa per tale, gode della piena integrazione nell’universo delle merci virtuali. Keynes però precisava che le sue profezie avevano un carattere politico: «Se, infatti, persistiamo nell’operare coerentemente secondo un’ipotesi ottimistica, questa ipotesi tenderà a realizzarsi: mentre, operando secondo ipotesi pessimistiche, rischiamo di chiuderci per sempre nel pozzo del bisogno». Adesso che da tutto il pianeta si levano le lamentazioni per la compatibilità mentre regna il pessimismo, l’ora ansiosa dell’emergenza, anche le promesse dell’economista britannico vengono fatte passare per fanfaluche.

Meno profetica ma estremamente saggia una sua considerazione del 1929: «I problemi storici dei partiti del XIX secolo sono ormai morti». E da noi non sono pochi coloro che a quei partiti e a quei programmi si richiamano con protervia.

GIUSTI NASCOSTI - Escono rivelazioni, soprattutto dagli archivi segreti dell’ex Stato sovietico, di stragi compiute dalla «parte giusta» nell’ultima guerra mondiale. Milioni di vittime silenziose per mezzo secolo, prive di requiem, di libri, di film, di musei, soltanto perché colpite dai vincitori. Quanti carnefici soffrirono di questi delitti senza neppure potersi difendere. E forse tra loro qualche ‘giusto nascosto’ che restò senza onore.

NOVECENTO - Ludwig Klages, nel 1903, a proposito di alcuni versi di George, ma il riverbero ideologico è ancora più suggestivo: «Con una veemenza mai vista da almeno un millennio, l’umanità europea era alla ricerca di una perduta patria dell’anima. Negli ultimi trent’anni la mèta si è sentita più vicina che mai. La brace logorante della nostalgia ardeva fino alla febbre, fino alla pazzia, e ardeva tanto più selvaggiamente, quanto più la vita delle masse e degli Stati si estingueva in una crudezza sempre più ottusa».

RITARDI - «Quel che avviene oggi in Italia è senza riscontro […]. Qui, da noi, il disagio morale è per ovunque diffuso […]. Nei lavori pubblici lo sperpero è così folle e vergognoso che in ogni città d’Italia abbiamo veduto sorgere all’improvviso colossali fortune…». Gabriele d’Annunzio nella campagna elettorale del 1900. Mezzo secolo di ritardo italiano rispetto alle improvvise e colossali fortune parigine narrate da Balzac. Lo squisito anacronismo del Belpaese.

ESTATE ’94 - Nell’agosto di duecento anni fa a Parigi infuria il Terrore. Guerra totale ai propri concittadini in nome della logica politica che si ispira all’etica. Corpi di donne e perfino di bambini rientrano nella geometria della giustizia, dunque è lecito farli a pezzi. Ma in genere il rigore scientifico e il senso pratico della ghigliottina evitano eccessi carnali e riportano il popolo al suo ruolo rituale di coro intorno all’altare, all’ara sacrificale drizzata nelle piazze francesi. La sensiblerie dei sovversivi che finora si è declinata sulla scala della indignazione cede il posto alla fermezza, si irrigidisce sui princìpi. I Lumi che avevano rischiarato il futuro scellerato dei regimi e il pozzo nero del potere adesso abbacinanano gli occhi delle vittime in un solenne interrogatorio pubblico. Alle loro orecchie giunge il brusio della condanna popolare, e forse fanno in tempo a sentire il forte sospiro di sollievo del pubblico sotto il palco al cadere della lama pesante. Soddisfazione sempre in nome dei princìpi.

ESTATE ’95  È passato un anno dal bicentenario del Terrore. Tempo sprecato per i cinici e per i bendisposti.

Post scriptum - Nei quaderni di appunti la citazione che riportiamo in fondo a queste righe non appare, anche se avrebbe potuto esserci, faceva in tempo. L’edizione inglese della raccolta infatti uscì nel 1995 e il testo in questione porta addirittura la data del 1988, proprio alla vigilia del Grande Crollo. È di un russo, il più amabile scrittore russo del XX secolo, un esule che parve sprezzare le vendette, le rivincite, le liberazioni e le stesse vicende della storia che pure lo avevano perseguitato fin da giovinetto e con spietatezza. Diceva ai suoi studenti in una università americana: «Cercate di non dare troppa importanza ai politici non tanto perché siano ottusi e disonesti […] ma a causa delle proporzioni del loro lavoro eccessivo anche per i migliori tra loro […]. Tutto ciò che possono fare, uomini o partiti, è, al massimo, diminuire i mali della società, non sradicarli». Il sottotono stupendo di Josif Brodskij corregge, attutisce, stempera le pagine precedenti che danno ancora un peso eccessivo a certe insulse azioni collettive degli umani. Ma la citazione che si vuole apporre è un’altra, ricavata da un discorso tenuto ai ragazzi dell’Università del Michigan. Dopo aver passato in rassegna in queste cinque puntate tanti cattivi maestri, tante teorie scarsamente logiche, forse lasciandoci turbare ancora a quei tempi dal cimiteriale archivio delle faziosità ideologiche, facciamo concludere al buonsenso di un poeta che dice intorno al ribellismo cose in totale controtendenza con il vocio rimbombante dei demagoghi (e non per moralismo bensì per spirito cavalleresco, per arte di tiratori scelti): «Ora, e nel tempo a venire, cercate di rispettare i vostri genitori. Se questo vi ricorda troppo fastidiosamente l’‘onora il padre e la madre’, pazienza. Quello che sto tentando di dire è di non ribellarvi ai genitori perché, con ogni probabilità, moriranno prima di voi e quindi potreste risparmiarvi almeno un senso di colpa, se non la causa del vostro dolore. Se dovete ribellarvi, ribellatevi a coloro che non è così facile ferire. I genitori sono un bersaglio troppo vicino (come pure, incidentalmente, le sorelle, i fratelli, le mogli o i mariti); la sfera d’azione è tale che non si può sbagliare…» (in Profilo di Clio, Adelphi).      
(5. - fine)

sabato 18 luglio 2015

Pace e guerra

~  QUANDO I FIGLI PARTIVANO VOLONTARI 
 E QUANDO SI ACCORSERO D’ESSERE TUTTI
DEVOTI DI EIRENE. ~  «Il ‘900», IV PUNTATA ~

 Diari lontani (1989-1995) per cercare il bandolo del secolo scorso. Le puntate precedenti qui qui e qui.

Quando ancora sopravviveva una qualche forma di solidarietà religiosa, sia pure nella versione più laica, i genitori assistettero con angoscia e con fede alla partenza dei loro figli per la guerra, e questi trovarono ragionevole partecipare al conflitto del mondo come volontari, rischiando con buona probabilità di incrociare la morte.

PACIFISMI - Francia 1936. «Non ci riusciva facile valutare il peso di quelle voci che si inebriavano per la settimana lavorativa di quaranta ore e ignoravano che in Germania si lavorava intorno alle sessanta ore. E neppure l’influenza di quei sognatori che non si facevano scoraggiare nel loro antimilitarismo e continuavano a pretendere che la linea Maginot fosse smantellata: il riarmo a tappe forzate della Germania nazista non li toccava affatto. C’era da disperarsi». Willy Brandt scriveva così nelle sue Memorie. Chi scriverà dei ‘cortei per la pace’ che volevano smantellare la linea Maginot dei missili puntati sull’Urss? Chi racconterà delle epiche battaglie italiane contro il tycoon televisivo, fino alla vittoria totale, mentre si proclamava la trattativa estrema se non la capitolazione verso gli Stati più violenti del pianeta? Realisti, senza emozioni, senza lanciare proclami, solo di fronte all’esercito serbo che massacra intorno e dentro il Grande Lager di Sarajevo, appena sull’altra riva della Romagna in festa.

Anche i bambini capiscono dai libri di storia della scuola primaria come la bilancia della pace e della guerra, della trattativa e dell’oltranzismo, oscilli a seconda delle circostanze politiche. Gli americani dovevano combattere fino alla resa totale di Germania e Italia, guai a chi avesse parlato di trattative, di morti da evitare, di bombardamenti da sospendere, perfino la bomba atomica era accettata pur di distruggere il terzo alleato del Patto d’Acciaio. Dopo di che l’atomica diventava il simbolo della distruzione della madre terra e quindi scendeva su di essa il tabù, nessun essere umano poteva pensare di ricorrere a un’arma simile. Naturalmente scervellato e criminale doveva apparire chi pensava di prendere le armi per rispondere alle striscianti occupazioni russe e cinesi, e addirittura come un mostro politico era raffigurato Israele che non accettava, per amore della pace,  la capitolazione e lo scioglimento dello Stato (senza sottilizzare sulla sorte di quei milioni di ebrei in Medio Oriente, una volta consegnate le armi agli arabi).

BONTÀ - Si cade spesso in baratri demoniaci per le tentazioni della Bellezza e della Bontà. I misfatti del XX ebbero i loro aedi e filosofi e volgari giustificatori tra gli uomini incantati da queste due divinità. Talvolta si ebbero contraddittori atteggiamenti: si restò affascinati dalla bellezza della faccia cattiva per troppa bontà, come ammetteva il povero B.B. Nulla, infatti, era proporzionato  alle infinite ingiustizie del passato e qualsiasi violenza nuova non riusciva mai a riequilibrare la bilancia della Storia né a strappare le brutture del mondo, le storture che lo rendono asimmetrico e disarmonico.

BENE COMUNE -  «… gli antichi, una volta che un’entità ideale avesse trovato una determinata raffigurazione materiale, la rispettavano scrupolosamente. […] Il motivo è evidente: senza questa uniformità non è possibile una interpretazione concorde» (Gotthold Ephraim Lessing, Come gli antichi raffiguravano la morte, 1769).

LA DISFATTA - Quando l’impero sovietico precipitò, i suoi feudatari occidentali furono inchiodati ad alcune meditazioni: chi aveva lottato per la «distensione» non si era forse ingannato sulla natura di questa potenza, tigre di carta che, come volevano i falchi, bastava stringere all’angolo per portarla a una rapida resa? Non si sarebbe meglio contribuito, così facendo, alla pace mondiale e alla libertà dei popoli che gli erano sottomessi? Come al tempo del Patto di Monaco, non furono proprio quelli del partito della moderazione con i prepotenti a favorire le peggiori conseguenze belliche? Non sono domande facili come sembrano.

SUSSULTO - È in corso una resipiscenza a proposito della violenza. Dopo avere invocato per un ventennio il dio Marte nelle città d’Europa, dopo essersi ispirati alle rivolte sanguinarie sudamericane, fantasticato di assedi contadini alla metropoli industriale, benedetto perfino le sparatorie di quartiere, adesso è tutta una celebrazione dell’irenismo. Nuove formazioni militanti scalano palazzi rinascimentali, sabotano i party nelle ambasciate francesi, dichiarano guerra al governo di Parigi. Qual è il pericolo che squassa la terra e minaccia l’umanità? Pesci tropicali e acque marine trasparenti corrono dei rischi in un angolo del Pacifico per colpa del presidente francese, faccia da bon vivant, che vuole saggiare le armi nucleari dell’invecchiatissimo suo arsenale. Potrebbero questi intrepidi combattenti in favore dei Tropici giurare sulla loro coscienza che con il bazar atomico istallato nell’ex impero sovietico, parzialmente in mano ad anonimi avventurieri privati,  non risultino utili nei prossimi anni questi esperimenti finalizzati alle armi di dissuasione? Chi può escludere ricatti atroci che non si respingono con il dialogo e le buone intenzioni? Ma il solo pensiero di antichi esperimenti con l’atomo su isole felici fa correre un brivido tra i frequentatori dei salotti planetari che custodiscono l’«ambiente». E la gioventù più avventurosa dell’Occidente si incarica di giocare alla guerra con la Francia gaudente. Ci si potrebbe accontentare di un decimo di questo sdegno per impiegarlo utilmente a favore degli assediati di Sarajevo. Ma là c’è una guerra vera, il gioco non vale, la realtà supera la virtualità. Per le anime belle meglio la guerra ai vini francesi. Come nell’operetta, senza morti né feriti. Guerricciole disarmate.

PACIFISMI/2 - Avere urlato alla minaccia totalitaria, con tanto di dittatura alle porte, soltanto perché nella Penisola al posto di vecchi maneggioni arrestati sopraggiungevano al potere giovani senza esperienza di governo ma con voglia, fino ad ora frustrata, di metter le mani sul tesoro; avere evocato le tecniche goebbelsiane per la campagna elettorale del re delle televisioni in versione politica, proprio mentre un inferno a cielo aperto ricorda con dettagli assai precisi e terrifici i Lager degli anni Quaranta, potrebbe apparire ai posteri (che forse però saranno – chissà? –  più cinici dei nostri contemporanei) anche un crimine. Sventurati bosniaci, sventurati per essere europei ma non cristiani, musulmani ma non arabi, privi del clamore del Vietnam dal momento che non sono in scena gli americani, privi di una buona causa, privi dell’esotismo della lontananza. Nessuna potenza appoggia dei miserabili in stato d’assedio, i giovanottoni delle truppe Onu li consegnano direttamente ai loro nemici. Guerre pacifiste.
    
NATI IERI - C’erano in Italia dei marchi politici assai antiquati: «comunisti», «fascisti», «mazziniani», «cattolici democratici»… Un po’ Risorgimento e un po’ primo Novecento. Hanno fatto un restyling, le bandiere sono cambiate tutte, i colori sono stati corretti, ma il personale è rimasto lo stesso, o quasi.

Tagliati i ponti con ogni tradizione, ci si presenta come orfanelli vezzosi ma l’unica cosa che ancora ci accomuna in tanto spaesamento è lo scontro fratricida come Leitmotiv nazionale.

ASSOLUTISMI   Stato assoluto, umanesimo ‘integrale’, religione senza Dio.

ANTI - Che fuori dalla guerra ci si organizzi politicamente intorno a qualsiasi parola che contenga  un prefisso anti è cosa sommamente ridicola. Ma nel nostro linguaggio c’era un aggettivo che riportava all’ordine quel prefisso. A chi infatti pretendeva criticare radicalmente il sistema russo si apponeva l’aggettivo «viscerale» in modo da non esagerare. Si raccomandava insomma il realismo politico, quel po’ di diplomazia che avrebbe evitato il cattivo gusto della battaglia militante, una volta tanto considerata come fanatismo sgraziato. Anche gli storici dovevano valutare i tiranni bolscevichi con il massimo di freddezza, senza coloriture morali ma, se lo stesso metodo fosse stato applicato alla Germania della Seconda guerra mondiale, ecco spuntare per loro l’accusa senza remissione di «revisionismo». In ogni caso non c’era mai solidarietà piena con le vittime dell’esperimento marxista perché esse erano una pietra di inciampo nella costruzione radiosa della umanità.

I FLAGELLI - Dopo l’esplosione della patria internazionalista si è aperto il vaso di Pandora dei nuovi mali. Non si tratta della punizione per avere osato distruggere il paradiso in terra, casomai è la conferma terribile che i paradisi in terra esplodono e i frantumi incandescenti ricadono sul mondo sgomento.

CIRCOLO VIZIOSO - «In Europa per loro la partita è persa. Almeno per cinquant’anni non ci saranno più». E anche: «Se il pericolo li deprime, al minimo successo non temono più di nulla. È la più completa leggerezza e mobilità». Si diceva così dei liberali dell’Ottocento. Oggi lo si può ripetere per chi credette nella liberazione ex Oriente.

LA VOCE DI VICHY - La sottolineatura krausiana dell’indifferenza dei giornali nel «lanciare una guerra o un’operetta» mette in luce con i moderni evidenziatori traslucidi i titoli delle gazzette contemporanee. Gli assediati di Sarajevo sono bilanciati dalle file ai caselli e dai primi temporali che rompono l’estate. Ricordano desolanti fogli di Vichy che informavano pedantemente su viaggi forzati in Germania, battaglie della guerra mondiali, malinconiche conferenze del professor X sul platonismo provenzale, applauditi concerti di mademoiselle Y alla sala comunale, incidenti di ciclisti sulla strada provinciale, tutto uguale come all’Inferno.   

COLPE - L’Illuminismo rende naturale la morte fino ad allora causata da colpe, magie malriuscite, malefizi. Nello stesso tempo rende la società colpevole di magie e malefizi. Sennonché nessuna colpa ‘laica’ può assurgere all’importanza di quella che causa la morte. Ragion per cui la spiegazione religiosa della morte torna a sedurre…

TOLLERANZE - La tolleranza islamica, la fama che si è conquistata, non deriva forse dal fatto che Maometto prescrisse di non convertire in ogni caso l’infedele bensì di limitarsi talvolta a sottometterlo? Non convertire, non agire sulla sua coscienza definitivamente reietta ma sottoposta a pressioni fiscali in modo di pagare il fio della sua natura di sottouomo, non degno di evangelizzazione, di attenzione… 

SADISMI - In quale altra parte del mondo sviluppato – oltre all’Urss al suo tramonto – si patì un anno di totale isolamento e altri dieci di lavoro forzato per avere richiesto un passaporto per Israele? Perché allora di fronte a crudeltà di porno scrittorelli, e per di più verso ebrei che già ne avevano passate tante, in Occidente si fu così tiepidi? Perché i più sensibili alle sventure umane non apposero il loro nome e cognome sotto un appello vibrante in appoggio di chi chiedeva nient’altro che un documento di identità per andarsene?  Perché nessuna scuola fu occupata in favore della libertà di migrare? Come mai neppure i claustrofobici ritennero di solidarizzare con chi era incarcerato duramente per aver voluto scappare via da una cella eterna? Neppure i facinorosi Robin Hood delle periferie scesero in piazza, organizzarono un concerto o tracciarono una scritta sui muri già tanto martoriati delle nostre città.

DEFINIZIONI - Quando Willy Brandt, borgomastro della Berlino eroica prima che tessitore della Ostpolitik, chiese ai suoi alleati un aiuto contro i Vopos che alzavano un muro per dividere in due la capitale tedesca era forse un bieco oltranzista? Un alleato della reazione mondiale? Un guerrafondaio che scherzava con il fuoco? Un servo del capitalismo perché non si piegò al filo spinato? Questioni bizantine di terminologia. E bastò al gruppo di dissidenti italiani, poi espulsi dal partito, la riserva mentale per cui quello sovietico non era il comunismo autentico a salvarli dalle cattive compagnie pur avendo fatto denunce impeccabili dei mali dell’Est? 

Ci fu una critica di Mosca che salvava Pechino, una scelta spregiudicata tra due tirannie. Così alcuni preferirono i cinesi perché più estremisti nella teoria (e nei numeri assoluti degli sterminati). E capitò che futuri irenisti approvassero e teorizzassero a loro volta l’eventualità di una Terza guerra mondiale, promossa dai marxisti asiatici, che avrebbe travolto insieme i vincitori della Seconda, americani e russi.

IL PASSATO - Quando il  Mondo dei Morti parla e dà ordini ai vivi, quando impone le sue regole sui viventi, si può parlare di una forma di tradizione? E il Vangelo che insegna a «lasciare che i morti seppelliscano i morti» si ribella a questa tradizione? Eppure l’ordine nuovo che si contrappone al passato e alle richieste dei trapassati si presenta come un tradimento, produce terribili angosce. Ed ecco che ogni sopravvissuto, testimoniando sul passato, raccontandolo sia pure per frammenti, mitiga la violenza della novità con l’affettuoso rispetto per gli avi scomparsi.

IL PIACERE DI CONDANNARE - Elias Canetti tocca un nervo scoperto della cultura: «Il piacere di esprimere una sentenza negativa è sempre inconfondibile […]. Ci si eleva svilendo gli altri. […] In ogni caso egli si annovera tra i buoni». Non riguarda soltanto l’atroce mestiere del giudice, qui cominciano le disavventure del cosiddetto «pensiero critico», le sue facili degenerazioni.

ANCIEN RÉGIME - Gli atei? Sostenitori della sovranità assoluta della Morte.

PICCHI - Talvolta viene da fantasticare su un maturo conservatore bismarckiano che a un certo punto si imbatte, sul finire dell’Ottocento, nelle teorie di Nietzsche, negli scritti pubblicati a proprie spese del professore di Basilea: wagnerismo filosofico, eccitata presunzione giovanile di essere a un passaggio d’epoca, forse una vena di follia ereditaria – avrà borbottato. Senza ricorrere all’esuberanza indiana dell’eterno ritorno, la circolarità del balletto umano era garantita ai suoi occhi dalla tradizione familiare, dai prosaici rogiti che attestavano possedimenti stabili nelle variazioni bizzose del tempo, dalle storie degli antenati che ripetevano a distanza di secoli gli stessi peccati di debolezza amorosa o di crudeltà, con analogie così precise da fare irridere ogni ripartizione definitiva d’epoca, e da schiudere continue vie di fuga à rebours. Si sapeva che soltanto le vecchie dame civettuole e gli altalenanti giovinetti si consolavano con l’unicità del tempo dei loro vent’anni (per quanto protratti), la saggezza dell’età di mezzo consigliava un po’ di scetticismo a proposito dello sfondo storico cui è dato di vivere. Non avrebbe sospettato, il nostro gentiluomo, che il pensiero conservatore, di lì a poco, sarebbe stato irretito dagli squilli rivoluzionari, dagli annunci di un’èra completamente nuova, senza più metafisica, con forti dubbi anche sulla dimensione umana. L’Apostolo di Zarathustra credeva  di essere sul picco dei secoli, diventò poeta di quella escursione storica. I suoi esegeti presero alla lettera le parole oracolari: fatti rapidi conti, stabilirono di essere giunti al meridiano zero. E la prima parte del Novecento si trovò dinanzi a una filosofia che si voleva più radicale di ogni rivoluzione, compresa quella di Mosca che prometteva un totale rovesciamento della storia. Orda orientale e pensiero germanico per lavorare ai fianchi l’attempata società borghese. Così, nella gara al maggiore estremismo giocata dalle avanguardie sopraggiunsero i tanks filosofici tedeschi e azzerarono tutto. Con gli occhiali nietzscheani  si poteva scorgere nichilismo dappertutto. Nel paesaggio eroico, militarizzato, degli anni Trenta, e in quello colmo di macerie del dopoguerra, nel deserto del più scientifico sterminio di umani o nel malinconico scenario dell’affondamento degli imperi, con i bagliori nucleari ancora minacciosi, le previsioni dei devoti di Zarathustra sembravano avverarsi. Stato mondiale – auspicato o temuto, non importa –, «guerre cosmopolite», fine del mondo millenario. Poi rispuntarono le questioni nazionali, anche nei cortili nostrani del Tirolo, riapparve perfino l’egemonia tedesca, e il conservatore misteriosamente sopravvissuto avrà sorriso sotto i suoi baffoni dell’altro secolo. Insomma, terminati i fracassi della guerra mondiale della cultura, della mobilitazione generale dei cosiddetti intellettuali, ci si accorse che la borghesia, per quanto esteticamente malconcia, resisteva. I superuomini profetizzati si trovano soltanto tra gli eroi dello sport, protesi a imporre nuovi record sempre più distanti dalla natura umana. Ma si tratta di esseri cresciuti all’ombra della tecnologia, meglio: di prodotti tecnologici per la gioia dello spettatore televisivo accovacciato sul sofà.

Non accadde forse lo stesso per le tinte criminali dei testi surrealisti, con tanti eroi negativi onde rendere ancora appetibile una letteratura illanguidita? Polemizzerà in seguito con i suoi ex confratelli Roger Caillois: «Predatori di cadaveri col pubblico consenso, pretendete di passare anche per eroi e di fare del vostro cinismo una virtù supplementare della vostra arte». Per forza di cose il pensiero anglosassone si offriva come una tisana onde smorzare tanta enfasi apocalittica. «Niente» divenne intanto un intercalare ossessivo del gergo adolescenziale, punto di appoggio per sostenere un discorso balbettante, confuso dalla timidezza, una parola non da poco per minimizzare.      
(4.- continua)

lunedì 6 luglio 2015

Il rito delle scuse


~ CATTOLICI, ANCORA UNO SFORZO
PER ESSERE DEI GENTILUOMINI ALLA MODA ~

Giudicare il passato con il paradigma giuridico e linguistico dell’oggi è cosa illegittima e ingenerosa. Sconcertante dunque quel ripetuto scusarsi della gerarchia cattolica (rivolto al genere umano? ai propri fedeli?) per teorie e pratiche, risalenti ad alcuni momenti della sua  lunghissima storia, che non si conciliano con il pensiero dominante della nostra epoca. Eppure, subito dopo lo sconcerto – anche per lo svilimento delle pie intenzioni di chi ci ha preceduto, dei maggiori sempre da venerare, delle loro imprese a gloria di Dio –, subentra la vecchia idea della barchetta di Pietro nel mare procelloso, della navigazione miracolosa tra venti furiosi, del magistero asintotico, della solidarietà complice tra pontefici lontani nel tempo che permette correzioni reciproche. In questi pubblici atti di umiliazione possono magari brillare lampi di tradizione viva. I papi fanno a gara nel lucidare l’immagine della Catholica, nel cancellare le umane imbrattature che la ammorbano come una muffa. Nobile dunque l’intento, c’è però il rischio di guardare alla storia da un punto di vista privilegiato, come se si fosse ormai pervenuti, per opera del progresso, a un’altura celeste, definitiva. Dalla sommità delle umane presunzioni ci vergogneremmo delle rozzezze del passato, senza renderci conto dell’abisso dove siamo precipitati noi, i moderni. Di scusa in scusa, arriverà il tempo in cui, davanti al tribunale del pensiero a una sola dimensione, si reciterà un estremo «mea culpa».

Appena liberato dal carcere della Bastiglia, il marchese libertino della algolagnia dedicò ai suoi liberatori, nel frattempo divenuti regicidi, un libello titolato Francesi, ancora uno sforzo per diventare repubblicani, dove si promuovevano le peggiori nequizie, il suo repertorio per l’appunto sadico, onde trarre le definitive conseguenze teologiche dalla decapitazione del re: se avete ucciso il garante divino dell’ordine, tutto è permesso. L’opinione pubblica attuale è meno affabile del perverso settecentesco e impone i suoi diktat: Cattolici, ancora uno sforzo se volete essere dei gentiluomini alla moda, ripete all’infinito e in modo ossessivo su tutti i media. Ovvero, non bastano gli aggiornamenti, la cancellazione della liturgia secolare, l’annacquamento delle regole morali, l’ossequio verso il pensiero dei nemici: ci sono delle pagine nei libri sacri che proprio non vanno. Sì – essa dirà –, avete cassato la preghiera per gli ebrei del venerdì santo, senza sottilizzare, ve ne diamo atto, se la parola «perfidi» si riferisse a una malvagità congenita del popolo di Mosè o all’etimologia che spiega: «ostinati a non riconoscere una verità», ma c’è ben altro da fare. Prendiamo il biblico Deuteronomio. Siete al corrente, signori del dialogo, di che cosa c’è scritto in quel libro del Pentateuco? Leggiamo, citando dalla Bibbia nella versione ufficiale della Cei: «Quando il Signore, tuo Dio, ti avrà introdotto nella terra in cui stai per entrare per prenderne possesso e avrà scacciato davanti a te molte nazioni: gli Ittiti, i Gergesei, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore, tuo Dio, le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio. Con esse non stringerai alcuna alleanza e nei loro confronti non avrai pietà. Non costituirai legami di parentela con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero la tua discendenza dal seguire me, per farli servire a dèi stranieri, e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe. Ma con loro vi comporterete in questo modo: demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete i loro idoli nel fuoco» (7, 1-5).

Ecco, i signori della tolleranza trovano spesso decisamente «intollerabili» molti pensieri e molte pagine delle culture a loro opposte, esigendo e ottenendo dal potere politico assai rigide censure. Diranno allora gli avversari: può la Chiesa di Roma che ha chiesto  perdono per le incomprensioni con Galileo e per la repressione delle eresie, lodare, incensare e diffondere un libro che comanda di comportarsi in tal modo? E a questo punto faranno menzione di un altro passo: «Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita, e diranno agli anziani della città: ‘Questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è un ingordo e un ubriacone’. Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà. Così estirperai da te il male, e tutto Israele lo saprà e avrà timore» (21, 18-21). Razza di lapidatori, aggiungeranno i moderni nemici, pentitevi, pentitevi, ritrattate, chiedete scusa. Né le aperture dei sinodi sulla famiglia – insisteranno i critici della Chiesa – potranno attenuare raccomandazioni come questa: «La donna non si metterà un indumento da uomo né l'uomo indosserà una veste da donna, perché chiunque fa tali cose è in abominio al Signore, tuo Dio» (22, 5). E condanne a morte – sottolineeranno – sono comminate dalla Bibbia per ogni tipo di adulterio, lunga è la sequenza deuteronomica, a cominciare da: «Quando un uomo verrà trovato a giacere con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l'uomo che è giaciuto con la donna e la donna. Così estirperai il male da Israele» (22, 22).

Di fronte a queste severissime citazioni, all’opposto dell’attuale sentimentalismo asfissiante, quanti ecclesiastici resisteranno alla voce del progresso che impone loro di scusarsi per il libro santo? Quanti vorranno fare il gentiluomo e saranno pronti a bruciare (simbolicamente, s’intende) le pagine bibliche incriminate? E quanti troveranno la soluzione del problema rifacendosi all’eresiarca Marcione, rigettando cioè l’Antico Testamento e cercando di piegare il cristianesimo alla vita moderna? Ma anche senza collazionare gli innumerevoli precetti violenti del Messia che annuncia di aver portato la spada in questo mondo, basterà nominare l’Apocalisse, libro canonico, parte integrante e conclusiva della Bibbia cristiana, perché sia subito scandalo anche nel Nuovo Testamento. La vendetta divina, il Giudizio sonoro e tremendo non sono motivi che piacciono ai contemporanei, i discorsi ‘ebraici’ del visionario di Patmos sembrano poco adatti alla angelicità in voga. Anzi, mai come adesso, il tono apocalittico, consentito alla science fiction come al catastrofismo socio-politico, è negato alla religione. Perfino nel mondanissimo Rinascimento le pagine escatologiche avevano maggior risalto, e la Cappella papale per eccellenza, il cuore della corte che oggi si condannerebbe come ‘paganeggiante’, le metteva in scena  nella più grandiosa immagine della storia dell’arte: il Giudizio michelangiolesco. Icone della guerra finale, che adesso ci proibiamo per tabù impostoci dagli altri. Libro «oscuro, sublime, sanguinoso» (Balzac), dalla prima all’ultima parola è l’intera Bibbia che appare estranea al nostro tempo. Non basta nascondere o svilire nei commenti l’Apocalisse come le più dure parabole di Cristo, negli ultimi tempi alla Chiesa di Roma vien intimato a gran voce di chiedere scusa per il fatto di non rassomigliare a nessun’altra istituzione, a nessun’altra religione. E il suo passato non somiglia neppure alla lontana a questo presente. Peccato gravissimo di anacronismo agli occhi dei contemporanei. Imperdonabile essere inattuali, nonostante i capi ecclesiastici ricorrano a ogni camuffamento, pure al glamour, per nascondere tale colpa. Del resto, benché sempre accusata di saper tessere compromessi come nessun altro, la Chiesa di Roma si caratterizzò fin dall’inizio con quella caparbia difesa dei «valori non negoziabili» per cui, unica tra le sètte che pullulavano nella capitale pagana, rifiutava il culto dell’imperatore di turno, facendosi massacrare per resistere all’idolatria politica. «O Roma felix», si canta nella festa di Pietro e Paolo, «es consecrata glorioso sanguine», imporporata dal sangue che la fa santa. In tempi tanto soft, nella realtà virtuale che prende le forme di una pseudo eleganza del design al servizio delle merci, il sangue è inopportuno.  L’Apocalisse risulta più minacciosa di ogni effimero terrorismo, dal momento che annuncia la distruzione definitiva delle fondamenta del mondo.

L’ipocrisia del discorso pubblico condanna le guerre antiche condotte in nome della verità e accetta le stragi dell’oggi compiute in nome della comodità: che crepino in mare donne e bambini dell’altra costa purché non turbino con la loro presenza il ‘tenore di vita’ opulento del Nord Europa protestante e ordinato, eticamente corretto. «Questo orribile protestantesimo che ci divora» (ancora Balzac) e ci divora tutti, anche in modo inavvertito. Non ne vogliono più sapere del legislatore ebreo che raccomanda di passare a fil di spada il nemico, che indica le regole per vincere la guerra difficilissima, e che ordina di rispettare lo straniero che viene tra noi. Ignorano le parole dolcissime con cui l’Apocalisse parla al cuore dei disperati.

Verrà forse un vescovo a dire: «Perdonateci se abbiamo un libro intollerante, dove c’è l’istigazione all’odio e un esecrabile spirito di vendetta». È già luogo comune che solo le religioni sono feroci, quella cattolica prima fra tutte. Ci scusiamo perciò – finiranno col balbettare – per il nostro libro, per i nostri avi impresentabili, ci scusiamo per il nostro Dio di altri tempi.

domenica 21 giugno 2015

Scherzi temporali


~ E ANCHE GEOGRAFICI. ~  CON UNA
DIGRESSIONE SULLA LETTERATURA ~
~  «Il ‘900», III PUNTATA ~

 Diari lontani (1989-1995) per cercare il bandolo del secolo scorso. Le puntate precedenti qui e qui.
  
Nel 1929, in Germania, sulla rivista rivoluzionario-conservatrice «Die Tat»: «Se non saranno in grado di trovare un nuovo sistema statale ed economico che risponda ai caratteri del popolo tedesco, nel giro di venti o trenta anni verranno travolti da un ciclone di dimensioni inimmaginabili». Trent’anni dopo, veramente inimmaginabile, c’era il «miracolo economico» dei Cinquanta, l’ossimoro che univa la «scienza triste» al carattere del prodigio. Ma più che teutonico, aveva le forme americane, le forme imposte con glamour dai vincitori. La guerra rivoluzionaria-conservatrice era persa e così la successiva dittatura niente affatto conservatrice. I progetti e i sogni travolti da una bufera. Oggi invece torniamo spesso agli anni Cinquanta (trent’anni fa) come se ne fossimo separati soltanto da una parentesi di distrazione. Anche nelle vite delle generazioni del dopoguerra, e ormai avviate alla maturità, si avverte un tempo elastico, restringibile a piacere, perché in questo più recente trentennio manca il macigno che lo biforca nei più vecchi: il prima e dopo la mattanza.

VERTIGINI - L’eclettismo del postmoderno è un riassuntino finale del millennio. Non a caso già dal XIX secolo si è scatenata una danza di revival a chiudere la gara di originalità che contrassegnò le altre epoche. Nell’ultima manciata del XX il tempo accelera, il giro si fa più vertiginoso: ormai nessuno ha il coraggio di scommettere su un’epoca nuova. Ci si aggrappa perciò al meglio del già noto e si teme la vendetta delle cose scartate.

PREVISIONI - Cimentarsi in previsioni politiche comporta una certa fede nel fatto che i tempi porteranno alla luce la verità. Ma una fede che rinuncia alla pazienza e che per ansia anticipa i tempi è un’ombra che si posa sulle cose e le rende morte come quelle maneggiate dagli archeologi.

L’ARROGANZA DEL NAÏF - Gli uomini delle valli nordiche che son calati a Roma con una specie di partito dicono ora che sono stati ingannati dai loro furbi soci nel governo. Mai un partito al potere aveva governato l’Italia senza sapere quel che faceva, con i ministri che si lasciano spiegare il giorno dopo dai giornali il significato dei loro atti di governo. Ecco la controprova di quanto la politica sia in una fase di decadenza, già oltre il ridicolo.

HASKALAH - L’illuminismo ebraico, l’haskalah, si spinge fino a saldarsi al sionismo. Risaliva nei secoli, ben prima del Settecento; né si può negare la patente del più nobile illuminismo alle parole bibliche di critica dei sacrifici umani, dell’idolatria, della superstizione. Ma dovette essere così nascosto che l’ebraismo fu condannato, nella stagione dei Lumi, come la quintessenza dell’oscurantismo.

MODERNITÀ - Il papa si lamenta per la desacralizzazione della sua Polonia: là dove non riuscì in decenni all’ateismo di Stato venne facilissimo a cinque anni di libero mercato.

Il marxismo si è realizzato soltanto in Oriente. Dall’altra parte l’individualismo gli faceva freno, e non si ebbe neanche un esperimento concreto in tal senso.

Il cattolicesimo, che procede con senso gerarchico per cui due uomini sanno più di uno, è stato attaccato a un certo punto dall’individualismo sfrenato del luteranesimo e dei suoi derivati.

SCATOLE LUMINOSE - «Les lumières conservées pour l’imprimerie» (Diderot). La ‘scatola delle immagini’ è solo una versione moderna della «imprimerie»? È mai possibile che le immagini e, corrispettivamente, le visioni conservino i lumi dei Philosophes? Non è forse la visione senza parole a distruggere i concetti sorti a fatica, come isole, nell’oceano delle immagini? La estrema evidenza dell’immagine, piuttosto che completare il processo illuministico, non appare accecante? La luce eccessiva annulla il tempo, i suoi chiaroscuri. A occhi chiusi il tempo non passa.

COSTI - La corruzione è il prezzo della democrazia, sistema basato sul potere della gente comune, non incorruttibile, non eroica. La tremenda forza del potere viene mitigata dalla forza della mediocrità. Ma se la democrazia fa a meno degli uomini della provvidenza, è provvidenziale che talvolta vi siano delle circostanze in cui un robusto gruppo di politici rappresenti gli interessi generali. Coloro però che esaltano troppo la «missione» politica mancano della saggezza che mette sotto le luci la meschinità della umana natura.

Non solo tra la gente di lettere, anche tra borghesi che si volevano ‘illuminati’, prosperò il gusto per i paradossi, in dispetto del buonsenso, gusto che li condusse all’esercizio delle ragioni del socialismo sovietico. Trovare del buono nel nemico delle libertà occidentali e scovare le mostruosità nascoste nel nostro mondo è  un’ottima ginnastica mentale. Solo che, di capriola in capriola, il sofista rischia di cadere in ginocchio davanti al tiranno.

L’ANNO DELLE ASTRAZIONI - I ragazzi tedeschi dell’Ovest solidarizzarono con gli ex sudditi dell’Impero ottomano finiti umiliati ad arrangiarsi per le città della Germania, combatterono per gli iraniani laicizzati dallo scià, si esaltarono per il maggio parigino insubordinato come un giorno matto di primavera, per le battaglie di Ho Chi Minh nelle foreste avvelenate dagli americani, per i guerriglieri di ogni dove, ma non si mobilitarono per la liberazione domestica, per coloro con cui condividevano a Berlino la rete metropolitana, alcune strade sia pur divise dal filo spinato, lo stesso cielo, la stessa lingua e non pochi vincoli di sangue. Non provarono neppure ad aprire i cancelli del carcere dove erano rinchiusi i parenti. Un’ombra lunga su quella ribellione.

EGOISMI - Una crociata impolitica agita come emblema, assai ingenuo, delle mani pure, mondate da ogni traccia di corruzione. Pulire: verbo che può indicare una mania. Un tempo per convincere i rampolli borghesi a occuparsi del malanni del mondo si chiedeva loro di «sporcarsi le mani», di farsi carico degli altri, di occuparsi appunto di politica.

GLI EX NEMICI - Nel 1951 si era quasi arrivati alla costituzione di un esercito europeo. Predisposti accordi, norme e scenari per unificare le armate nazionali. Pochissimo tempo prima ci si era attaccati l’un l’altro in una guerra mondiale, ma soprattutto europea, con corpo a corpo assai efferati. In decenni recenti, cadute le ultime diffidenze reciproche, il progetto di unificazione militare non è più all’ordine del giorno. Risulta soltanto un esempio della mancanza di audacia nel continente in rapida decadenza, che sopravvive solo in nome degli affari e del denaro.

OSTPOLITIK - Churchill nel 1951: «I sovietici hanno forse più paura della nostra amicizia che della nostra ostilità. Il contatto degli abitanti dell’Unione Sovietica con l’Occidente significherebbe la fine di un sistema infame». L’infittirsi della rete comunicativa, dagli schermi elettrodomestici ai satelliti, hanno costretto gli ultimi padroni del Cremlino alle mosse suicide. Così vengono abbattuti  regimi odiosi ma si rafforza il potere tecnologico, l’unico padrone della terra.

Dopo la vittoria dei sovietici nel 1945 solo una ristretta minoranza culturale osò resister loro in Europa occidentale. Fu a causa del rancore provato dagli aristocratici europei nei confronti della volgarità americana? Alla nobiltà si univano i socialdemocratici tedeschi e i nostalgici socialisti nazionali. Una grossa coalizione avversa alla potenza atlantica. Allergica al cosmopolitismo che si era detto, nel periodo tra le due guerre,  ebraico-americano. Meglio rossi che occidentali.

ASCESI - Parliamo di letterati in morte di uno di loro. Dieci ore al giorno al Café de Flore. In occasione della sua scomparsa, lo stilita rumeno isolatosi al Quartiere Latino non può raccogliere grandi titoli sui nostri giornali. Misteriosa la forza che obbliga a scrivere un nichilista, a fare leggere le sue carte agli estranei, a portare il manoscritto da un editore, a leggere forse le recensioni. Debolezze umane piuttosto che una forza? Tutta la sua importanza deriva da questa presunta debolezza. Somiglianze con Pascal sottolineate da molti: ma il seicentesco era un cristiano ardente, e per amore di Gesù si può comunicare con il mondo; l’ateo luciferino che parla a fare? Morale dubbia  degli scrittori negativi: abitare il luogo salottiero delle Lettere, ma negli angoli scuri, per mettersi l’animo in pace. Se l’asceta invece di negarsi, sottoponendosi alle regole del suo monachesimo, si ribella ed esce dalla clausura, ecco l’anarchico, l’anarchico conseguente, radicalmente asociale (strozza-bambini come pretendeva di essere il nostro).

La morte ha raggiunto Emile M. Cioran. Scriveva battute dell’amarezza: non aforismi, non epigrammi, non quelle frecce logiche che i greci conficcavano nel cuore degli oppositori  politici all’agorà, non aveva avversari da battere, se non il genere umano: troppo poco. Al massimo, giaculatorie della disperazione.

All’inizio del secolo i nichilisti fecero dell’ascesi al tavolo di un bar una missione sacerdotale. Altenberg era un mite priore di tali monaci nottambuli: «Quando a tarda notte o, meglio, nelle prime ore del mattino si stava sul terrazzino sopra il tetto, si udiva regolarmente uno stacchettare di ciottoli sul selciato… probabilmente un bevitore attardato che usciva dall’ultima osteria per andare a casa. – Ora canteranno i galli, mi disse Hofmannsthal una volta che ci eravamo trattenuti a discorrere a lungo. – Questo è Peter Altenberg che rincasa» (Ricordi di Hofmannsthal scritti da Carl Jakob Burkhardt),

I due amici Beckett e Cioran, uno di fronte all’altro, uno caricatura dell’altro. Sicuramente i personaggi dell’irlandese fanno il verso alla filosofia esistenzialista, ma anche i ragionamenti di Cioran sembrano parodiare la desolazione dei beckettiani, riecheggiano le smorfie dei clochard, i loro gesti sgraziati e violenti, che assaltano, insieme all’acre puzzo umano, il lettore. Ultime scorie del pensiero alimentato dal disgusto.

Tra i monaci del Nihilismus risuona la preghiera lirica di Borchardt: «O cuore degli ordini, non farmi essere libero!», subito dopo rimata da una spiegazione oracolare: «Essere libero è niente, vorrei essere tuo» (di monito a chi fonde pericolosamente anarchia e nichilismo, gli io piccoli proprietari e ribelli; lo stesso Gottfried Benn dirà di se stesso: «egli vuole disciplina, giacché egli era il più dissoluto». Spiega Roger Caillois: «Nelle opere dello spirito i valori sono inversi: sforzo di ingegno e perseveranza è crearsi una schiavitù e non liberarsene. Si arriva al punto che qui la libertà si ritrova nell’inventare delle regole alle quali lo scrittore sceglie di obbedire.  […] Almeno in parte, i grandi artisti sono coloro che seppero immaginare a loro uso nuovi freni. […] Temo di sbagliare per eccesso di leggerezza. Perciò mi appesantisco e mi impedisco di appesantirmi a vanvera»).

Gara di eccessi di crudeltà alla scuola di de Maistre di cui Cioran fu traduttore (nessuno lo ricordava nei coccodrilli), eccessi mentali prima che verbali, come épater gli umanisti (è pur sempre un buon esercizio), speculazione sulla psicologia dei popoli, «passatempo di emigrati», parola di rumeno autoesiliato.

Ci volevano i tiranni, il sangue, le apocalissi storiche per animare le stanche serate parigine dei contemplatori da caffè, per gli ubriachi senza alcol, per i duelli metafisici degli insonni, per i monaci senza mattutino, senza libri d’ore… Da bravi letterati si allenarono a queste battaglie interiori, immaginando crimini ordinari, delitti positivisti, con piccole cause precise, e scrissero libri gialli. Alcuni, una minoranza, sulle tracce di Poe e Baudelaire, fantasticarono crimini più generali, fecero sanguinare la Storia come le fontane iraniane nel giorno di Alì, cibo dei «furiosi che vivono per metafore».

Disciplina (tonache, cocolle e camici bianchi della Clinica Loto diretta da un sifilopatologo) ed effervescenza novecentesca. I monaci europei e i guerrieri orientali di Mishima. Alle porte della Morgue, assassini e vittime in meditazione muta, ad attendere le Rivelazioni liriche, la Grazia indicibile se non in qualche verso, Benn e Celan, se l’accostamento non ripugna troppo.

Potere e denaro stanno così distanti che appaiono divinità impassibili, il cinico pare disprezzarle senza comprenderle, senza afferrarne il fascino numinoso, senza dominarle. Resta quindi un culto oscuro: denaro e potere, segni enigmatici del fato che l’anarchico deride come un jolly di corte.

La grande tecnica dei cinici: prendere le distanze dagli avvenimenti contemporanei, allontanarvisi come se fossero passati numerosi secoli, in modo da assumere quel lucido atteggiamento (almeno in apparenza) degli storici, soprattutto di quelli eruditi che si dilettano nel contemplare le umane sventure, gli imperi inghiottiti, le ascese delle città, i trionfi dei sovrani, le malizie dei corsi e ricorsi, le ingenuità degli idealisti, la forza muscolare delle genti… Chi si schiera pro o contro Alessandro, chi teme per la sorte di Costantinopoli, chi si sente ribollire di sdegno per la Guerra dei Cent’anni e chi tenta di stabilire da che parte passi la ragione in quella matassa di prerogative… Ancora un soffuso ricordo militante per gli aristocratici illuministi scannati a Napoli ma poi per secoli più riposti ci si permette l’impudico gioco di trovarvi solo l’aspetto estetico: i colpi di genio dei più efferati, la stoltezza degli sconfitti, i grandi numeri della battaglia. Senza neppure un’idea delle vittime. Ai nostri giorni le figure immorali grandeggiano solo al passato remoto – e da quella distanza eccitano i moralisti anarchici, Nietzsche in testa.

Si darà il caso che gli inattuali, usciti volontariamente dal tempo storico, si elettrizzino anche per i più canaglieschi contemporanei?

Il tempo di quattromila anni di sapere, millenni di delitti, la cappa della vecchiaia e poi i sogni sfumati, schiacciati dalla greve macchina della Morte.

«…venite, disserrate le labbra / chi parla non è morto»: versi di Benn che mette a punto una disciplina per dissoluti estremi, non ammettendo i trucchi del poeta che si finge morto. (Versi riportati in omaggio allo scomparso.)

La glorificazione della sterilità. Ceronetti in un compìto addio, scrive che i testi del suo amico, i suoi pensieri cupi,  gli procurarono la «voglia di urlare di gioia», euforia per la scoperta di affinità, per la capacità di odiare brillantemente questo mondo. Ebbri dell’Abgründgluck, espressionismo dell’ultimo secolo. L’italiano celebra Cioran come un profeta annunciante «la verità che l’uomo è un dio falso, e il più falso degli idoli».

Dalla scorza negativa venne fuori un po’ di compassione in un suo discorso sulla gloria. Saggio di virtuosismo nella più alta tradizione dell’oratoria francese, Cioran invoca a chiare lettere la pietas: amore per i propri difetti, esercizio di adulazione del prossimo. I veri moralisti del resto lo sanno, una volta persa ogni fiducia nel genere umano, si può portare salvezza ai singoli individui, consolarli, lusingarli.

MESSIANESIMO - «Gli assembramenti di persone gli sembravano una garanzia di felicità» (Kracauer). Si riferisce agli anni Venti ma potrebbe essere l’epigrafe degli anni Sessanta-Settanta.    

 L’ITALIA - «L’Italia è un paese in cui ammirare i quadri; aspetta di andarci. Là devi visitare i musei, non puoi fare altro. È un paese orribile, non riesci a trovare neanche un sigaro decente», scriveva Henry James in L’americano. «Caro signore, ho seguito i vostri consigli: sono di ritorno da Roma dove ho trascorso molto tempo. Ho provato il fascino di questo bel giardino d’antiquariato in abbandono… Una città che insegna a servire per poi dominare»: è il cinese Ling-W.Y. che parla di Roma in La tentazione dell’Occidente di André Malraux. L’occhio del viaggiatore in Italia scopre la soffusa tonalità funebre nel paese del passato, nota quello a cui noi siamo abituati e che perciò non notiamo più, è assillato dalle tante colonne spezzate che formano un paesaggio di rovine che pure a noi non riesce a immalinconire (sono le care immagini degli avi, così come le fotografie scolorite dei nonni non rattristano). L’Italia che appare impassibile per avere trionfato sui crolli dell’impero con il piacere delle sovrapposizioni, con la destrezza nel sottrarre i capitelli agli dèi pagani onde glorificare il Dio cristiano…

Per chi scrive di questo paese ogni giorno sui giornali dovrebbe essere una lettura obbligatoria, e s’intende a piccole dosi, quella degli infiniti tomi che compongono «Il viaggio in Italia», genere letterario costantemente aggiornato. Un buon effetto di straniamento. I più segreti vizi italici saltarono agli occhi di giovinetti pii e romantici che entravano nel paradiso dei loro sogni. La distanza geografica aiuta ad accostare la storia. È nota la cecità dei contemporanei di fronte agli accadimenti del loro tempo. La grazia di possedere questo sterminato archivio di sguardi estranei aiuta come minimo a scandalizzarci di meno delle vicende scellerate che puntualmente si ripetono e a non disperare. La nostra unicità non è un difetto, come pensano i gazzettieri.

I moralismi esibiti nei Novanta: un effetto di sazietà in un paese che per secoli fu affollato di affamati?

DIRITTO PUBBLICO - Quando ciascuno diventa dio di se stesso perde la saggezza di stabilire patti biblici con la divinità celeste. E patti pubblici, come quelli di Abramo, non trattative personali e magiche, come invece pretendono le pratiche gnostiche.

ART POUR L’ART? - Il romanzo – sia o no il genere cristiano per eccellenza, come voleva Bachtin – diventa surrogato, impalcatura, trama di altre finzioni.

MALI - Parafrasando Wittgenstein, possiamo dire che «quando tutti i possibili bisogni economici sono stati esauditi, i nostri problemi vitali non sono stati nemmeno toccati». E tuttavia non per questo si possono trascurare le ciclopiche battaglie per alleviare i mali sociali, anche se alcuni pensavano seriamente di sconfiggerli del tutto. Fu una pretesa ottocentesca, anche un po’ ridicola,  affermare che bastasse risolvere la questione sociale per risolvere il problema metafisico. Fu tuttavia una intuizione importante trovare in molti idoli metafisici gli effetti della fantasmagoria delle merci.

Sulla falsariga della settecentesca «impostura sacerdotale», la «sinistra» ha continuato a credere a una «impostura del potere», riducendo l’inganno ideologico a un piccolo imbroglio di manigoldi da tre soldi.

Vengono contrapposti in genere mito e logos, quasi che il primo fosse un blocco marmoreo, morta presenza, che la viva voce anima come Gesù con Lazzaro. Il mito è anch’esso parola, racconto che interpreta le immagini scolpite dagli umani.

L’ETÀ DELL’ATEISMO - In Occidente la generazione che è cresciuta nell’ateismo di massa, ormai raggiunta la maturità, imbattendosi nei numerosi casi che fuoriescono dalle medie statistiche della nuova, progressiva, longevità, comincia a fare i conti con la morte. Non basta allora l’infinita terapia psicoanalitica, non basta l’abuso del termine depressione per ricoprire la solitudine lancinante dell’anima, non sono bastate le traduzioni politico-sociali della Bibbia, né le pillole che bruciano le cellule del cervello, a ben altre droghe ricorrono in molti. Se alla miscredenza illuminista degli eletti si replicò con il romanticismo e con un Ottocento che ricostituì templi domestici e nazionali, adesso per scontare l’ateismo la folla senza religione si appiglia a grossi anestetici di massa. È così che la ‘cultura’ diventa un calmante.

(3.- continua)

venerdì 5 giugno 2015

Il matrimonio messo a nudo

~ IL SÍ AL NULLA 
DAVANTI A UN UOMO
CON LA FASCIA DI TRE COLORI ~

«Per finirla lietamente
e all’usanza teatrale
un’azion matrimoniale
le faremo ora seguir» 
Lorenzo da Ponte, Le nozze di Figaro

Difficile fu giustificare il matrimonio ‘civile’. Ovvero, come incatenare due persone per buona parte della loro vita, senza la grazia che scenda dall’alto a vincere il tempo che vince l’amore.  Che cosa non si inventarono i filosofi. Fichte parlò di uno spazio giuridico dove la donna si sottomette all’uomo con un atto di libertà. Riconosceva, bontà sua, che «la tendenza umana è egoistica» ma al tempo stesso pareva convinto che «nel matrimonio la stessa natura guida [il coniuge] a dimenticare se stesso nell’altro»: chissà mai per quale miracolo del pubblico funzionario che li unisce, la pancia incoccardata, quali marito e moglie. Kant con germanico puntiglio si imbrogliava nel «contratto con prestazioni corrispettive» che permetteva, in penoso linguaggio burocratico, il possesso giuridico del piacere ricavato dagli organi sessuali. E l’apologeta dell’intelletto, l’intellettuale disinteressato alle questioni amorose e mai tentato – pare – dalla libidine, esponeva il suo contratto in questi termini procedurali: «le parti genitali si cedano nell’uso e parimenti l’intero corpo». Una faccenda davvero borghese, una pochade in cui annega la filosofia del diritto. Senza la veste sacra, fuori del mistero impresso dal cristianesimo alla passione umana, questi poveri teorici post-libertini, questi professori pedanti quanto timidi, erano alle prese con il pudore, la ritrosia,  i corpi, gli amplessi, i diritti dell’uomo e della donna che mal si conciliavano con gli istinti del maschio e della femmina, la riproduzione della specie che si voleva sottratta all’attività puramente animale, la fragilità dei sentimenti, le proprietà e i beni d’ogni natura che si mediavano con l’amore. La soluzione tentata dal supremo illuminista fu di ridurre l’amore a un rapporto giuridico. Hegel se ne scandalizzò e la definì «una sconcezza». Ma kantiani o hegeliani, illuministi o romantici, contrattualisti o idealisti, il problema di fondo consisteva in questo: se siamo di fronte a un fatto privato, perché in tanta privatezza lo Stato deve intervenire e celebrare i matrimoni? Perché violare con la mano pubblica l’intimità dell’alcova?

Hegel spiegava il riconoscimento pubblico del matrimonio come l’ingresso dell’amore nella collettività sociale. L’amore perciò, sosterrà nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts, viene così «liberato da tutto quello che può avere in sé di passeggero, capriccioso, soggettivo; per cui il matrimonio diventa un dovere etico, di fronte al quale le considerazioni delle inclinazioni, della previdenza, dell’interesse scompaiono». Argomentazioni che neppure un papa oggi oserebbe proporre. Più prosaicamente, nel dialettico rapporto tra sposi e Stato dei tempi che furono, si poteva intravedere un nascosto interesse reciproco, noto a tutti ma da non scrivere a chiare lettere nelle carte costituzionali. Lo Stato istituzionalizzava la convivenza tra un uomo e una donna, offriva loro agevolazioni, regolarizzava i patrimoni dei due sposi, stabiliva le regole esteriori, assicurava per i figli che nascevano da questo matrimonio almeno la cittadinanza che consentisse di vivere nel territorio dei genitori e magari anche gli studi primari e, già prima del welfare, qualche forma di soccorso. In cambio si prendeva a disposizione la vita dei figli maschi onde rischiarla sui campi di battaglia per le guerre che combatteva;  più in generale poteva contare sul numero dei sudditi che era potenza, e nel più misero dei casi sulle braccia da impiegare nei campi agricoli e sugli uteri per riprodurre la popolazione. Lo Stato non avrà scrupolo naturalmente di utilizzare per i suoi fini anche le famiglie nate dal matrimonio cristiano, sacramentale, davanti al sacerdote cattolico, o da quello comunque religioso, davanti al pastore protestante o al rabbino. Ci apporrà il suo marchio. Dopo la Rivoluzione francese si era tolleranti, gli eserciti esportatori di democrazia non guardavano troppo per il sottile in fatto di arruolamento, anzi, di fronte alla coscrizione obbligatoria, tutti i credo religiosi andavano bene, valevano lo stesso. Anche l’agnosticismo otteneva il suo rispetto pubblico e risultava addirittura più caro allo Stato repubblicano e laico. Ma a prescindere dalla forma statuale, c’era bisogno di confermare il matrimonio e la famiglia anche per chi non si riconoscesse in una religione, anche per le ristrette minoranze degli atei. Nulla doveva sfuggire all’onnipotenza dello Stato. L’amore finiva così per sottostare alle leggi civili. Il laico mimava anche in questo campo il cerimoniale religioso. E il libero pensatore che non voleva disonorare l’amata agli occhi del vicinato si sottoponeva al rito ‘civile’. Nessuna dignità fuori di questo Stato, dunque, addirittura gli inferi della illegalità per i rari ‘anarchici’: guai agli amanti segreti, ai figli irregolari, senza nome; sospetti i separati, comunque in disgrazia.

Adesso lo Stato non richiede più sacrifici umani, alla guerra, come nei tempi pre-moderni, si va solo per soldi. La cittadinanza sarà presto distribuita in generosa abbondanza, le frontiere in via di smobilitazione, i cognomi – materni o paterni, aggiunti o meno – possono esser scelti per gusto estetico o per affettuosità, tanto l’occhiuta informatica garantisce ugualmente l’identificazione e il pagamento delle imposte (che è cosa più sacra ormai del nome). Nessuno persegue più nessuno per il concubinato che una volta fu messo tra i reati. Nessuno nel nostro mondo ha bisogno del riconoscimento pubblico alla sua affezione per garantirsi rispettabilità sociale. Appena un ricordo, casomai, della tradizione intesa come fiabe, cinema rosa, ripetizione ironica di quel che fecero con candore, con fede cioè, i padri e le madri. Né gran parte degli sposati sembra voler mettere al mondo figli, e casomai le future madri li posticipano alla laurea, al salto di carriera, materialismo gretto che neppure nel secolo positivista si vide mai, lasciando le nozze programmaticamente infruttuose. Ebbene, se il matrimonio è sottoposto a tutti i capricci degli umani, e prescinde dalla procreazione coniugale come dai sessi coinvolti (cominciando a introdurre figure terze e quarte per generare), comunque annullabile senza alcuna motivazione valida, con separazioni automatiche, con divorzi ripetibili all’infinito in base all’esclusiva tirannia dei desideri, perché mai lo Stato deve ancora intromettersi negli affari di cuore? Come fa la legge a tener testa ai desideri che non concepiscono più alcun limite? Se è l’amore canzonettistico a dettar legge, se è l’uzzolo a pretender diritti, lo stesso Kant si ritrae, al suo laico contratto matrimoniale viene a mancare il fondamento. Per non parlare della sofferta architettura filosofica di Hegel: lo Stato che ordinava eticamente le passioni e si arricchiva della prole è tramontato tra le risate liberiste della stessa parte sinistra che pur resta statalista in materia fiscale. Viene il sospetto forte che oggi l’unico motivo per cui ci si sposi ‘civilmente’ sia la reversibilità della pensione e altri benefit, insomma un affare di denaro. Già, l’«argent fait tout», si canta a teatro. Una burla sociale. Una cambiale di matrimonio priva della soavità rossiniana. Al massimo, una tendenza alla parodia cui il parodiato non è però tenuto affatto a prestarsi (anche perché già ci scherzò sopra con grande spirito faceto, ed è passato un secolo, Marcel Duchamp nella Mariée mise à nu par ses célibataires). Anzi, senza ridicolizzare ulteriormente il matrimonio, si può risolvere la questione con una leggina che regali sesterzi a tutti i conviventi, facendo astrazione dalle nozze, una specie di reddito universale in morte di uno dei due che vivono sotto lo stesso tetto, ma che premi anche chi sopravvive al fratello o alla sorella senza aver consumato incesti, o un figlio che ha condiviso l’esistenza celibe con la madre, o un monaco che si è rinchiuso per sempre con un altro monaco in una trappa… Insomma, vitalizi per tutti, salvo che per i solitari ostinati, con qualche onere in più per le pubbliche casse ma con un equivoco in meno. E una esortazione: orsù, un po’ di coraggio, non invocate i codici per ogni aspetto tragico o sublime della vita, non mettetevi sempre sotto la protezione dei legulei. 

Ecco allora una ennesima, modesta proposta di questo «Almanacco». Il titolo sarebbe «Perché il matrimonio civile non s’ha più da fare». Senza ricorrere ad altri referendum popolari o a continue leggi che abbrevino i tempi dei divorzi o che allunghino il numero dei soggetti del matrimonio, estendendolo magari anche ad altre specie animali, con la più scatenata fantasia sul tema; accertato che la fede nei penati e nel vincolo è del tutto evaporata; che le abitudini sociali, anche nei paesi più remoti della penisola, si sono adeguate alla onnipotenza dell’amore senza altro impegno; che nessuno in Occidente si sente nella illegalità per qualche passioncella vissuta, che talvolta anzi figlioletti cresciuti accompagnano senza segreto e senza imbarazzo alcuno i genitori alla festa sponsale quando questi decidono secondo l’estro di celebrarla dopo anni di famiglia informale; che l’unica credenza è nell’effimero sentimento; preso atto che si richiede ai pubblici poteri la celebrazione nuziale con lo scopo precipuo di organizzare un banchetto e di procacciarsi nell’occasione non pochi doni consistenti in liste preordinate, oltre che per finalità pensionistiche; l’istituto del matrimonio è abolito. (Resta naturalmente il sacramento per i cattolici che, si spera, non abbiano al momento di consacrare la loro unione all’altare troppe riserve mentali sulla possibilità della opzione n.2, benché prevista da alcuni teologi e vescovi tedeschi, visto che nessuno obbliga più nessuno a  sposarsi. Naturalmente, qualcuno griderà alla discriminazione: non è giusto che il Paradiso venga promesso solo ai credenti, lasciando fuori una parte della popolazione, quella inflessibilmente incredula. Si spera dunque in un papa così  misericordioso da fare del premio eterno un bonus per tutti. E d’altra parte ci sarà a questo punto chi obietta che la ‘salvezza totalitaria’ imposta ai non credenti è assai iniqua cosa, una nuova forma sottile di proselitismo, che perciò meglio sarebbe abolire le religioni in blocco, ecc. ecc. ).