giovedì 31 marzo 2011

I tifosi bizantini

~ LA FINALISSIMA TRA BENE E MALE ~
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Ieri parlavamo di mostri vecchi e nuovi. Oggi ricorderemo le folle facinorose che urlano per incitare tali mostri. I tifosi della giustizia. Di un potere cioè che manovra uno dei più delicati strumenti sociali, il ciceroniano «habitus animi», una virtù quindi, una specie di arte che avrebbe bisogno della saggezza di Salomone, di calma, di voci basse, perfino di pudore (si sta inquisendo nell’intimità di sospetti innocenti), e che si è trasformato in una partita furibonda, la finalissima tra il bene e il male.

C’è una nuova voga in Occidente: il procuratore del re adesso dà scacco al re. Non è soltanto una questione italiana. Negli Stati Uniti, patria del puritanesimo, nessun giudice osò portare in tribunale i vizi privati consumati con celebri star dal presidente della «nuova frontiera», ma qualche decennio più tardi, per una disavventura con una ragazza qualsiasi, salita alla ribalta grazie allo scandalo, un presidente maldestro fu inchiodato alla pubblica tortura delle indagini sotto le telecamere, della inchiesta giudiziaria e giornalistica (che sempre più vanno di pari passo; la seconda, con prove arruffate e ignoranza del diritto, emette sentenze clamorose che anticipano e influenzano quelle in tribunale). Che cosa era dunque successo? Un diplomatico francese, Jean-Marie Guéhenno, pubblicava in quel tempo un libello, La fine della democrazia (Garzanti) in cui prendeva atto di questa nuova sovranità assai limitata. A cominciare da quella del popolo che la esercita attraverso il voto. Spiegava così come il rappresentante di una tale sovranità dimezzata fosse ormai un bersaglio degli umori dei media e dei magistrati: «la televisione impone il suo ritmo al dibattito politico», e «il dibattito su un problema si trasforma in dibattito sull’integrità personale dell’uomo, sul suo rispetto delle norme istituzionali, estremo criterio di giudizio in un mondo in cui il gioco politico non ha altro scopo che la preservazione della regola del gioco, unico standard accettato di funzionamento in una società senza scopo». Quello che sembra moralismo di massa può allora essere interpretato come una militanza di estremisti semiologi, di controllori delle regole di un gioco per il gioco, sulla falsariga dell’arte per l’arte. «Non si chiedono rendiconti di una politica, ci si assicura che siano state rispettate le procedure», una specie di gioco di società che «mette in scena, davanti all’opinione pubblica, e non più davanti a qualche giudice ecclesiastico, gli attori della vita politica. E l’emozione suscitata dalla trasmissione televisiva di un’audizione giudiziaria crea questa percezione collettiva di cui la società ha bisogno per continuare a considerarsi una società». Forti sconquassi sono dunque avvenuti in questo mondo progressivamente formalizzato per arrivare ad accontentarsi di uno straccio di rito come il cinico cerchio delle tricoteuses intorno alla ghigliottina (e senza l’odore del sangue, sublimato dallo schermo elettronico). Perciò «a un giudice della Corte suprema degli Stati Uniti non si domanda di incarnare una visione del diritto, ma di essere una ‘vignetta’ della società quale essa sogna di essere».

Gli accusatori che vengono fotografati in piazza con la bocca sgraziata per l’invettiva si dovrebbero interrogare sulle trasformazioni che Guéhenno già intravedeva a ridosso dell’Ottantanove piuttosto che prestar fede infantilmente al Grande Complotto. «Il mondo diventa più ‘astratto’, più ‘immateriale’», il «circuito telematico» prescinde dal territorio, vecchie istituzioni crollano, e crollano gli imperi anche economici basati sul territorio. La politica risente di tutto ciò, la politica si smarrisce. I sondaggi in tempo reale, le campagne stampa, le raccolte di firme e oggi la rete universale umiliano il voto, la democrazia classica è ferita. «Il lavoro dell’uomo politico consiste nel giocare al meglio la sua parte per essere il più spesso presente in quei cinquanta psicodrammi che ogni anno riempiono gli schermi della televisione». Ne deriva una «frammentazione delle immagini e degli argomenti, uno sbriciolamento del tempo, una semplificazione delle percezioni…». Per tentare di riunificare un tale mondo in frantumi e senza più istituzioni credibili si ricorre alle procedure, ai protocolli. Se di questione morale si tratta non riguarda i singoli casi, i comportamenti dei personaggi politico-televisivi, bensì una miserabile umanità che si limita al regolamento come tanti neopositivisti, senza neppure conoscere l’obiezione di Popper.

Quando il nostro autore parla di vignette, di immagini – ‘icona’ è il termine di moda – , spiega che nel dibattito pubblico che accompagna i gesti dei procuratori in America come in Europa «non si dibatte sui principi del diritto e dell’etica […], si contrappone soltanto vignetta a vignetta». Ed è forse per questo motivo che la dialettica delle immagini, a contatto con la italica e antichissima faziosità, si tinge di violenza. Anche l’art pour l’art da noi, fortunatamente, fuoriesce dalla torre d’avorio e si sporca di realismi vibranti, non a caso l’astrattismo del dopoguerra finiva nelle discussioni accaldate delle sezioni Pci e un Mallarmé sarebbe inimmaginabile da queste parti. Così quando il tonfo del comunismo sembrò togliere di mezzo le ideologie, quando la politica si presentò dappertutto nuova e asettica, sulla questione delle regole e degli attori che dovevano recitare la parte dei potenti si accese in Italia un tumultuoso contrasto che non accenna a scemare. Un pretesto per l’eterna guerra fratricida, magari favorita dal maggioritario, dalla richiesta radicale di ‘carta vince e carta perde’. Una lotta da Azzurri e Verdi, le due fazioni dell’ippodromo di Bisanzio che animarono una guerra intestina nell’Impero, arrivando a incarnare la battaglia morale e teologica. Azzurri e Verdi di Bisanzio, Bianchi e Neri di Firenze, acromatiche folle minacciose davanti al Parlamento e ministri che scagliano insulti villani, trionfi anche emozionanti della partigianeria, ma perché invocare la divisione dei poteri, le leggi, la giustizia? Basta dirselo: i tifosi sono entrati nell’aula giudiziaria e compromettono l’arbitraggio del sommo derby. Quale figura può sospendere la partita?

mercoledì 30 marzo 2011

I nuovi mostri

~ UN CORSIVO CHE OGGI SUONEREBBE SCANDALOSISSIMO ~

«Spesso ossuti e avvizziti, più spesso obesi e flaccidi, col viso marcato dalle nefandezze del loro mestiere, ogni anno ci appaiono vestiti da pagliacci […]. Chi sono? Sono gli alti magistrati che inaugurano l’anno giudiziario, per dirci che bisogna mettere più gente in galera e tenercela, e quale gente e perché. […] Questi personaggi sono l’immagine stessa del privilegio e dell’arbitrio. Dispongono del più illecito dei poteri, quello sulla libertà altrui. Ma sono intoccabili, ancora in un tempo in cui non c’è gerarchia che in qualche modo non debba render conto di sé. Dispongono di armi micidiali, leggi inique e meccanismi incontrollabili. E le maneggiano come e contro chi vogliono. Sono l’incarnazione dell’ipocrisia dell’ordine borghese. […] Non c’è terreno che in questo dopoguerra sia rimasto, proteste o no, più impermeabile all’azione, di governo o di opposizione, delle forze democratiche».

.È un corsivo nello stile di Daumier intitolato «I mostri», risale all’11 gennaio 1972, quasi mezzo secolo fa, e non è firmato da un estremista liberale, bensì da un comunista, Luigi Pintor. A quei tempi la sinistra, almeno in Italia, non si schierava con il partito dei pubblici ministeri. Vi si leggeva ancora: «nulla conferma, meglio della giustizia e delle sue oscenità, le invettive di Marx contro l’ordine capitalistico…», c’era una certa coerenza con il suo ruolo storico. Le parti omesse nell'articolo riportato ricordavano le ingiustizie perpetrate ai danni degli operai, ai giorni nostri dall’altra parte dello schieramento politico agiterebbero differenti cahiers de doléances, resta il fatto che l’arbitro continua a essere l’immagine dell’arbitrio. Adesso chi pronunciasse queste parole taglienti, anzi una sola di simili espressioni, provocherebbe il massimo scandalo tra i nuovi idolatri della carta costituzionale e della «giustizia», sarebbe additato come un sovversivo che fa piangere il capo dello stato, come un mascalzone che attenta il vivere civile e l’unità italiana appena festeggiata. Cosicché i nuovi mostri risultano essere i moralisti che stanno sfigurando questo paese.

domenica 27 marzo 2011

Il peccato dei puritani

~ SATANA NELLE VESTI CALVINISTE:
UN ROMANZO DEL PASTORE JAMES HOGG ~

Con ogni pretesto si condannano da parte cristiana le antiche crociate contro i musulmani o meglio le battaglie della cristianità per liberare il sepolcro della resurrezione dalle mani politiche dei maomettani, ma poco o nulla si dice delle crociate puritane contro i cristiani, dello zelo nevrotico con il quale si va all’attacco del peccato degli altri. L’orgoglio smisurato di chi presume di appartenere alla ristretta schiera degli eletti, di chi giudica continuamente le colpe più intime degli umani, le loro intenzioni perfino, ed emette la condanna finale, classificandoli antropologicamente tra i sotto-uomini, gli eterni reietti, mentre loro, i giudici, si collocano sul trono di Dio per pronunciare la sentenza: tutto ciò produce il peccato dei puritani, qualcosa che somiglia alla parabola luciferina.

La predestinazione assoluta, di origine calvinista, spinse alcune congreghe britanniche a sentirsi del tutto al sicuro da ogni tentazione, anzi da ogni errore; inoltre loro sapevano maledire i sensi, maledire la natura, magari non rendendosi conto di maledire il creato. Su questa degenerazione del cristianesimo, il pastore scozzese James Hogg (1770-1825) scrisse nel 1824 un romanzo, The Private Memoirs and Confessions of a Justified Sinner, di un peccatore «giustificato», cioè, secondo la terminologia protestante, di un peccatore impeccabile, come fu anche tradotto (in italiano uscì da Guanda nel 1961 con il titolo semplificato Confessioni di un peccatore, da cui citiamo), opera letteraria che fu sepolta immediatamente nel silenzio. L’epoca romantica non amava forse indagare sulla radice di simili spiritualismi nonostante il romanzo di Hogg offrisse pagine che avrebbero potuto gareggiare in effetti allucinatori con il romanticissimo Hoffmann. Esattamente un secolo dopo, le Confessioni di un peccatore finirono nelle mani di André Gide mentre lo scrittore francese cercava di liberarsi dalla cultura familiare di ascendenza ugonotta: con la sua fama riuscì a trarle fuori dal dimenticatoio. Le rilanciò in nome della tolleranza, che allora trionfava in tutti i salotti delle Belle Lettere, e contro le «aberrazioni della Fede», ma probabilmente vi ritrovava lo spunto inquietante della sua narrazione sul «delitto gratuito» con cui aveva scandalizzato il secolo nuovo, accorgendosi grazie a Hogg che l’idea iniziale era di Satana. L’estetica dell’atto gratuito, che dai Sotterranei deriva, stendeva un’ombra diabolica sulla strana attività delle avanguardie. Ma già de Quincey avrebbe eccitato i futuri surrealisti con L’assassinio come una delle belle arti, scritto tre anni dopo il Justified Sinner di quel povero Hogg che lavorava nella medesima rivista e che si trovò a essere schiacciato giustappunto dalla fama del «mangiatore d’oppio».

La teologia del diavolo messa in luce nella trama delle Confessioni punta anch’essa sulla impunibilità dei puri. Il romanzo, ambientato nella Scozia del XVII secolo, narra di un ragazzo, figlio adottivo di un fanatico pastore, divenuto amico di un diavolo che gli si presenta nei panni di un gentleman e lo spinge ai peggiori crimini per purificare il mondo. Del resto, di qualsiasi colpa si macchi il giovane Robert – suggerisce insinuante il demonio al protagonista –, se anche sarà assalito dallo scrupolo dell’eccesso di zelo per l’uccisione di parenti e amici, egli sarà salvo, la elezione di marca calvinista è infatti assicurata per l’eternità. Questo il facile escamotage satanico che garantisce quel tono di superiorità, qualsiasi cosa commetta il fedele puritano. Fin dalle prime pagine vediamo lui e la sua cerchia agitarsi «per infiammare i giudici e la plebe» contro coloro che provano piacere nelle cose del mondo. Bastava si persuadesse che gli avversari erano «al di fuori della legge» e «della vera fede» perché immediatamente essi rientrassero nel numero dei maledetti per l’eternità, da giustiziare segretamente.

La strategia satanica, che ebbe risvolti politici tra i rivoluzionari, consisteva nel «votare alla perdizione tutti gli uomini e tutte le donne, offrendo poi a coloro che lo seguivano la speranza di appartenere all’esiguo numero degli eletti, inclusi nella promessa divina, e di essere quindi nell’impossibilità di perdersi» e, naturalmente, come dice l’autore, «tutto lascia supporre che questa farisaica dottrina sia quanto mai attraente e piacevole per i bricconi» (p. 59). Diabolici sofismi, cari agli uomini quando giocano con gli ingranaggi delicatissimi della morale.

Disse il diavolo al suo amico che gli chiedeva, convinto fosse un teologo puritano come lui, a quale personaggio biblico gli sembrava somigliasse: «In cuor vostro state dicendo a voi stesso: ‘Mio Dio, ti ringrazio di non essere come gli altri uomini, di non somigliare al povero peccatore non rigenerato, a quel miscredente di John Barnet’» (p. 99). Il principe infernale sapeva essere ironico, qualità che mancava ai calvinisti.

Il peccatore puritano, quando aveva già cominciato a uccidere quelli che considerava cattivi cristiani, rifaceva a modo suo il Decalogo: «C’erano numerosi peccati, tra i più mortali, tra i quali non ero mai caduto, perché nutrivo un sacro terrore per quelli che la Rivelazione designa come peccati che portano con sé l’esclusione, e me ne guardavo costantemente. Più in particolare giunsi a disprezzare se non addirittura a esecrare la bellezza femminile e a considerarla come la più grande insidia cui sia stata soggetta l’umanità. Per quanto i giovani e le ragazze, e perfino le vecchie signore (tra le quali mia madre) mi accusassero di essere una specie di mostro sventurato, io mi gloriavo di ciò, e mi sento ancor oggi contento di essere sfuggito a quella che, son convinto, è la più pericolosa delle insidie» (pp.106-107). Chesterton, il cattolico Chesterton, avrebbe dato una risposta appropriata a questi ondeggiamenti farneticanti delle sètte cristiane. Ma oggi il Decalogo riscritto a misura dei propri desiderata e tendenze includerebbe forse altre gerarchie: l’«onestà» anzitutto, i formalismi nei contratti commerciali come massima virtù, mentre vengono retrocessi se non dimenticati del tutto i primi tre comandamenti, quelli che Dio mise in testa alla sua legge.

Viene in luce il paradosso di certo protestantesimo. Liberato dall’obbligo delle opere e dei riti, delle penitenze e delle indulgenze, il cristiano riformato arrivava a credere che «le mie azioni, buone o cattive che fossero, non potessero avere il minimo potere di influire sugli eterni decreti di Dio nei miei riguardi, sia per accettarmi che per riprovarmi». Dipendevo interamente dalla generosità della libera grazia, considerando la buona condotta degli uomini non più di un miserabile cencio» (p. 107). Più o meno nella stessa epoca di Hogg, Sade riprendendo le teorie gnostiche dei carpocraziani mostrava le conseguenze delle ipocrite morali scaturite dalla rivoluzione.

Dal momento che il suo orgoglio spirituale si scontrava con la miseria morale del mondo, Robert era tentato dalla scorciatoia e rifletteva: «Come sarebbe stato più saggio […] passare tutti i peccatori a fil di spada! Finché ciò non sarà avvenuto, i santi non potranno ereditare la terra in pace. Se mai mi toccasse l’onore di iniziare, strumento di Dio, la grande opera di purificazione…» (p. 115). Le utopie della pace perenne, del mondo riconciliato, trasparente, senza disonesti, passa per forza di cose attraverso rimuginamenti di tal sorta che prevedono lo sterminio. Castighi smisurati, disprezzo della legge – mentre si idolatra la forma giuridica nel giudicare i reprobi – in nome della purezza delle intenzioni.

Talvolta il diavolo parlava come un nostro ‘cristiano adulto’: «Disse che disapprovava completamente la preghiera nel modo come la si pratica generalmente. L’uomo ne faceva un’occupazione meramente egoista, impiegandola continuamente nel chiedere, e chiedere ogni genere di cose, mentre conveniva che le creature di Dio si accontentassero della loro sorte e s’inginocchiassero davanti a Lui unicamente per ringraziarlo» (p. 119).

Naturalmente il Principe del Male ricorreva all’inganno di tutte le utopie, il «bene dell’umanità», e stigmatizzava la «natura carnale» dell’uomo, quasi da ex angelo invidiasse quell’equilibrio umano. A lui era concesso solo di tentare, di costruire con le parole gli insani desideri, di deformare il mondo attraverso pensieri storti. Come per esempio quest’altro sofisma: «Forse che la vita di un uomo val più di quella di un agnello o di un animale innocente?» (p. 127). Certi animalisti contemporanei gli fanno ancora eco.

Pieno di zelo per «la grande opera di bonifica», Robert si accingeva a togliere la vita ai peccatori. Come hanno poi raccontato decine di terroristi della nostra epoca, egli attendeva con questi pensieri la vittima che doveva colpire: «quell’uomo si avvicinava passo passo a colui che lo avrebbe precipitato da questa in un’altra esistenza, mostrando la docilità e l’indifferenza di un bue diretto alla stalla» (p. 130). L’innocenza e la pazienza dell’animale sacrificale. Era l’inizio, dice Robert, della «epurazione del mondo cristiano»; l’ostinato tentativo della Riforma protestante, in nome della soggettività che legge e interpreta la Scrittura, abbandonando le gerarchie della Tradizione, poteva condurre anche a soluzioni estreme di questo tipo. Per una buona parte del Novecento si accesero le più capricciose riforme del mondo e dell’uomo, spesso benintenzionate, spesso sanguinarie. Redimere il mondo dal capitale, dai capitalisti, dagli ebrei, dai ricchi, dai poveri, e così via: di causa in causa si risaliva alla prima colpa, al peccato originale che aveva infestato questa Terra e che finalmente andava estirpato. Bisognava affrettare la Redenzione. Perché, tra le cause nefaste delle scelleratezze politiche del secolo scorso non viene mai in mente la responsabilità protestante per queste letture soggettive del libro della morale? Ci si costruiva una redenzione personale e anche un peccatore personale, magari nel vicino di casa che non salutava mai, macchina inquisitrice ben più spaventosa e diffusa di quelle istituite contro le streghe. Tanti piccoli intellettuali che coincidevano con tanti piccoli lettori, mentre giungevano in libreria le edizioni tascabili, e ogni impiegato poteva trasformarsi in sacerdote della rivolta morale o in duce se trovava degli adepti. Bastava leggere un po’ o, peggio ancora, scrivere qualche risoluzione. Avrebbero dovuto essere umani simili a dèi per risultare tutti sacerdoti, – un popolo di santi, si era illuso anche Mosè con i suoi – ma in un popolo di peccatori…

Il giovane amico del demonio, nel corso della sua pratica omicida, dubita del «più intangibile dei dogmi cristiani, cioè l’infallibilità degli eletti». L’ultimo secolo ha irriso e condannato con grande strepito il dogma dell’infallibilità pontificia, ma il dogma dell’autoproclamazione degli «eletti» calvinisti passa per un segno di modernità. Questo romanzo ne mostra la deriva satanica.

Se finisce in cella Robert mantiene la superbia dell’eletto: «mi misi a pregare, deprecando che Dio fosse così longanime verso peccatori tanto abominevoli. Il mio carceriere entrò nella cella e mi insultò. Era un uomo rude e senza princìpi, dedito ai costumi dissoluti e carnali di quel tempo…». Quasi comico il commento dell’assassino; ma non si vide nel nostro tempo gente che si richiamava alle tragiche e violente vicende bolsceviche, che giustificava cioè stragi immani, giudicare scandalizzati come beghine furtarelli e creste sulla spesa pubblica?

«Un ‘giustificato’ è sempre esente da ogni colpa» si dice il puritano e probabilmente è solo grazie a questa convinzione che, assetato di eterna vendetta, può godere delle sofferenze giudiziarie degli altri umani: «non dimenticherò la gioia che prese me e il mio reverendo padre quando il giudice pronunciò la sentenza, secondo la quale l’empio mio fratello doveva essere gettato in prigione e passare in giudizio…» (p. 150).

La corruzione di cui parlano ossessivamente riguarda soltanto il sesso e il denaro. Per tali paure non riescono a cogliere la bellezza dell’annuncio evangelico di una incarnazione divina, non sanno gioire per un Dio che prende le fattezze umane. Hogg mette in bocca al diavolo che spinge il suo adepto all’uccisione di esseri umani il rimprovero severo per le distrazioni dalla rigorosa militanza, per le tentazioni della carne. E quando lo chiama a «spargere il sangue dei peccatori» ammette: «Sperate dunque di trovare la felicità perseguendo il difficile compito di sterminare la gente?» (p. 175). Sterminio reale o sterminio immaginario di un cuore che odia, ecco la ragione della tristezza dei puritani, la tristezza di certi cristiani. Qualcuno spiega saggiamente a Robert: «Da quando con la Rivoluzione [puritana], l’Evangelo si è così diffuso, [Satana] ha spesso usato l’espediente di predicarlo lui stesso, proprio per introdurre falsi princìpi e per renderlo in tal modo ridicolo e blasfemo» (p. 179).

«Il pericolo tremendo di credersi giusti». Con queste parole si conclude la vicenda del giovane scozzese ingannato dal diavolo. Ingenuo come molti utopisti, non conosceva il saggio insegnamento di Stendhal: «l’arguzia è incompatibile con l’assassinio». Utile anche per i neopuritani dei nostri giorni.

lunedì 21 marzo 2011

La croce d'Europa

~ SENTENZE E COMMENTI SUL SEGNO
CHE DIVIDE ANCHE LA NOSTRA EPOCA~

Volesse il cielo che i cosiddetti laici riuscissero in una vita senza simboli, l’impresa incuriosirebbe anche noi. Eccoli invece agitare bandierine tricolori, ricorrere a stelle, aquilotti, fronde varie, alloro a profusione; per non parlare della simbolica esoterica massonica che all’esordio settecentesco tentò programmaticamente di sostituire i segni cristiani. I loro mandala sono retaggi di miti ormai inespressivi, ma l’Europa delle mozzarelle e dei diritti è ancora attaccata alle distinzioni ottocentesche e con lo spirito del farmacista Homais (di flaubertiana memoria) ha proibito i crocifissi nelle scuola italiane. Quindi la Grande Camera europea dei ricorsi, sia pure un po’ esitante, ha rivisto la proibizione e ha sentenziato la liceità di esporre pubblicamente il Cristo ammazzato. Lo storico Sergio Luzzatto, intervistato sulla questione, si lamenta: «Da non cristiano posso dire di essere impressionato dai commenti delle gerarchie religiose che festeggiano una sentenza dove si esclude che il crocifisso possa essere il simbolo dell’indottrinamento. Secondo me si tratta di una vera e propria profanazione. Colpisce la povertà di spirito di una chiesa ridotta a brandire questo argomento, quando il crocifisso è esattamente il simbolo della dottrina». È proprio vero che tutti si sentono ormai in dovere di richiamare la Chiesa alla sua vera natura, gli ‘storici laici’ come i Calasso vedici. Sui giornali che pretendono nascondere il cristianesimo nel privato è tutto un fiorire di riflessioni 'teologiche' per togliere di mezzo quel povero pezzo di legno. Sarà dottrina o forse anche storia la faccenda dell’ebreo messo in croce nell’epoca del governatore Ponzio Pilato?
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I giudici di primo grado di questa alta corte dei diritti e delle fedi avevano sottolineato il timore che «spiriti che mancano ancora di capacità critica» potrebbero essere portati a credere dalla «forza coercitiva dello Stato». Un tale laicismo estremo non si domanda però se non sarebbe meglio, nel caso, abolire la tremenda «forza coercitiva dello Stato» e magari chiudere le scuole pubbliche così violente nella loro rappresentazione da indurre gli studenti a credere per «fede imposta». Quale peggiore accusa alla scuola statale dell’immagine di una «forza coercitiva» che impedisce un apprendimento critico?

Come spesso succede in questo genere di discussioni, per amore del gusto forte e del paradosso la storia dei fedeli dell’ebreo crocifisso viene accostata a quella dei criminali nazisti – sui media di mezzo mondo il papa attuale è oggetto di questi turpi confronti solo per le sue origini tedesche – e anche il professor Luzzatto agita un’arma impropria, anzi in questo caso blasfema, quella della svastica: «l’idea che un simbolo possa essere passivo è originale dal punto di vista teorico ma anche estremamente insidiosa dal punto di vista pratico. Non c’è bisogno di essere un giurista per sapere che una sentenza fa giurisprudenza e dunque questa apre il campo a qualsiasi altro simbolo. Portando all’estremo il ragionamento, in Austria qualche anno fa avrebbero potuto autorizzare l’esposizione di una svastica in classe». Sciocca similitudine, come dire: non insegnate a scuola lo sterminio degli ebrei, ché se si permette un simile «indottrinamento», per usare le sue parole, qualcun altro potrebbe impartire lezioni di mistica nazista. Heine comunque la pensava in tutt’altro modo e scriveva in una pagina ‘profetica’: togliete pure la croce, subito la Germania tirerà fuori i suoi simboli runici e la loro violenza. Allora si scatenerà il finimondo (v. «Il tuono tedesco»)

Sulla croce che divide da millenni chi è dalla parte della vittima dai suoi persecutori questo «Almanacco» è tornato più volte con interventi di vario tipo ogni qual volta un giudice ha cercato di ricacciarla nelle catacombe del privato. Dopo questa timida sentenza li ripropone qui sotto come una piccolissima antologia.


GLI INTERVENTI DELL’«ALMANACCO» SULLA CROCE:
«Il tuono tedesco»
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giovedì 17 marzo 2011

L'Italia felix

~ PARLA DOSTOEVSKIJ ~

Una fanfara dei bersaglieri, qualche luminaria, i balconi delle scuole e degli appartamenti dei neo-patrioti impavesati con il drappo tricolore imposto dall’invasore francese: è la festicciola in economia, vago revival delle miserie ottocentesche, che stanotte e domani ricorda la piccola storia dello Stato italiano. Appena centocinquant’anni, un’inezia.

Poche generazioni fa, l’Italia veniva ‘piemontizzata’; press’a poco a ridosso di quegli avvenimenti Fëdor Michajlovič Dostoevskij scriveva nel suo Diario di uno scrittore:

«oh sì, [Cavour] ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato: per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea modiale alla fine si era logorata, stremata ed esaurita (era proprio così?), ma che cosa è venuto al suo posto, perché possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio il conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio al tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine» (da Diario di uno scrittore, a cura di Ettore Lo Gatto, Sansoni, 1963, pp. 925-926).

Dostoevskij criticò l’Italia del conte di Cavour, «un regno di second’ordine» pieno di debiti, ma rese omaggio alla sua intelligenza politica. Adesso il premier sabaudo sarebbe insolentito come un volgare intrallazzatore, un mezzano che ricorre alle belle forme di una cugina, la celebre Contessa, servendosene per corrompere l’imperatore dei francesi. «Tutta Europa ci ride dietro con questa faccenda di letto», sarebbe il commento attuale. In effetti Metternich non aveva forse ironizzato pubblicamente sulla donna dello scandalo, definendola «una statua di carne»? Si era in piena commedia dell’arte. E non erano mancate le sonore risate degli alleati per quelle strane piume di gallo cedrone sui cappelli dei bersaglieri in Crimea. Non è escluso neppure che qualche magistrato pignolo incriminerebbe Cavour per prossenetismo.

Musil si divertì un mondo a costruire il romanzo di Ulrich, uomo pigro con le massime qualità, che impiega anni insieme al nobile comitato dei festeggiamenti per mettere a punto l’Azione parallela, una straordinaria celebrazione del giubileo imperiale che scocca proprio mentre giunge la data fatale della finis Austriae e la guerra mondiale sta cancellando gli Asburgo dal Novecento. Questo povero giubileo nostro è meno paradossale, lo Stato sta ancora in piedi e saldo nonostante tutto, però l’anniversario tondo atteso da lungo tempo, in particolare da chi lo voleva ritorcere contro ogni pur timido federalismo, viene a coincidere con una brutta crisi economica, forse con la fine della lunga stagione dell’entertainment estetico finanziato dai soldi pubblici, per cui mostre e party sono ridotti al minimo e per fortuna lesinati anche i tricolori. Meglio così, un vessillo asservito a quello di un altro Stato è cosa davvero buffa: i rivoluzionari francesi accostarono il rosso-blu del Comune di Parigi al bianco della monarchia borbonica, ma i nostri tre colori non avevano altro richiamo simbolico che il legame con la casa madre francese, e francamente il verde al posto del blu mortificava il risultato finale, producendo un richiamo pubblicitario per i maccheroni con pomodoro e basilico più che una bandiera nazionale. A garantirle un carattere rispettabile ci pensa il codice penale che commina multe salate a chi vilipendia il sacro cencio. Però dire che è brutto e che il paese della bellezza meritava ben altri drappi non deve suonare come una bestemmia né significa dimenticare che per quello strofinaccio morirono centinaia di migliaia di buoni italiani e buoni cristiani, stretti attorno ai loro cappellani militari, fedeli al papa e alla religione eppure ubbidienti alle autorità che li mandavano al fronte e in trincea; altri buoni italiani e buoni cristiani si fecero ammazzare in Africa e in Russia, nelle formazioni partigiane e nelle bande repubblichine, sempre innalzando il tricolore, appena cambiando lo stemma da collocare al centro. Ormai da un'eternità era tirato fuori solo per le partite, oggi tornano i suoi colori per gioco patriottico. È la festa più Kitsch di quante se ne son viste in una lunga vita. Tappiamoci in casa.

martedì 15 marzo 2011

Lo straniero ci guarda

~ DISCORSI POLITICI SU UN AUTOBUS AFFOLLATO
E IL PARTITO PRESO DELLA TRISTEZZA ~

Oggi sull’autobus una coppia mesta di adulti, un uomo e una donna borghesi, si andava raccontando le disgrazie d’Italia a voce piuttosto alta e con una faccia di circostanza. L’un l’altra si rimpallavano i mali del mondo nello spioncino della politica interna, quasi gravassero tutti sulle loro spalle. Non mostravano pietà per i giapponesi ma rabbia per le nostre scelte nucleari, non dolore per il terremoto bensì calcolo strategico sulla riuscita del referendum italiano, sì e no da strappare con le immagini della paura atomica, quindi parlavano dei libici come avrebbe fatto una dama voltairiana dei selvaggi, quel che stava loro a cuore era la nostra alleanza già sepolta con il colonnello pagliaccesco. Apparivano terrorizzati dal ridicolo, «che cosa diranno di noi all’estero» era il ritornello da vecchie zie di provincia. Il male universale si riassumeva nel governo in carica, e il lutto che portavano si stampava in volto. «Facite ‘a faccia feroce!», un ordine che sembravano imporsi come compito morale. Volti atteggiati a sdegno, partito preso della tristezza, una nuova forza politica, anzi, ancora in cerca di un simbolo elettorale: il Partito della Tristezza. Nulla distraeva la conversazione senza speranza. Dai finestrini scorreva una prova generale della primavera romana, pèschi e mandorli improvvisamente fioriti, nuvole dei migliori paesaggisti, luce post-illuminista di François Marius Granet, maestro di squarci marzolini in questa città: nessun compiacimento, nessun sorriso, nessun ringraziamento al Cielo per il dono dello spettacolo circostante, soltanto un ringhio come basso continuo. Neppure i tricolori che sventolavano buffi dalle finestre di coloro che a sinistra hanno ritrovato la patria, l’aria di festa invero un po’ inventata, rallegravano il giorno appena cominciato dei due castigamatti.

Grande lo stupore quando, entrati poco dopo in un vagone della metropolitana, ci si trovava davanti a tre signore che conversavano animatamente sui medesimi temi della coppia austera. Stavolta il tono era più basso, l’aria più cameratesca e più francamente polemica, ma identica la gravità, il tragico che parla con il linguaggio sciatto di «Repubblica» e che provocherebbe pure qualche riso se non si fosse animati da una vera compassione per tanto dolore esibito sui mezzi pubblici. Donne e uomini che invecchiano senza fede alcuna, a parte una battaglia ad personam contro il politico-miliardario di cui si riempiono la testa. Convincendosi vicendevolmente che il loro paese è un pessimo posto, dove le mafie impazzano, il disordine è sommo, la politica laida. Gli ultimi decenni sono trascorsi all’insegna del male, esistenze sprecate, gioventù bruciata, maturità bruciata. In che vuoto si ritroveranno questi disgraziati savonaroliani senza Paradiso quando il capo del governo lascerà il suo trono?

Si consolavano appena le tre donne disperate con il Leitmotiv che loro sono la cultura in lotta contro la maggioranza ignorante e villana. La democrazia corretta con gli esami scolastici, il socialismo delle maestre con la penna rossa per sottolineare gli errori di gusto. Allevate sicuramente con la canzone di Dylan, With God On our Side, non hanno mai pensato che basterebbe sostituire il loro idolo Cultura alla divinità per rispecchiarsi in quel che raccontava il bardo ebreo.

Facendoci sussultare, una delle tre, la più inviperita, riprendeva ad agitare il tema delle «figuracce all’estero». Nonostante fossero le dame patronesse del sapere, ignoravano che gli stranieri hanno sempre irriso alle italiche faccende, anzitutto perché irriducibili alla misura di tutti gli altri paesi europei. Non ricordavano la sorpresa di Filippo Tommaso Marinetti a Parigi, dopo una prima gioventù trascorsa ad Alessandria d’Egitto a sentir nel liceo dei padri gesuiti vantare la patria lontana, quando si accorse che in ogni caffè di artisti e letterati si rideva di noi, dell’Italietta, dei parenti poveri (molti dei nostri erano emigrati laggiù a servire negli alberghi e nei ristoranti), mescolando invidie, ripicche, contrasti tra cugini di diverso patrimonio. Né le tre donne avrebbero voluto sapere di quei giovanotti ex combattenti della Prima guerra mondiale che, pur sedendo tra i vincitori, si vedevano messi da parte, ancora a Parigi come in tante altre capitali europee, sempre parenti poveri, e anche per questo motivo i giovani arrabbiatissimi aderivano al fascismo o addirittura fondavano i fasci all’estero, qualcuno con pseudonimo scriveva sull’«Action française», sciovinisti per troppe frustrazioni, fascisti anche per eccessiva sensibilità a quanto si diceva all'estero. Alle viaggiatrici in metro non era sicuramente mai capitato sotto gli occhi un qualche epistolario o altri scritti di lettori di italiano nelle università europee tra le due guerre, quanti sfottò, umiliazioni, amarezze, e non sempre per il governo in carica che tanto piaceva ai Churchill e Roosevelt, piuttosto per antichissimi pregiudizi, per sempiterna estraneità. Così andò anche nel dopoguerra, con i centro-destra e i centro-sinistra, ci si sentì domandare in uno sciocco sorriso: «ma da voi comanda ancora il papa?». Però adesso quel dileggio plurisecolare dei forestieri diventa giudizio di Dio, sommo tribunale della nostra politica, metro di paragone del grado di incivilimento della penisola, dell’accostamento italiano agli standard globali, all’appiattimento di questo trimillenario paese i cui ultimi centocinquant’anni potrebbero essere considerati una momentanea parentesi di decadenza.

Che succedeva allora stamattina su tram e autobus, un borbottio che precede la sommossa popolare dei neo-savonaroliani? No, il Partito dei Tristi ci cresce accanto ormai da anni, parolaio ma bonario, colpito da avversa sorte, soprattutto negli ultimi mesi, costruisce una visione del mondo sempre più dolorosa. L’opposizione diffonde depressione politica. Non promette più sogni fantasiosissimi, come in decenni ormai lontani, mostra soltanto il lato brutto della vita. Gli ex desideranti, giunti in età matura, dopo una esistenza trascorsa nel calore delle sezioni e dei raduni, degli ideali e del lavoro collettivo, soffrono come cani una volta risucchiati nel vuoto del post-moderno o comunque lo si voglia chiamare, e se la prendono con il capo del governo. Hanno trovato un bersaglio, un oggetto di conversazione ossessiva. Nel frattempo, privi di eroi politici e poetici, si devono accontentare dei comici. Ma più si riempiono di battutacce e più si incupiscono.

L’attesa di un loro Godot in negativo dura ormai da vent’anni, da allora si fissano giorno e notte sul tycoon prestato alla politica, ben diversi da Jünger che affermava di non aver mai concesso il suo tempo ai tiranni che si trovò di fronte, dedicandosi a ben più nobili imprese, non consentendo che gli rubassero i giorni assegnati dal fato per idolatrie sia pure al contrario. A maggior ragione per un nemico assoluto che somiglia a uno chansonnier d’altri tempi. Ma il fatto più patetico è che da tempo ormai immemorabile qualcuno, i furbi della «Repubblica» in primis, promette loro innumerevoli volte che la fine è prossima e subito dopo la si procrastina alla data successiva, un po’ come le profezie escatologiche dei Testimoni di Geova.

Una parte notevole di italiani si lascia abbindolare dai suoi giornali, il quotidiano-partito ha risolto anche i propri guai finanziari con un tale genere di annunci, e per decine e decine di volte crede di trovarsi al momento decisivo dell’uscita di scena di questo personaggio che ha scombussolato gli schemi della tradizione politica. Un giorno fidando nei giudici, un giorno negli alleati del Cavaliere, un giorno nella Provvidenza, talvolta addirittura nell’opera di Madama Morte, naturale o procurata da qualche volontario. E sempre quegli impostori a garantire coi titoli giganti, con le parole appropriate, con le vibrazioni moralistiche, che è una questione di ore, che il mondo, ossia di volta in volta l’«Economist» o un sito tedesco non si fidano più, pensa un po’, di un italiano, che i giudici interverranno, il capo dello Stato anche, e ormai è fatta, l’esilio o la galera attendono il vecchio corruttore. Ogni volta, la fine viene rinviata, e intanto il tempo passa, i figli crescono, loro invecchiano, invecchiano male, malinconici per stupidi motivi, depressi per un ameno personaggio, per le sue gaffes, per l’onore dell’Italia calpestato, per l’onore delle donne offeso, l’avvenire delle figlie minacciato dai modelli scollacciati della tv. Motivazioni di cui vergognarsi da morire, semmai rinsavissero per un istante. Misericordia allora per i nostri connazionali che viaggiano con noi sui bus, afflitti in una mattinata di primavera in anticipo.

lunedì 14 marzo 2011

L'Italia coi baffi

~ 150 ANNI FA: ARLECCHINO NON C’È PIÙ ~
~ BRUNO BARILLI CI RIDE SU ~

Centocinquanta anni fa, molti morti, molte ruberie, regni cancellati, gloriose scuole artistiche implose, antiche eleganze uniche al mondo dimenticate. Bruno Barilli lo rievoca a modo suo, mettendolo in burla, era il 1929, in contrasto con l’enfasi attuale che rinverdisce piazze missine trapunte di tricolori e distribuisce coccarde per agitare una sinistra senz’anima.

«Con l’unità e il suffragio universale l’arte da noi fece un capitombolo per le scale, e reclamò dallo Stato un paio di stampelle. L’arlecchino italiano buttò via la sua pelle a scacchi per indossare un “tout de même” burocratico, da funzionario nazionale.

Sorgevano in quel disordine nuovo Arrigo Boito, il Ballo Excelsior, la pittura sociale e il monumento a Vittorio Emanuele. Il teatro che era tutto spensieratezza e passione e mirava al cuore della gente, invece di restar fedele al gusto popolare della vecchia Italia, divenne ufficioso, autorizzato, e girò sui tacchi rivolgendosi con sussiego alla sedicente pubblica opinione. Nacque la coreografia del nuovo regno, prese piede l’allegoria massonica, si inscenarono le apoteosi per il canale di Suez, e debuttarono anche le antenne del telegrafo Marconi (costumi di Caramba).

Anche la danza che da più d’un secolo s’abbandonava ai deliziosi capricci di ragionar coi piedi, fu costretta, per seguire il movimento generale, a pensar con la testa, come la foca sapiente. Difatti c’era poco da scherzare da quando il Paese, seduto nella prima fila di poltrone, strappando la maschera, mostrò alla prima ballerina assoluta, due baffi da doganiere» (da Il paese del melodramma e altri scritti musicali, Vallecchi, 1963, pp. 147-148)

C’era davvero poco da scherzare con un’Italia in mano a severi e tristissimi mazziniani. E l’arte assai ammaccata.

sabato 12 marzo 2011

Come conservare la scuola

~ UN MONITO DEL FILOSOFO LEO STRAUSS
CHE NON INSEGNAVA IN UN LICEO DI STATO ~

L’italico corpo insegnante, un corpaccione che, salvo le solite nobili eccezioni, diffonde presuntuosi luoghi comuni e fa la morale leggendo in classe i giornali – da quanti anni non risuona nelle lezioni la parola «virtù»? –, talvolta protesta rumorosamente e grossolanamente, come si addice a disoccupati affamati, contro le tante riforme che si tentano, terrorizzato da chiunque metta in discussione il suo sapere piccolo borghese, i lumi gomorristi, i comici dantisti, mai interrogandosi sulle contraddizioni di una scuola aperta a tutti, che richiede docenti in ogni dove e una umanità desiderosa di imparare e con il talento di riuscirvi. A questi insegnanti che oggi pomeriggio marciano, firmano e si indignano nelle pubbliche piazze, dedichiamo una frase di Leo Strauss, uno spunto per pensare durante la loro laica processione che avanza con tracotanti cartigli.

Con molta flessibilità e buon senso, il filosofo ebreo-tedesco scriveva: «Il desiderio umano di rendere l’educazione accessibile a tutti porta a una trascuratezza sempre maggiore della qualità dell’educazione. Ciò non fa gran danno, o almeno non vi sono nuovi motivi di allarme, se avviene in discipline di origine recente; ma la situazione è del tutto diversa se ne è influenzata la stessa disciplina responsabile dell’eredità classica. I veri liberali oggi non hanno dovere più pressante che contrastare il liberalismo pervertito, che pretende "che vivere sicuri, felici e protetti, ma per il resto senza regole" sia la mèta semplice ma suprema dell'uomo, e che dimentica qualità, eccellenza o virtù». Era il dopoguerra, Strauss insegnava in una università statunitense, privata, sotto il controllo di tycoons e banchieri, non in un puro liceo classico italiano, gratuito e democratico, ma gli era chiaro ugualmente il fatto incontrovertibile che la civiltà è posta in pericolo dai «futuristi superficiali» e ignoranti dell’eredità di cui sono venuti in possesso, non dai conservatori, anche i più gretti che, proprio per il loro senso del risparmio nei confronti della tradizione, «non la metteranno mai in pericolo». Insomma, gli italianisti che dimenticano Vincenzo Monti per un cantautore sanremese, i fisici che omettono Galilei e lo splendore della sua forma attardandosi ad affrontare «i problemi del nucleare», i grecisti che trascurano la grammatica, affrettano tutti la fine dell’Occidente. I docenti di informatica, comunque la insegnino, non fanno male a nessuno. Almeno i licei (non solo quello classico) siano dunque sottratti alle riforme e vengano posti sotto tutela, con maggiore cura degli inerti beni culturali.

(La citazione è tratta dal saggio «Liberalismo e filosofia classica» raccolto in Liberalism Ancient and Modern, tradotto in italiano da Giuffrè.)

venerdì 4 marzo 2011

Piccole iene

~ DUE O TRE COSE SULLA SATIRA
NELL’EPOCA DELLA SUA INVADENZA ~

«– Domani all’alba ho un impegno al Quirinale – .
Di che natura? – Non sai? Ho un amico
Che piglia per marito un amico.
Cerimonia per pochi intimi – .
Viviamo ancora un poco: vedremo
Fare in pubblico queste cose.
E messe agli atti anche».
Il poeta nelle previsioni sdegnate si ingannò: trascorsero almeno mille e novecento anni circa da questa scenetta schizzata da Giovenale nella II Satira (qui nella traduzione di Ceronetti, per l’Einaudi, che risale al 1971) e non si misero agli atti matrimoni simbolici di tal fatta. Forse l’avvento del cristianesimo, di lì a poco, rovesciò la climax delle stravaganze promosse da un desiderio senza più freni. O si prese a guardare al corpo e all’eros in modo meno futile, lasciando da parte il tono parodistico della pratica cui la satira allude e trovando nel freno una nuova beatitudine. In ogni caso il traduttore avverte: «il classico è farmaco: inchioda alla vanità i giudizi sul presente». La assonanza con le nostre discussioni le svuota infatti del loro carico ‘innovativo’, della sensazione inebriante d’essere all’estremo della storia, e le riconduce alla instancabile ripetibilità dell’agire umano, copie più o meno riuscite, un d’après spesso dimentico dell’originale, un po’ vano appunto. Ma anche i moralisti classici possono ingannare, dal momento che il gioco della satira consiste nel contrapporre la corruzione moderna all’aureo mondo d’antan, alla laudatio temporis acti. I moralisti d’ogni secolo si sono aggrappati a questi versi latini per giustificare le proprie argomentazioni atrabiliari, il rimpianto rabbioso, avessero però la forma stilistica di Giovenale: a lui riuscì di trasformare il fiele in miele, secondo la formula del suo traduttore moderno.

Impazza nei nostri tempi una diversa satira. Né fiele né miele, sciropposa bevanda invece che riporta sull’etichetta una massima falso-antica benché in latino, risalente al letterato francese seicentesco Jean de Santeul e risuonante la bonarietà da oratorio: «castigat ridendo mores». Può la letteratura castigare qualcuno (a parte la fama dei letterati mediocri che si autopuniscono)? C’è un potente che temette davvero i poeti? Non sono più pericolosi gli azzeccagarbugli dell’opinione pubblica che manipolano l’uditorio con le peggiori banalità senza metrica? Il fatto è che nessuno dei contemporanei vuole conquistare la palma poetica quando scarica gli insulti con la scusa della satira. La volontà di dire tutto, di sfidare le buone maniere, si è tradotta in un diritto acquisito, avallato addirittura dalle Corti di cassazione, come la mutua e la pensione, che invoca al solito i «valori costituzionali», la cultura e la libertà, per proteggere ogni sberleffo come fosse un’opera d’arte.

La ideale «complicità con le altre persone che ridono», di cui parlava Bergson nel suo celebre «saggio sul significato del comico», sembra evocare ormai l’identità politica o quel che resta di essa: complici nella risata. E i complici formano un branco, come si usa dir oggi, un branco ridente: mai – sosteneva ancora Bergson – ci può essere identificazione con la vittima del riso. In tempi di buone intenzioni, di aggressività celate, non resta dunque che il riso per assediare e isolare lo speciale capro espiatorio. Piccole iene. Le parole talvolta sono pietre ma naturalmente la lapidazione dei frizzi e dei lazzi fa meno male delle pietre vere, è una lapidazione simbolica. La risata risulta comunque dura, tiene lontano una compassione anche fugace. In questi casi, il ‘castigo’ ghignante è forse indolore? Niente a che vedere con il sorriso generoso del saggio.

Presentando il suo Giovenale, Ceronetti metteva in guardia da simili degenerazioni: «Un moralista sapiente sa fermarsi in tempo, perché oltre la linea invisibile della saggezza c’è la cupidigia della distruzione del peccatore». Probabilmente un satirico giudizioso come il poeta latino sa bene che la sua opera letteraria non può redimere Roma, né raddrizzare caratteri e popoli, tutt’al più consolare i malinconici compagni elettivi dello scrittore altrettanto infelice. Il grande satirico è misericordioso, le sue amare visioni non vanno confuse con la «satire des petites gens» (Boissier) che solletica gli animi per produrre sorrisetti stenti. Il traduttore di Giovenale svelava nelle ultime righe della sua introduzione di quarant’anni fa il segreto del poeta e dei migliori moralisti: il combattimento con il male è mosso da un irresistibile fascino che esso esercita su di loro, al punto da dedicare la vita e la scrittura alle bruttezze che ci offendono. Del resto anche un Daumier si costringeva a non raffigurare mai il bello, a inseguire il ridicolo, a viaggiare perennemente nei «vagoni di terza classe».

martedì 1 marzo 2011

Gente di mondo

~ «UNA ANTICHISSIMA RAZZA FELICEMENTE MISTA» ~
~ HOFMANNSTHAL E SAVINIO CELEBRANO UN’ALTRA ITALIA ~

Non lasciamoci suppliziare dagli scritti sciovinistici in questi mesi del giubileo risorgimentale, l’Italia merita di meglio. Non rimpiangiamo la Riforma protestante mancata, che ci avrebbe omologato agli altri paesi, come ripetono i maniaci del mea culpa. Un aristocratico viennese di lontane origini ebraiche, che vantava una «goccia di sangue lombardo», Hugo von Hofmannsthal, massimo scrittore di lingua tedesca nel Novecento, può farci capire un’altra Italia, quella dimenticata dai critici contemporanei, tutti presi dall’entusiasmo per la dimensione unica, globale, vergognosi delle caratteristiche più eccentriche del Belpaese, cattolico, universalista, teatrale, spregiudicato e malizioso. Si rinnegò a lungo il barocco perché intriso di Controriforma (la recente riscoperta venne d’oltreconfine), ma temendo qualsiasi assonanza con l’arte del fascismo, le si regalarono sciaguratamente anche i classicismi d’ogni epoca, evitandoli come la peste; si lasciò in ombra il fatto che i geni del Rinascimento coincidevano con i papisti odiati da Lutero e che i manieristi tornati di moda erano cresciuti nella coltura post-tridentina, ragion per cui il ‘laico’ Roberto Longhi se la cavò con la grande trovata del Caravaggio ribelle che diventa personaggio-chiave della storia dell’arte italiana, uscendo in questo modo dal «buco nero del Manierismo e del Barocco, riflesso della medesima damnatio desanctisiana e poi crociana, della Riforma cattolica» (Gian Lorenzo Mellini).

Hofmannsthal che, esattamente cento anni fa, in coppia con Richard Strauss, deliziava il pubblico del teatro dell’opera di Dresda con Der Rosenkavalier (ecco un compleanno secolare che andrebbe celebrato con dovuta riconoscenza), festa allegrissima di intrighi galanti, era l’autore ideale per rovesciare l’idea dell’Italia tramandata dai Piagnoni. E in un brevissimo testo del 1927 dedicato ai Promessi Sposi e al suo autore, provò a riassumere la nostra cultura in poche righe, facendo aggio appunto su quel romanzo manzoniano che «rappresenta l’Italia dinanzi al mondo, quella vera Italia che si perpetua costantemente sotto qualsiasi stato espressivo, in virtù della saldezza straordinariamente elastica di una antichissima razza felicemente mista» («I Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni in Saggi italiani, a cura di Lea Ritter Santini, Oscar Mondadori). A scuola si è ormai tanto banali da ripetere che la protagonista sembra una santarellina, che il tono risulta moralista, niente a che vedere insomma con i romanzi moderni dei francesi e degli anglosassoni, Hofmannsthal, eccelso romanziere oltre che eccelso poeta, era di diverso parere.

«Il nobile e difficile concetto di italianità», dice il viennese, può essere ricostruito partendo da un romanzo che è considerato ‘romantico’ ma che non ha nulla del trasognato di cui facevano sfoggio i contemporanei d’oltralpe, «non sconfina mai nel sogno e nel capriccio», non si tormenta nella passione solitaria dell’individuo, la narrazione italiana essendo infatti corale, familistica, con madri, zii, cugini di primo e secondo grado, vicini di casa, parroci, frati, servitori, intrallazzatori, legulei: un presepio. In tale affollata quotidianità c’è «una conoscenza del mondo in cui nessuna nazione è pari a quella italiana». Nella patria del realismo, anche nel periodo della Romantik, «ogni figura agisce in ogni istante guidata dal proprio interesse in gioco – nulla di segno più opposto al sentimentale, al romantico, in ogni impulso c’è una coscienza dei limiti (intesi non come barriere sociali, ma stabiliti da Dio), addirittura una gioia nei limiti (e nel riconoscerlo sta il fascino della lettura) – nel contempo, però, in ogni istante si dà la possibilità di travalicare tutti i confini e di precipitare impetuosamente verso l’infinito, addirittura verso Dio». È un romanzo «laico» come Tom Jones, «giansenista» come ci insegnarono al liceo con il gusto della pedanteria, «ma nello stesso tempo – sostiene Hofmannsthal ricorrendo a parole assai impegnative – è impregnato di religiosità, di umana cristianità cattolica post-tridentina come nessun altro libro della letteratura mondiale». Un cristianesimo appunto cattolico, molto umano, saggio, tollerante che si fa largo tra le allucinazioni romantiche, tra le sperimentazioni più impudenti che già finivano nel silenzio e nel nichilismo. Di contro, «una umanità di stampo antico, vecchia e giovane insieme, impregnata fino al midollo dello spirito della cristianità cattolica; in questa sintesi verosimilmente imperfetta ci illumina il bagliore di una rivelazione, forse la più alta dell’italianità. Con questa persuasione nel cuore si potrebbe parlare di questo libro come d’un libro quasi indistruttibile, finché almeno reggano le fibre stesse di quest’antico popolo». La attuale disattenzione verso l’opera manzoniana dovrebbe dunque preoccuparci non poco: forse siamo tanto vecchi da essere còlti da una specie di Alzheimer collettivo. E ripieghiamo nella lettura delle lezioncine impartite dai giornalisti stranieri in prose senza garbo e senza stile.

Hofmannsthal insiste sull’antiromanticismo del romanzo e degli italiani, è bene ricordarsene mentre importiamo mode d’ogni dove, strappando le nostre radici. «Nulla è così lontano dal romantico quanto lo stile di questo libro annoverato tra i capolavori dell’epoca romantica. Persino la famosa ‘sobrietà’ antiromantica di Stendhal appare quasi affettata rispetto all’immediata, naturale sobrietà di questa narrazione». Domina qui la «naturalezza», e «mai un narratore è stato così meravigliosamente vicino e lontano, nella stessa misura, a tutti i personaggi», ideale allora per raccontare la vita, dove «ogni singola creatura ha un contorno assai morbido, mai netto». Romanzo di «un popolo la cui grandezza si fonda in un terribile realismo e la nobiltà nella passione», riesce sempre a evitare «il pregiudizio ostinato e il disprezzo».

A Milano Hofmannsthal dedicò un suo capolavoro, Reitergeschichte (Storia di Cavalleggeri), ovvero delle straordinarie immagini del Risorgimento italiano visto da Vienna, un racconto che dovrebbe essere obbligatorio leggere quale antidoto alle tetre riflessioni mazziniane che ci impongono da ogni parte per l’anniversario di Stato. Si tratta di «una cavalcata della morte» sullo sfondo di una Italia bellissima. L’autore, che era fiero delle sue ascendenze lombarde, ritrova in queste pagine il suo Sud, la parte meridionale, passionale, istintiva che rompe il perfetto ordine teutonico, la maestà delle bianche divise dei biondi soldati a cavallo. È la Milano della Prima guerra di indipendenza riflessa negli occhi dei cavalleggeri austriaci: non sono le virtù guerriere dei patrioti che suscitano ammirazione e rispetto bensì la città ambrosiana che risuona delle campane, i suoi giovani abitanti che si muovono come dèi nell’Olimpo, l’impareggiabile arte delle chiese che seduce anche i cuori dei soldati, la natura che si mostra in forme equilibrate e nitidissime.

A Milano, in questi giorni, Alberto Savinio torna ad allietare la città di cui auscultò il cuore con una esposizione della sua multiforme opera. Grazie a lui la metropoli lombarda, che suscita in genere scontati giudizi estetici, ebbe un libro amorosissimo di lodi. E in quel libro Savinio si diverte, come in una eco misteriosa delle parole manzoniane di Hofmannsthal, a centrare i sognatori nelle nebbie romantiche, gli adepti della melancholia da strapazzo, i sempiterni vestiti di nero per vezzo esistenzialista come certi patetici intellettuali germanici: «…gli Anglosassoni mancano spesso di realismo poetico, ignorano i valori poetici presenti, e li trasferiscono perciò in un mondo lontano, oscuro e incontrollabile come la Morte. […] Che altro rivela questa fiducia nel poetico futuro della morte, se non una mancanza di poetico presente. […] Chi è vacuo di valore, crede nella morte come valore supremo, e dalla Morte aspetta ciò che la vita non gli ha dato. Per supremo sentimento di volgarità, si desidera essere ‘diversi’ da come si è. Quindi nasce l’estetismo: questo mettersi in bella, questo parlare festivo, questo correggere e abbellire la propria realtà. E quale più radicale mutamento della Morte? […] Non per nulla la Morte è maestra di estetismo […] André Suarès nota che la letteratura italiana non ha mai preso sul serio il dolore e la morte. Nostra superiorità mentale sugli Anglosassoni, nostro classicismo». (Ascolto il tuo cuore, città).